Giraldi Cintio, Giovanbattista
Letterato ferrarese (1504-1573), professore di retorica nello Studio di Ferrara; compose nel 1549 un Discorso intorno al comporre dei romanzi (Venezia 1554, ripubbl. a Milano nel 1864), rivendicando l'indipendenza dei poemi romanzeschi dalle regole della poesia classicistica e indicando l'Ariosto come modello della poesia epica. Il G. naturalmente nell'esaltare l'originalità della letteratura volgare e quindi nel trattare ampiamente i problemi della versificazione e dell'elocuzione dovette necessariamente occuparsi di D., anche se la sua fedeltà al classicismo cinquecentesco, ancorato alle teorie del Bembo, lo portava a una decisa simpatia per il Petrarca. Tuttavia oltre a una lode generica nei riguardi di D., che per primo avrebbe nella poesia introdotto il " costume " di " lodare e biasimare " gli avvenimenti a lui contemporanei, e a ricordare i commenti alle canzoni del Convivio, per illuminare i concetti " grandi ed oscuri ", il critico fermò l'attenzione, sia pure per un momento, sulla versificazione della Commedia.
Così cercando di dare una ragione piuttosto fragile della scelta dell'ottava da parte dei poeti epici, dimostrava la sua decisa preferenza per l'uso della terzina, di cui riconosceva, sia pure erroneamente, il probabile inventore in D., concludendo: " ...mi pare che questa sorte di rima.., sia la più grave e la più grande ch'abbia insino ad ora la nostra lingua, per avere a trattare materia lunga ed eroica, come se n'ha l'esempio da Dante che forse ne fu l'inventore... Perocché Dante spiegò (benché assai ruvidamente) le cose di filosofia e di teologia con modi poetici in questa sorte di versi ". Se nella scelta delle rime gli accadde di citare ancora una volta la testimonianza di D., indubbiamente l'influenza bembesca si rivela più evidente quando il G. si sofferma nella scelta delle espressioni e delle parole. Se Petrarca seppe fare buon uso della " licenza delle voci " e quindi della scelta delle parole, non altrettanto, afferma il G., si può dire di D., " perché, o per vizio di quell'età, o per essere egli di quella natura, fu tanto licenzioso che passò in vizio la sua licenza ". E se l'uso " comune del parlare del popolo " può talvolta rendere meglio " l'espressione di qualche affetto ", tuttavia D. ebbe la colpa di esagerare poiché " più di plebee ne traspose nella sua Commedia che non sarebbe stato bisogno ad osservatamente scrivere ". Naturalmente a ogni considerazione su D. segue un confronto sempre favorevole per il Petrarca, che qualifica ancor meglio il valore delle note sparse nel Discorso.
Bibl. - C. Guerrieri Crocetti, G.B.G. e il pensiero critico del sec. XVI, Milano-Genova 1932; E. Bonora, Il " Discorso intorno al comporre dei romanzi " del G., in Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, IV, Milano 1965, 523-525.