GIOVANNA I d'Angiò, regina di Sicilia
Nacque nel dicembre 1325, primogenita dell'unico figlio di re Roberto d'Angiò, Carlo duca di Calabria, e della sua seconda moglie Maria di Valois. Poiché nell'aprile 1327 un fratello minore di G. morì pochi giorni dopo la nascita e suo padre spirò il 9 nov. 1328, all'età di due anni G. era già destinata a essere la futura erede del Regno di Napoli e della Contea di Provenza.
La decisione che in un certo senso avrebbe dovuto segnare il destino di G. risaliva però a circa un trentennio prima della sua nascita: a causa della morte prematura del primogenito Carlo Martello e dell'entrata nell'Ordine francescano del secondogenito Ludovico, re Carlo II d'Angiò aveva stabilito nel 1297, con l'approvazione di papa Bonifacio VIII, che il figlio terzogenito Roberto gli succedesse sul trono di Napoli, mentre al figlio di Carlo Martello, Carlo Roberto, fosse riservata la Corona ungherese, che gli Angioini rivendicavano in virtù del matrimonio di Carlo II con Maria d'Ungheria. Nonostante negli anni successivi Carlo Roberto riuscisse a far valere le rivendicazioni angioine sull'Ungheria e inizialmente non mostrasse alcuna aspirazione alla corona di Napoli, c'era da aspettarsi - soprattutto dopo la morte di Carlo di Calabria, cioè dopo l'estinzione della linea maschile del ramo angioino di Napoli - che il re d'Ungheria avrebbe tentato di fare valere i propri diritti ereditari anche sul Regno. Pertanto, sin dal 1329 re Roberto condusse con il nipote sul trono ungherese trattative che portarono all'annuncio del matrimonio del secondogenito di Carlo Roberto, Andrea, con G. e alla formale stesura di un contratto nuziale, stipulato il 26 sett. 1333 a Napoli, in base al quale G. e il suo futuro consorte, di appena sei anni, ricevettero in feudo il ducato di Calabria. Decisivo, nel contratto matrimoniale, fu però che Roberto non prendesse alcun impegno in merito all'assegnazione della corona al futuro marito di Giovanna. A gettare un'ulteriore ombra sulla futura sovranità della regina contribuì il testamento del suo bisnonno Carlo II, redatto il 3 marzo 1308, che prevedeva espressamente per la Contea di Provenza una successione maschile, sicché il figlio quartogenito di Carlo II, Filippo I principe di Taranto, dopo la morte di Carlo di Calabria avanzò pretese sulla Contea.
Nonostante Filippo, poco prima di morire, su pressione del fratello maggiore Roberto avesse rinunciato per sé e per i propri discendenti a ogni pretesa sulla Provenza, la sua seconda moglie Caterina di Valois era ben decisa ad assicurare a uno dei suoi due figli, Roberto o Luigi, il possesso della Contea e la corona di Napoli. La sua grande rivale nella lotta per la titolarità del Regno, che era destinata a scoppiare dopo la morte di re Roberto, era Agnese di Périgord, moglie del sestogenito di Carlo II, Giovanni duca di Durazzo (morto nel 1335), nonché sorella del potente cardinale Talleyrand di Périgord, la quale, con l'appoggio della Curia, sperava di poter presentare uno dei suoi tre figli come possibile candidato al trono. Il testamento di re Roberto, redatto il 16 genn. 1343, contribuì a un ulteriore inasprimento del futuro conflitto, perché ancora una volta sanciva espressamente la successione di G. o di Maria, la più giovane sorella, nel Regno e in Provenza, richiedeva l'istituzione di un Consiglio di reggenza fino a che l'erede al trono non avesse compiuto 25 anni e non concedeva alcuna influenza sul governo del Regno né al papa, da cui il Regno proveniva per investitura feudale, né ad Andrea d'Ungheria né a nessuno dei rami laterali di Taranto e di Durazzo.
G., che dopo la morte di Roberto, avvenuta il 20 genn. 1343, gli subentrò come regina di Napoli e contessa di Provenza, era comprensibilmente poco adatta per questi compiti non solo a causa della giovane età, ma anche per aver ricevuto un'educazione appena indispensabile. Aveva trascorso la fanciullezza quasi esclusivamente con la sorella minore Maria e il proprio futuro marito in Castelnuovo e a Castellammare di Stabia. Il matrimonio con Andrea, in occasione del quale re Roberto aveva probabilmente fatto in tempo a donare il famoso quadro con S. Ludovico d'Angiò dipinto da Simone Martini, fu celebrato il 22 o il 23 genn. 1343 (secondo il Chronicon Siculum incerti authoris, p. 7 però, il 23 ag. 1342). Sembra tuttavia che sin da subito cominciarono a verificarsi tensioni tra il Consiglio di reggenza e la regina, acuite dalle interferenze esterne: di Caterina di Valois, Agnese di Périgord, Filippa e Sancia de' Cabanni, molto vicine queste ultime alla regina, e di elementi ungheresi che si erano trasferiti nel Regno insieme con Andrea. In questo gioco di intrighi Agnese di Périgord riuscì dapprima a prendere il sopravvento e a imporre con l'appoggio del fratello Talleyrand, il 21 apr. 1343, il matrimonio del figlio primogenito Carlo (I) di Durazzo con Maria, la sorella più giovane di G. ed erede al trono in caso di morte della giovane regina, il che significava un'esplicita infrazione alle disposizioni testamentarie di Roberto, nelle quali era stato stabilito il matrimonio di Maria con re Luigi I d'Ungheria, fratello maggiore di Andrea, o con un principe francese. Un ulteriore elemento di tensione in questa lotta per il potere fu rappresentato dall'arrivo a Napoli, il 24 luglio 1343, di Elisabetta, regina madre d'Ungheria, la quale intervenne a favore di una condivisione del potere e di un riconoscimento del figlio secondogenito come re. Sebbene in un primo tempo G. avesse sostenuto presso papa Clemente VI la richiesta di Andrea di essere incoronato e riconosciuto re, i ripetuti interventi di Elisabetta nelle questioni di governo portarono a una definitiva rottura tra G. e il consorte, per cui il papa, temendo un pericoloso degenerare della situazione, si decise a intervenire: il 28 nov. 1343 esonerò il Consiglio di reggenza dalle sue funzioni e inviò nel Regno il cardinale Aimeric de Châtelus in qualità di legato. Il cardinale, arrivato nel Regno all'inizio del maggio 1344, tentò con misure energiche di revocare alcune decisioni sbagliate della regina, come la concessione troppo avventata di feudi e rendite statali, mentre già il 19 genn. 1344 mediante un concistoro pontificio era stato concesso il titolo reale ad Andrea, ancora escluso dal potere politico. Aimeric dovette però scontrarsi presto con un'opposizione crescente, perché l'entrata della vedova di re Roberto, Sancia, nel monastero di S. Chiara, la partenza della madre di Andrea alla fine di febbraio 1344 e l'investitura feudale della sola G. con il titolo di regina di Napoli, effettuata da Aimeric il 28 ag. 1344, accrebbero la discordia tra G., ora del tutto sotto l'influenza dei Cabanni, e il consorte, che ancora di più cercava sostegno nel suo entourage ungherese. La corte fu unita soltanto nel respingere il legato e il suo intervento negli affari del Regno, sicché questi, irritato dai continui contrasti, il 24 maggio 1345, dopo appena un anno, lasciò Napoli e fece rientro in Curia.
Dopo il fallimento di questo primo tentativo di Clemente VI di intervenire in maniera energica nella questione della monarchia meridionale, il 30 genn. 1345 al posto di Aimeric fu nominato, con la sola carica di nunzio privo di poteri, l'arcivescovo di Chartres Guglielmo Lamy, il quale giunse a Napoli prima della partenza del legato. Il passo indietro compiuto dalla Curia dal governo del Regno ebbe però come conseguenza la definitiva esplosione del conflitto già da tempo latente tra i molti partiti che agitavano la corte di Napoli: da un lato G. e i Cabanni; quindi Andrea e il suo seguito ungherese, la principessa di Taranto, Caterina di Valois e i suoi due figli più grandi, e ancora Agnese di Périgord e il suo primogenito Carlo, duca di Durazzo. In questo conflitto Caterina di Valois, ora - almeno secondo quanto riferisce il cronista contemporaneo Domenico da Gravina - sotto l'influenza del suo consigliere e probabilmente amante Nicola Acciaiuoli, giocava il ruolo della "vedova nera". Costei, secondo il resoconto del cronista pugliese - da accogliere comunque con il beneficio del dubbio -, dapprima fece avvelenare la sua rivale Agnese, perché, specialmente dopo il matrimonio di Carlo di Durazzo con Maria, vedeva crescere a corte l'influenza della duchessa di Durazzo e perciò temeva che i propri figli Roberto e Luigi potessero essere definitivamente esclusi dalla successione al trono. In ogni caso, dopo la morte della rivale, Caterina acquistò un'influenza predominante su G. e progettò verosimilmente già a questo punto l'eliminazione di Andrea d'Ungheria, il quale costituiva l'ultimo grande ostacolo all'ascesa al trono di uno dei suoi figli.
Dall'aprile 1345, dopo che era divenuta nota una gravidanza della regina, il marito di G. aveva sempre più esplicitamente dichiarato di non volersi accontentare del ruolo di principe consorte e aveva richiesto, sostenuto dal fratello Luigi d'Ungheria, una partecipazione attiva al governo del Regno. Poiché papa Clemente VI si era nel frattempo deciso a fare incoronare re di Sicilia G. e il marito, un gruppo di congiurati, che si sentiva minacciato dalle pretese dell'ungherese, volle chiudere la partita e nella notte del 19 sett. 1345 strangolò Andrea ad Aversa. La vera mandante del complotto fu probabilmente Caterina di Valois insieme con il figlio secondogenito Luigi di Taranto, anche se nei piani di assassinio erano coinvolti pure il siniscalco Roberto de' Cabanni, il maresciallo Gazo di Denisy, Bertrando Artus, nonché forse Roberto di Taranto e Carlo di Durazzo: un gruppo di persone legate a G. da stretti rapporti e che non è improbabile che, almeno alcune di esse, avessero intrattenuto con lei, almeno temporaneamente, relazioni amorose. Tuttavia una effettiva partecipazione alla congiura da parte della regina, che il 24 dic. 1345 diede alla luce il bambino riconosciuto figlio di Andrea e battezzato con il nome di Carlo Martello, non può essere provata, mentre non è da escludersi un suo coinvolgimento passivo.
Pochi giorni dopo il delitto un cortigiano subalterno fu giustiziato come il principale responsabile, ma ciò non evitò che Luigi il Grande re d'Ungheria, in particolare, ma anche papa Clemente VI, che temeva a ragione una possibile spedizione punitiva da parte del fratello della vittima, presentassero aspre proteste e richiedessero la punizione dei veri colpevoli. Questa reazione costrinse, sotto la pressione crescente, a punire almeno come capri espiatori anche i mandanti della congiura, tanto più che il papa, su pressione di Talleyrand di Périgord, era fermamente deciso a far condurre un'inchiesta dal duca di Andria e conte di Montescaglioso, Bertrando Del Balzo, per scoprire gli effettivi responsabili del delitto.
La reazione pontificia fu pure motivo dello scoppio, a Napoli, il 6-10 marzo 1346, della rivolta preparata da Carlo di Durazzo e da Roberto di Taranto: di essa voleva approfittare quest'ultimo per sbarazzarsi del fratello più giovane Luigi che, entrato nel frattempo (grazie alle manovre materne) nel favore particolare della regina, lo aveva sostituito nel ruolo di amante e rappresentava un rivale alla mano di Giovanna. Dopo la confessione estorta da Roberto di Taranto a un cortigiano di basso rango, il quale rivelò i nomi di alcuni responsabili dell'assassinio del principe ungherese, e sotto la pressione del popolo che per qualche giorno assediò Castelnuovo e assalì i palazzi dei sospetti congiurati, la regina si vide costretta a consegnare a Roberto di Taranto e a Bertrando Del Balzo alcune persone coinvolte nell'omicidio, come Gazo de Denisy, Betrando Artus e l'intera famiglia dei Cabanni: tutti furono rinchiusi in Castel dell'Ovo. Chi trasse un effettivo vantaggio dal tumulto fu Roberto di Taranto, che il 26 apr. 1346 ottenne la nomina a capitano generale del Regno e al quale, dieci giorni dopo, fu affidato il controllo di tutte le entrate e collette delle province. Il principe di Taranto si impadronì anche della persona della regina, stabilì la propria residenza al suo fianco in Castelnuovo e la incalzò affinché chiedesse al papa una dispensa per potersi unire in matrimonio con lui. Suo fratello Luigi, in verità, prese posizione con le proprie truppe nei dintorni di Napoli, ma almeno per il momento si lasciò tacitare da una pensione annua di 6000 once d'oro; Carlo di Durazzo, invece, tentò di allacciare rapporti con re Luigi d'Ungheria e il conte ribelle di Fondi Nicola Caetani.
Intanto si manifestarono i primi segnali della spedizione punitiva progettata contro il Regno di Napoli da Luigi d'Ungheria, il quale considerava corresponsabili della morte del fratello tanto G. quanto altri membri della famiglia reale. Dapprima la progettata invasione del Regno fu rinviata a causa del conflitto di Luigi con Venezia per il dominio su Zara e dell'intervento del papa; per le pressioni del pontefice e nonostante la resistenza della regina, Bertrando Del Balzo nel marzo 1346 si decise a consegnare al carnefice i congiurati incarcerati, per dimostrare al re d'Ungheria che la corte napoletana attribuiva importanza alla punizione dei colpevoli della morte di suo fratello. Così, in agosto, Gazo de Denisy, Roberto de' Cabanni e due altri congiurati furono giustiziati, il che diede luogo a una nuova esplosione della collera popolare. G. riuscì in un primo tempo a salvare soltanto la sua stretta fiduciaria Sancia de' Cabanni, ma in seguito anche quest'ultima per l'insistenza del nuovo legato papale Bertrando di Deux, giunto a Napoli il 20 novembre, fu giustiziata il 29 dic. 1346, mentre la zia di lei Filippa era già morta in prigione. Nel contempo il papa costrinse G. a rimuovere Roberto di Taranto dal suo ufficio di capitano del Regno e a cacciarlo da Castelnuovo, dato che il principe si era mostrato totalmente incapace di reprimere la ribellione del conte di Fondi, mentre la sua permanenza a corte accentuava anche la rabbia di Luigi d'Ungheria. G., che preferiva il fratello minore di Roberto, attese soltanto l'occasione propizia per sbarazzarsi dell'ospite indesiderato: sfruttò l'assenza del principe in occasione delle esequie della madre Caterina, morta ai primi di ottobre 1346, per vietargli l'ulteriore accesso alla reggia. Nonostante il legato pontificio riuscisse almeno a ottenere che i membri della famiglia reale nel dicembre 1346 rendessero l'omaggio al figlio di G., Carlo Martello, e in questo modo riconoscessero i suoi diritti di successione, in seguito né lui né papa Clemente VI riuscirono a dissuadere Luigi il Grande dai preparativi della campagna militare contro il Regno né poterono controllare la situazione caotica prodottasi a corte. G., infatti, creava e deponeva funzionari a proprio arbitrio, con il risultato di ridurre le finanze statali sull'orlo della bancarotta a causa della concessione e la conferma di esorbitanti pensioni annue a beneficio dei membri della famiglia reale.
In questa situazione l'avanguardia dell'esercito ungherese, penetrata in Abruzzo nel maggio 1347, poté occupare la provincia quasi senza colpo ferire, il che provocò nuovi tumulti a Napoli per l'incapacità della regina di affrontare la situazione. G., peraltro, aveva ripreso nel frattempo la propria relazione con Luigi di Taranto, con il quale il 22 ag. 1347, pur in assenza della dispensa papale, si unì in matrimonio. Una conciliazione tra i membri della famiglia reale nell'estate 1347 fu solo di breve durata, perché un tentativo di Carlo di Durazzo di riconquistare L'Aquila fallì miseramente, soprattutto per effetto del mancato appoggio di G. e del suo consorte. Nella situazione critica dell'autunno 1347, la regina riuscì almeno a ottenere un parziale successo diplomatico e a evitare l'apertura di un secondo fronte militare: a seguito di una fallita spedizione della flotta napoletana contro Messina (estate 1345) e della riconquista di Lipari (agosto 1347) da parte dei Siciliani, la regina poté concludere con Giovanni da Randazzo, che teneva la reggenza per il minorenne re di Sicilia Ludovico II d'Aragona, il 7 nov. 1347 a Catania un trattato di pace. Questo ripeté nella sostanza il contenuto della pace di Caltabellotta e confermò l'indipendenza dell'isola.
La pace con la Sicilia non riuscì tuttavia a evitare l'invasione (preparata con grande abilità diplomatica) del grosso dell'esercito ungherese, guidato da Luigi il Grande in persona, nella primavera ed estate 1347. Già nel dicembre 1347 il re riuscì a occupare tutti gli Abruzzi, senza trovare resistenza degna di nota. Le truppe che sotto il comando di Luigi di Taranto, nominato già il 25 sett. 1347 capitano generale del Regno, avevano formato un'estrema linea difensiva presso Capua e che avrebbero dovuto arrestare l'avanzata di Luigi il Grande su Napoli, all'avvicinarsi dell'esercito ungherese si dispersero, mentre i conflitti all'interno alla famiglia reale, anche di fronte alla diretta minaccia della sopravvivenza del dominio angioino nell'Italia meridionale, non riuscivano a sopirsi. Dato che Roberto di Taranto e Carlo di Durazzo avevano contemporaneamente abbandonato il marito di G. ed erano fuggiti a Napoli, le sorti della regina sembrarono perdute per sempre, per cui G. decise di fuggire in Provenza. Nella notte del 15 genn. 1348 a bordo di due galee lasciò precipitosamente Napoli con un piccolo seguito, senza aspettare il ritorno del marito da Capua; questi riuscì a imbarcarsi solamente due giorni dopo insieme con il suo confidente Niccolò Acciaiuoli. Non è chiaro perché G. abbia abbandonato a Napoli il figlioletto. Forse fu Carlo di Durazzo che le impedì di portare con sé l'erede al trono (come suppone Léonard, 1932, II, pp. 30 s.), oppure la regina aveva maturato, soprattutto sotto l'influenza di Luigi di Taranto, un'avversione per il figlio avuto dal primo marito, che lei non aveva amato; in questo modo Luigi poteva sperare di assicurare la corona a un figlio che gli avrebbe dato G., che era incinta, cosa che non sarebbe stata impossibile se il piccolo Carlo Martello fosse caduto nelle mani di Luigi d'Ungheria.
Questi, dopo avere spazzato ogni resistenza, il 17 genn. 1348 entrò in Aversa, dove due giorni dopo si recarono Roberto di Taranto e il fratello minore Filippo II, insieme con Carlo di Durazzo e i suoi due fratelli minori Roberto e Luigi, per fare atto di sottomissione a Luigi I e riconoscerlo come reggente del Regno di Napoli per il minore Carlo Martello. Dopo averli accolti onorevolmente, all'improvviso il 22 gennaio il re d'Ungheria fece arrestare i cinque principi e uccidere il loro seguito. Il re, che considerava - probabilmente a torto - Carlo di Durazzo il responsabile principale dell'assassinio di suo fratello e di una congiura ordita contro lui stesso, lo fece decapitare il giorno dopo; mentre i due tarantini e i due fratelli di Carlo di Durazzo furono inviati come prigionieri in Ungheria, destinati a riacquistare la libertà solo nell'autunno del 1352.
G. giunse a Nizza il 20 genn. 1348 e proseguì subito per Marsiglia, dove ricevette una festosa e calorosa accoglienza e la popolazione le rese il giuramento di fedeltà.
Fredda fu invece l'accoglienza nell'antica capitale della Contea, Aix-en-Provence, perché la popolazione era risentita con G. soprattutto per la nomina di funzionari di provenienza esterna e temeva che lei disponesse la vendita di territori provenzali alla Corona francese, per migliorare la situazione catastrofica delle proprie finanze. In due atti del 17 e del 19 genn. 1348 G. dovette perciò promettere che non avrebbe nominato in futuro funzionari stranieri e che non avrebbe alienato parti della Contea. Vero obiettivo del viaggio di G. era la corte papale ad Avignone, dove la regina voleva scagionarsi dalle accuse di connivenza nell'omicidio del suo primo marito, ottenere la dispensa per il suo matrimonio con Luigi di Taranto e concordare con il papa misure per riottenere il Regno. Il papa, in considerazione soprattutto di una ambasceria di Luigi d'Ungheria che si trovava in Curia, e della peste, che proprio allora imperversava ad Avignone, tardò dapprima a ricevere la regina. Solo dopo l'arrivo ad Avignone di Luigi di Taranto e di Niccolò Acciaiuoli, avvenuto il 14 marzo 1348, G. riuscì, il giorno dopo, a fare il proprio ingresso con lo sposo e il suo consigliere prediletto nella città. Già all'inizio di aprile Clemente VI concesse a lei, incinta di cinque mesi, e al marito la dispensa richiesta; mentre l'indagine, che una commissione del Collegio cardinalizio avrebbe dovuto svolgere sull'assassinio di Andrea, fu bloccata, perché in Curia, dopo la vendetta perpetrata da Luigi ad Aversa, regnava un clima apertamente antiungherese. Sebbene Clemente VI mettesse generosamente a disposizione mezzi finanziari per la riconquista del Regno, questi non furono sufficienti per il finanziamento di una campagna militare. Perciò la regina il 9 giugno 1348, contro il volere della popolazione e in violazione della promessa fatta il 19 gennaio, fu costretta a vendere Avignone al papa per 80.000 fiorini, ricavandone però in effetti soltanto 62.000.
La situazione nel Regno registrò una svolta decisiva con la partenza di Luigi I per l'Ungheria, il 27 maggio 1348, imposta dallo scoppio dell'epidemia di peste a Napoli e da un aggravamento del suo conflitto con Venezia. Sebbene Luigi avesse preso misure incisive per consolidare la sua posizione nel Regno e per riavviare un'amministrazione regolare, il suo dominio rimase impopolare: pesavano a suo sfavore la vendetta contro i sospettati dell'assassinio del fratello, soprattutto l'esecuzione di Carlo di Durazzo e il trasferimento in Ungheria, il 2 febbr. 1348, dei membri della famiglia reale prigionieri e del piccolo Carlo Martello. Ciò significava buone possibilità per G. di riconquistare il Regno perduto. In effetti, dopo la partenza del re a Napoli scoppiarono subito rivolte contro i suoi vicari Corrado (il Corrado Lupo delle fonti italiane) e Ulrico Wolff di Wolfurt, e un'ambasceria della città chiese alla regina di fare ritorno.
Nonostante la nascita della figlia Caterina (destinata a morire poche settimane, o mesi, dopo) facesse rinviare in un primo momento il ritorno di G. e del marito nel Regno, il 28 luglio 1348 la coppia reale poté imbarcarsi a Marsiglia e il 17 agosto giunse a Napoli, dove fu accolta con entusiasmo. Come immediata necessità si impose la guerra contro gli invasori ungheresi, che controllavano i quattro castelli strategicamente importanti nella capitale (Castelnuovo, Castel dell'Ovo, Castel Capuano, Castel Sant'Elmo) e una grande parte del Regno. Con la presa del Maschio Angioino, avvenuta il 17 genn. 1349, fu compiuta la definitiva riconquista di Napoli e dintorni, ma, non appena fu sventata la minaccia più grave, nella famiglia reale scoppiò di nuovo un aperto conflitto.
Luigi di Taranto tra il settembre 1348 e l'inizio di febbraio 1349 tentò di scacciare le truppe ungheresi dalla Puglia, ma, a parte la riconquista di Lucera e di alcuni porti adriatici, la campagna si risolse in un clamoroso insuccesso. Dato che già durante il soggiorno nella Francia meridionale gli era stato conferito dalla moglie il titolo di conte di Provenza e, subito dopo il ritorno a Napoli, il 16 febbr. 1349 pure quello di re, Luigi, anche contro la volontà della moglie, volle intervenire attivamente nel governo. Suo attivo sostenitore era sicuramente l'Acciaiuoli il quale, durante il soggiorno della coppia in Provenza, grazie al suo ruolo di intermediario con la Curia, aveva curato per la prima volta una parte degli affari di Stato e perciò alla fine di giugno 1348 era stato nominato siniscalco del Regno e investito della contea di Terlizzi. Il fiorentino pensava che fosse venuto il momento di concentrare nelle proprie mani tutto il potere. Dapprima, su sua istigazione, Luigi fece allontanare dalla Cancelleria Bertrand Rodulphe de La Bréole, devoto a G., il quale durante il soggiorno provenzale e anche dopo il rientro nel Regno aveva ricoperto provvisoriamente l'ufficio di protonotario, e cominciò a intromettersi attivamente nell'amministrazione della Provenza. Paradossalmente, però, furono proprio la fallita spedizione di Luigi in Capitanata e la conseguente controffensiva degli Ungheresi, che nell'aprile 1349 avanzarono di nuovo fino a Napoli e riuscirono a riprendere Acerra e Aversa, a rafforzare la sua posizione nei confronti della regina. Il 25 aprile Luigi fece arrestare e subito dopo giustiziare il più stretto collaboratore e probabilmente amante di G., il tesoriere Enrico Caracciolo. Una disonorevole ritirata dei contingenti feudali napoletani dinanzi alle truppe ungheresi il 6 giugno 1349 presso Melito a sud di Aversa, nella quale 25 conti e baroni caddero nelle mani del nemico, rafforzò ancora di più la posizione di Luigi, dato che G. era stata privata dei suoi più fedeli consiglieri.
Alla fine Luigi - detestato con tutto l'animo dal Petrarca e dal Boccaccio nonché da Matteo Villani- lasciò cadere la maschera e mostrò il proprio carattere violento. Trattò G. più come una schiava che come una moglie: secondo una fonte (Matteo Villani, X, 100) non le risparmiò neanche le percosse e la escluse del tutto dal governo dello Stato. Dinanzi alla difficile situazione nel Regno, Clemente VI nominò nuovo legato il cardinale Annibaldo Caetani di Ceccano, che giunse a Napoli il 2 luglio 1349: il 23 luglio riuscì a concludere con Corrado di Wolfurt un armistizio valido fino al Natale 1350 e il 10 agosto convinse le compagnie di mercenari, in cambio del pagamento della cospicua somma di 250.000 fiorini, ad abbandonare i territori occupati nella Terra di Lavoro. Non riuscì però a ricomporre la discordia tra la regina e il marito. G., perciò, per sottrarsi alla tirannide di Luigi di Taranto e porre il Regno formalmente sotto il governo del papa, appoggiata dal legato e da Bertrand Rodulphe de La Bréole, decise di fuggire di nuovo in Provenza. Il piano fu però scoperto dal consorte e dall'Acciaiuoli, e il 15 genn. 1350 in una umiliante cerimonia in Castelnuovo G. fu costretta a confessare i suoi piani di fuga e a revocare tutte le lettere dirette alla Curia con le quali aveva chiesto a Clemente VI di assumere il governo del Regno.
Nonostante la tregua dell'estate 1349, Luigi d'Ungheria dall'inizio del 1350 intraprese nuovi preparativi per una seconda spedizione nel Regno, con lo scopo di risolvere una volta per tutte la questione napoletana. Per facilitare l'impresa, in accordo con le disposizioni testamentarie di Roberto, intendeva sposare la sorella più giovane di G., Maria, che dal ritorno della regina dalla Provenza, come potenziale rivale per la corona, era tenuta prigioniera in Castel dell'Ovo; G. avrebbe quindi dovuto rinunciare al trono di Napoli, ma le sarebbe rimasta la Contea di Provenza. Dopo avere stipulato una tregua con Venezia che permise il transito per il mare Adriatico, il 23 o 24 apr. 1350, Luigi il Grande sbarcò con una grossa flotta a Manfredonia. Questa volta però incontrò una resistenza maggiore che nel suo primo attacco e solo il 1° luglio 1350 giunse ad Aversa, che assediò invano. Soprattutto, Luigi non riuscì nella misura sperata a sfruttare a proprio favore il conflitto interno alla famiglia reale. Nonostante il tentativo di bloccare Napoli dal mare e da terra, gli mancò il successo decisivo e perciò tentò di prendere d'assalto Aversa, ma alla fine di luglio o agli inizi di agosto fu ferito, il che rinviò ulteriori operazioni militari. Poiché contemporaneamente giunse a Napoli una flottiglia provenzale con a bordo il plenipotenziario pontificio Raimondo Sequet, vescovo di Saint-Omer, la situazione volse definitivamente a favore degli Angioini di Napoli. Alla fine di settembre, anche a causa di difficoltà finanziarie, il re d'Ungheria acconsentì a una tregua fino al 1° apr. 1351, che gli permise almeno di salvare la faccia. Sia Luigi d'Ungheria sia G. durante questo periodo avrebbero dovuto lasciare il Regno e attendere una sentenza del papa sull'assassinio di Andrea d'Ungheria. Se la regina fosse risultata colpevole, il Regno e la Provenza sarebbero andati al suo rivale; se il verdetto le fosse stato favorevole, Luigi avrebbe dovuto sgomberare tutte le conquiste in Italia meridionale in cambio di un indennizzo di 300.000 fiorini.
Contemporaneamente, il plenipotenziario pontificio riuscì a determinare una temporanea svolta nella lotta per il potere tra G. e il marito. Dinanzi a un'atmosfera sempre più minacciosa a Napoli e a un ultimatum di Raimondo Sequet a Luigi di Taranto, quest'ultimo cedette e rinunciò a ogni interferenza almeno nel governo della Provenza. Il 17 sett. 1350 Luigi di Taranto, secondo gli accordi presi con Luigi d'Ungheria, fu obbligato a imbarcarsi per la Provenza insieme con G., mentre il sovrano ungherese lo stesso giorno lasciava Aversa per Roma, da dove fece ritorno in patria. Maria d'Angiò, che si era già considerata futura regina di Napoli e d'Ungheria, fu invece costretta a sposare Roberto Del Balzo, il cui padre Ugo aveva comandato la flotta provenzale che aveva liberato la regina, e avrebbe dovuto essere condotta anche lei in Provenza. Ma Luigi di Taranto, appoggiato abilmente da Niccolò Acciaiuoli, fu in grado di riacquistare il sopravvento, poiché, con l'aiuto della popolazione, nel porto di Gaeta riuscì con la forza a prendere la galera sulla quale si trovavano G. e Ugo Del Balzo, uccidendo quest'ultimo con le proprie mani. Così, invece di raggiungere la Provenza, G. fu costretta dal marito a trascorrere l'inverno con lui a Gaeta. Luigi - o meglio l'Acciaiuoli - nella lotta per il potere con sua moglie aveva conseguito in questa maniera la vittoria definitiva ed era indubbiamente padrone della situazione.
Il successo dell'Acciaiuoli consistette però soprattutto nel fatto che in seguito egli riuscì a ottenere un miglioramento della situazione critica del Regno, perché nonostante i suoi difetti caratteriali egli si rivelò un uomo di Stato senz'altro capace, pur mancandogli un'effettiva comprensione del mutato ruolo del Regno nella politica internazionale alla metà del XIV secolo. Subito dopo il ritorno di G. e Luigi a Napoli il 20 febbr. 1351, l'Acciaiuoli diede inizio ai preparativi di una campagna per la riconquista dei territori ancora occupati dagli Ungheresi e tentò di ottenere la liberazione sia di Roberto e Filippo II di Taranto, sia di Luigi e Roberto di Durazzo, ancora prigionieri a Visegrad. Sebbene una campagna militare condotta negli Abruzzi dal settembre 1351 al gennaio 1352 fosse rimasta senza risultati tangibili, grazie alla mediazione di Clemente VI, il 23 marzo 1352 a Napoli poté essere conclusa una pace vantaggiosa con Luigi d'Ungheria, il quale promise la liberazione dei prigionieri in cambio di un risarcimento adeguato e di un'amnistia generale per tutti i suoi seguaci nel Regno, mentre i territori ancora occupati dalle truppe ungheresi avrebbero dovuto essere consegnati dapprima a un rappresentante pontificio. Ancora dopo qualche esitazione, nel giugno 1352 Luigi d'Ungheria ratificò questo patto e rinunciò al Regno di Napoli; mantenne invece rivendicazioni sui feudi del nonno Carlo Martello, il principato di Salerno e l'Onore di Monte Sant'Angelo. Un cospicuo successo della politica dell'Acciaiuoli fu l'assenso del papa, che si era finora rifiutato di conferire il titolo di re a Luigi di Taranto, alla incoronazione della coppia reale. Così, il 23 maggio 1352, prima Luigi e poi G. poterono essere incoronati dall'arcivescovo di Braga Guillaume de La Garde nell'Ospizio tarantino di Napoli, alla presenza di numerosi dignitari del Regno e della Provenza, ma anche di delegazioni di città toscane e umbre. Sulla cerimonia, in verità, gettò un'ombra uno spiacevole incidente: durante la tradizionale cavalcata attraverso la città a Luigi cadde la corona dal capo; lo stesso giorno o poco dopo, morì poi, ancora in fasce, anche la seconda figlia che G. aveva avuto da lui (il figlio di primo letto, Carlo Martello, era morto nel frattempo durante la prigionia in Ungheria).
Inoltre, Niccolò Acciaiuoli tentò di sanare i guasti che dieci anni di cattiva amministrazione e le due spedizioni di Luigi d'Ungheria avevano lasciato dietro di sé; un compito che era tanto più difficile, in quanto papa Clemente VI, che si era mostrato sempre disponibile nei confronti di G., morì il 6 dic. 1352 e il successore Innocenzo VI assunse un atteggiamento notevolmente più rigido nei confronti della coppia reale. Tuttavia alla corte napoletana, dopo la crisi dei dieci anni precedenti, malgrado la catastrofica situazione finanziaria, regnava una sorta di clima di rinascita, come mostrano la concessione di numerosi privilegi a persone rimaste fedeli nel periodo delle invasioni ungheresi o di esenzioni fiscali in favore di località che avevano particolarmente sofferto durante le operazioni militari. La promessa amnistia generale fu concessa il 7 apr. 1352 e poco dopo, in un parlamento riunitosi a Napoli il 4 giugno, fu annunciato che entro un mese tutti i ribelli dovevano fare atto di sottomissione e prestare il giuramento di fedeltà alla coppia reale. Il simbolo più importante del nuovo spirito che ora regnava e dei cospicui tentativi fatti da Niccolò Acciaiuoli per promuovere il preumanesimo a Napoli fu l'iniziativa di Luigi di Taranto, in occasione del primo anniversario della sua incoronazione a re, di fondare l'Ordine cavalleresco dello Spirito Santo o del Nodo, al quale furono ascritti sessanta illustri personaggi e che ebbe a proprio fondamento gli statuti dell'Ordine della Stella della Nobile Casa, creato nel 1351 dal duca di Borgogna Giovanni il Buono. Queste iniziative non riuscirono tuttavia a placare i conflitti che continuavano a lacerare la famiglia reale e che si erano aggravati con il ritorno di Roberto e Filippo II di Taranto e di Luigi di Durazzo dalla prigionia ungherese nel marzo 1353, benché Luigi di Taranto, in un certo senso come compenso per la propria incoronazione, avesse concesso a G. di prendere parte al governo dello Stato, anche se in misura limitata. Soprattutto Roberto, che in qualità di principe di Taranto e di Acaia era il feudatario più potente del Regno e in Grecia, non voleva assolutamente rassegnarsi a un ruolo passivo e, al contrario, intendeva influenzare attivamente la politica della corte di Napoli; in quanto imperatore titolare di Costantinopoli, inoltre, egli si considerava assolutamente pari per dignità a G. e a suo fratello minore Luigi. La sua posizione autorevole e la futura condotta ostile nei confronti della Corona sono sottolineate dal fatto che, già poco dopo il suo ritorno dall'Ungheria, da un lato si fece conferire i feudi di Bari, Trani, Giovinazzo, Molfetta, Bisceglie e Potenza, che, pur non essendo incorporati nel principato di Taranto, fecero comunque di lui l'incondizionato signore della Puglia e di una estesa parte della Basilicata, mentre d'altro canto rifiutò di entrare nell'ordine cavalleresco fondato dal fratello. A Luigi di Durazzo, al contrario, fu negato un siffatto appannaggio, perciò presto egli si sarebbe apertamente ribellato alla Corona. La sorella più giovane di G., Maria, che era ancora custodita sotto stretta sorveglianza in Castel dell'Ovo, sfruttò invece una breve assenza della coppia reale dalla capitale per fare uccidere il non amato secondo marito Roberto Del Balzo, con la mira di concludere un matrimonio più vantaggioso, che le restituisse soprattutto la libertà d'azione.
Nonostante gli intrighi di corte, sin dall'estate 1353 Niccolò Acciaiuoli riuscì a intraprendere iniziative concrete per la riconquista della Sicilia che, piuttosto che dalla forza del Regno, fu resa possibile dalla situazione di anarchia che regnava nell'isola, dove durante la minore età di Ludovico II si contendevano il predominio gli esponenti dell'aristocrazia locale contrapposti ai nobili catalani, giunti dalla Spagna.
Una ribellione di Messina nell'estate 1353, grazie alla quale i Catalani riuscirono a prendere inizialmente il sopravvento, offrì alla potente famiglia dei Chiaramonte il motivo per rivolgersi a G. e a Luigi di Taranto. Un patto concluso su iniziativa dell'Acciaiuoli a Palermo il 6 febbr. 1354, che prevedeva la consegna dell'isola agli Angioini da parte dei Latini a precise condizioni - per esempio la rinuncia a nominare funzionari francesi e provenzali, nonché l'obbligo di residenza a Palermo per G. e Luigi almeno ogni tre anni - fu ratificato dalla coppia reale nel marzo di quell'anno. E se, a causa della desolata situazione finanziaria del Regno, il siniscalco non aveva risorse della Corona a disposizione e fu perciò costretto ad armare a proprie spese otto galee, l'impresa, che egli condusse personalmente nella primavera ed estate 1354, fu coronata da un sorprendente successo grazie alla confusa situazione dell'isola: il 17 aprile Palermo, e in seguito quasi l'intera isola, si sottomisero alla sovranità angioina. Solo la parte nordorientale, con le importanti città di Messina e di Catania, che erano anche le roccaforti del partito catalano, restò fedele a Ludovico II e agli Aragonesi. Soprattutto a causa della situazione interna del Regno di Napoli e dell'atteggiamento piuttosto ostile di G. e di Luigi di Taranto, che consideravano l'impresa siciliana dell'Acciaiuoli - forse non del tutto a torto - superflua e dispendiosa, nel 1354 l'isola non poté essere interamente sottomessa. Così all'inizio di agosto 1354 il siniscalco fu costretto a rientrare a Napoli.
In verità la situazione, soprattutto nella parte settentrionale del Regno, lasciava ridotti spazi di manovra per intraprendere serie iniziative per la riconquista della Sicilia. Come conseguenza del trattato di pace con l'Ungheria, la compagnia di ventura del cavaliere ospedaliere fra Moriale, rimasta senza impiego, si era installata là e tentava di riempire le casse vuote con i saccheggi, vista la debolezza del potere centrale di Napoli. Una spedizione del più giovane dei tre figli di secondo letto di Filippo I di Taranto, Filippo II, negli Abruzzi fallì clamorosamente nell'aprile-maggio 1354, così fu giocoforza comprare con 40.000 fiorini la partenza di Moriale per l'Umbria. Contemporaneamente scoppiò, una volta per tutte, lo scontro tra il ramo di Durazzo e quello di Taranto, che covava dagli anni Venti. Su pressione di Roberto di Durazzo, che dopo la liberazione dalla prigionia si era recato in Francia e alla corte papale ad Avignone, e di Talleyrand di Périgord, zio materno di Luigi di Durazzo, Innocenzo VI rifiutò la dispensa per il matrimonio, voluto soprattutto da Luigi di Taranto, tra Maria d'Angiò, vedova di Roberto Del Balzo e probabile erede al trono a causa della mancanza di figli della coppia reale, e Filippo II di Taranto. Nel novembre 1354, Maria fu lo stesso costretta a sposare Filippo, mentre Luigi di Durazzo si rinchiuse nel suo castello di Monte Sant'Angelo sul Gargano e prese contatti con Luigi d'Ungheria. Inoltre, sorsero attriti con Innocenzo VI, perché Luigi di Taranto, dopo l'insuccesso del fratello, nominò vicario generale negli Abruzzi Galeotto Malatesta, che aveva occupato una parte dello Stato della Chiesa e perciò era stato scomunicato: il papa pretese allora il puntuale pagamento di 8000 once di censo per il Regno, pagamento che negli ultimi anni non era stato effettuato mai o solo in parte. Nonostante l'intervento di Niccolò Acciaiuoli, la Curia fu irremovibile e il 9 e 10 genn. 1355 Innocenzo VI scomunicò sia G. sia il marito.
Entrambi in seguito, con il pretesto di un pellegrinaggio sulla tomba di s. Nicola, nell'autunno 1354 si recarono personalmente in Puglia, ma non riuscirono a persuadere alla sottomissione Luigi di Durazzo, che nel frattempo aveva trovato un alleato in Giovanni Pipino, conte di Altamura e Minervino. Il duca di Durazzo, al contrario, chiamò in Puglia la Gran Compagnia che, ora sotto il comando di Corrado di Landau (il "conte Lando" dei cronisti italiani) dopo l'esecuzione di fra Moriale per ordine di Cola di Rienzo, occupò la Capitanata nel febbraio 1355. Le speranze di un intervento contro la Gran Compagnia da parte di Carlo IV di Lussemburgo, che dall'inizio del 1355 si trovava in Italia per cingere la corona di re dei Romani, non si concretizzarono, ancorché, soprattutto per iniziativa di Niccolò Acciaiuoli, il 1° febbr. 1355 alcuni procuratori gli avessero prestato il giuramento feudale per conto di G. e suo marito per la Provenza, feudo formalmente dell'Impero, mentre il Lussemburghese già il 29 gennaio aveva annullato in cambio tutte le condanne che Arrigo VII e Ludovico il Bavaro avevano inflitto a Roberto d'Angiò e ai suoi successori. Luigi di Durazzo, al contrario, nell'aprile 1355 si mise personalmente alla guida della compagnia e si ribellò apertamente alla Corona, proclamandosi esecutore delle sentenze di scomunica del papa contro G. e il marito. La crisi si aggravò pure a causa di una rivolta scoppiata più o meno contemporaneamente in Provenza, rivolta che Roberto di Durazzo aveva preparato di concerto con il fratello, ma anche con l'appoggio di Talleyrand di Périgord e di altri cardinali ostili alla casa regnante di Napoli. Mentre la rivolta in Provenza verso la metà di luglio 1355 poté essere repressa con l'aiuto di Innocenzo VI, per il quale gli intrighi di una parte del Collegio cardinalizio guidati da Talleyrand erano una spina nel fianco, la ribellione di Luigi di Durazzo nel Regno ebbe all'inizio miglior esito, visto che la Gran Compagnia nel maggio 1355 riuscì ad avanzare fino in Campania e nel Principato.
A causa dell'assenza dell'Acciaiuoli che si tratteneva ancora in Toscana, Luigi di Taranto e G. si mostrarono totalmente incapaci di formare un esercito di soccorso e di prendere efficaci contromisure militari. Riuscirono invece a ottenere la ritirata dei mercenari alla fine di luglio solo dietro un pagamento, in più rate, di 120.000 fiorini. Per mettere insieme tale considerevole somma, Luigi di Taranto fu costretto a istituire tasse straordinarie, il che portò a una sommossa a Napoli nel settembre 1355 e a manifestazioni di simpatia per G., mentre fu richiesto - a ragione - il licenziamento di suo marito e - ingiustamente - quello di Niccolò Acciaiuoli come responsabili degli affari di Stato. Peraltro, bande dell'esercito mercenario penetrarono di nuovo in Terra di Lavoro e continuarono le scorrerie. Anche dopo l'estate 1356, quando vaste parti del Regno erano state ampiamente saccheggiate e la Gran Compagnia si spostò finalmente in Italia settentrionale, unità sbandate rimasero in Capitanata, dove in parte fecero causa comune con la piccola feudalità e continuarono le loro azioni di rapina.
Poiché il potere effettivo di G. - o meglio del marito - era più o meno ristretto al controllo di Napoli e del territorio limitrofo, durante l'anno di crisi 1355 andarono in gran parte perdute anche le conquiste in Sicilia e solo Palermo, Milazzo, Siracusa e Lentini poterono essere mantenute. Fortunatamente, grazie alla morte di Ludovico II di Sicilia nell'ottobre 1355 e ai conflitti interni all'aristocrazia catalana a proposito della tutela del giovane Federico IV (III), nel corso del 1356 furono riprese le posizioni perdute, mentre il 18 settembre esponenti dell'aristocrazia locale promossero infine a Messina una sommossa a loro favorevole. Niccolò Acciaiuoli, che con una flottiglia a Reggio Calabria non aspettava che questa notizia, il 20 novembre attraversò lo Stretto e si impadronì senza problemi della città in nome dei suoi sovrani. Il 24 dic. 1356 egli poté consegnarla in una solenne cerimonia a Luigi di Taranto e G., giunti a loro volta in Calabria in novembre: quasi 75 anni dopo i Vespri, il giglio angioino sventolava di nuovo sulla città peloritana. La coppia reale si trattenne a Messina fino al 27 agosto dell'anno seguente e in questo periodo si occupò della concessione di privilegi e rendite ai partigiani angioini nell'isola, senza preoccuparsi, secondo le intenzioni dell'Acciaiuoli, di debellare il partito catalano e di conquistare Catania. Questa mancanza di iniziativa diede così ai Catalani il tempo di riorganizzarsi, ed essi il 29 e 30 giugno 1357 presso Acireale riuscirono a infliggere alla flotta e all'esercito angioino una dura sconfitta, che cancellò ogni speranza di completa sottomissione dell'isola.
L'assenza di G. e di Luigi di Taranto dalla terraferma aveva inoltre dato nuovo slancio alla ribellione di Luigi di Durazzo e di Giovanni Pipino d'Altamura, che continuavano a controllare ampi territori della Puglia. Nell'autunno 1357 Roberto di Taranto, che era stato nominato capitano generale in Puglia e i cui estesi feudi erano stati anche minacciati dai disordini, riuscì in parte a rendere meno drammatica la situazione e a eliminare almeno i conti di Altamura. Giovanni Pipino fu fatto prigioniero a Matera il 27 ottobre e due giorni dopo impiccato ad Altamura, mentre il fratello più giovane Luigi a dicembre fu assassinato da un sicario prezzolato di Roberto di Taranto.
Notevolmente più difficile si configurò la situazione in Provenza, dove Filippo II di Taranto, dal 1356 vicario generale della Contea, dovette fronteggiare le ambizioni espansionistiche della casa regnante di Francia, intenzionata ad annettersi la Contea, e contrastare le bande mercenarie di Arnaldo de Cervole, detto Arciprete, che sconvolsero la Provenza negli anni 1357-58.
La crisi provenzale era stata appena superata e, grazie a un'iniziativa dell'Acciaiuoli, nell'aprile 1358 era intervenuta una momentanea riconciliazione di G. e Luigi di Taranto con Luigi di Durazzo, quando si profilarono nuove tensioni con la Curia papale, giacché dopo la sconfitta di Acireale, della quale all'Acciaiuoli fu attribuita ingiustamente la responsabilità, la posizione del fiorentino, che aveva sempre svolto il ruolo di mediatore con il pontefice, non fu più indiscussa. I suoi rivali a corte - innanzitutto il conte di Montescaglioso Francesco Del Balzo e il conte di Ariano Luigi di Sabran, per i quali la sua posizione predominante era già da tempo motivo di fastidio - sfruttarono l'insuccesso in Sicilia per esautorare l'Acciaiuoli con un intrigo. Egli si ritirò pertanto nei suoi feudi, come Nocera e Melfi, ma G. e Luigi in seguito non riuscirono comunque a rinunciare del tutto ai suoi servigi: i rapporti tra Luigi di Taranto e Innocenzo VI attraversarono infatti nel 1358 un nuovo momento di crisi e il re, a parte il rifiuto di versare puntualmente alla Curia il censo, tentò ora di esercitare anche un'attiva influenza sulle elezioni e nomine vescovili nel Regno. Inoltre, poiché la corte napoletana appoggiava Firenze contro gli sforzi del legato pontificio Egidio Albornoz di restaurare e pacificare lo Stato della Chiesa, il 21 apr. 1359 Innocenzo VI nominò improvvisamente l'Albornoz legato anche per il Regno, affinché vi assumesse attivamente il governo e ripristinasse la sovranità feudale del papa. In questa situazione, all'inizio di dicembre 1359 l'Acciaiuoli fu dunque inviato alla Curia ad Avignone, dove come segno di "buona volontà" versò anche una parte (53.000 fiorini) del censo arretrato. Il fiorentino riuscì soprattutto a evitare un intervento diretto dell'Albornoz nelle faccende del Regno e a ottenere inoltre la revoca dell'interdetto che da cinque anni pesava sullo Stato, cosicché la tensione tra la corte di Napoli e Innocenzo VI poté essere superata, almeno sulle questioni più urgenti.
Il successo della missione dell'Acciaiuoli fu tanto più significativo, in quanto dal 1359 la coppia reale di Napoli si vide contemporaneamente al centro di attacchi provenienti da tre fronti. Nell'autunno 1359 era scoppiata una nuova ribellione di Luigi di Durazzo, che contava probabilmente sull'appoggio della Curia. Luigi di Taranto, che per una volta riuscì finalmente a impegnarsi in una iniziativa energica, nel marzo 1360 si recò di persona in Puglia, mentre G. - che, al contrario del marito, continuava a godere a Napoli di una grande popolarità - fece demolire i palazzi di alcuni partigiani di Luigi nella città. Sempre più isolato, alla fine il duca di Durazzo fu costretto a concludere un accordo con Luigi di Taranto, in virtù del quale dovette consegnare il figlio di appena tre anni al re di Napoli come ostaggio e sottoporre il conflitto con G. e suo marito a un arbitrato del papa. Egli non considerò tuttavia perduta la partita, perché, dopo la conclusione degli scontri per il possesso di Bologna tra Bernabò Visconti e l'Albornoz, nel settembre 1360 chiamò in proprio aiuto la compagnia di ventura di Anichino di Bongardo (Johannes Baumgarthen), che originariamente era stata al servizio del Visconti ma poi era passata dalla parte del cardinale. Nel dicembre 1360 Anichino si acquartierò in Capitanata e condusse spedizioni di saccheggio fino ai confini del Principato. Luigi di Taranto richiamò allora l'Acciaiuoli, data l'incapacità di Francesco Del Balzo e Luigi di Sabran di controllare la situazione. Il gran siniscalco riuscì a ottenere dalle città toscane l'invio di piccoli contingenti militari, con i quali all'inizio del 1361 entrò a Napoli con l'intenzione di porre in essere energiche misure di difesa, a fronte della consueta letargia di Luigi di Taranto, e di sbarrare ad Anichino almeno la via della capitale. L'ingresso negli Abruzzi, nel marzo 1361, di una compagnia di ventura ungherese, che intendeva unirsi ad Anichino, complicò ulteriormente la situazione. Solo grazie alle capacità diplomatiche dell'Acciaiuoli fu possibile spingere le due compagnie l'una contro l'altra e persuadere gli Ungheresi, all'inizio di dicembre 1361, a ritirarsi in cambio del pagamento di 37.000 fiorini (per i quali dovette essere imposto un tributo straordinario in tutto il Regno). Alla fine del gennaio 1362 anche Anichino, dopo che un accordo gli aveva garantito di conservare tutta la preda, lasciò il Regno, sicché il 6 febbraio Luigi di Durazzo si sottomise definitivamente a G. e a Luigi di Taranto, e fu rinchiuso in Castel dell'Ovo.
Meno turbolenta si configurò almeno in questa fase la situazione in Provenza, dove regnava ora un clima più disteso. A provocare nuovi disordini fu, dal 1360, la tragicomica figura di "re Giannino", Guccio Baglioni. Questi, autodichiaratosi successore al trono di Francia, aveva trovato un certo seguito presso i rivali della Corona francese - in primo luogo l'Inghilterra, ma anche Luigi di Taranto e G. - con l'obiettivo da parte dei suoi sostenitori di destabilizzare la casata dei Valois. Nell'estate del 1360 Giannino si rifugiò in Provenza, dove trovò un qualche seguito presso una parte della locale aristocrazia, ma dietro pressione di Innocenzo VI il 7 genn. 1361 Luigi di Taranto e G., attraverso il loro siniscalco, lo fecero arrestare. Dopo essersi rifiutati di consegnarlo a funzionari francesi, G. e il marito l'anno successivo fecero trasferire il Baglioni a Napoli, dove fu incarcerato e dove morì nel 1369.
In Sicilia sin dalla sconfitta di Acireale la posizione degli Angioini era costantemente peggiorata, perciò sembrava solo una questione di tempo la caduta delle ultime teste di ponte nell'isola, come Palermo e Messina. Dato che G. e Luigi di Taranto non erano in grado di inviare neanche un soldato di rinforzo, si doveva solo al persistente conflitto tra l'aristocrazia insulare e la fazione catalana se alcune parti dell'isola si trovavano ancora sotto il controllo angioino. I Catalani avevano ottenuto un decisivo impulso soprattutto dal matrimonio di Federico IV con Costanza, figlia di Pietro IV d'Aragona, avvenuto il 15 apr. 1361, perché in tal modo fu consolidata la tradizionale alleanza tra il ramo principale d'Aragona e quello collaterale dei regnanti di Sicilia, e contestualmente fu scongiurato un tentativo di G. e di Luigi di Taranto di far sposare Giovanna, figlia di Carlo di Durazzo, con Federico. Soltanto grazie all'iniziativa di Niccolò Acciaiuoli, che alla fine del 1361 con tre sole galere giunse a Messina, la situazione poté essere ancora una volta riequilibrata almeno in parte, anche se era troppo tardi per riconquistare il territorio perduto.
Mentre il siniscalco si trovava ancora a Messina, all'inizio dell'aprile 1362, Luigi di Taranto e G. convocarono un parlamento generale, che per mezzo di un'ampia legislazione avrebbe dovuto risolvere soprattutto il problema del brigantaggio, diffusosi per tutto il Regno come conseguenza dell'ingresso delle compagnie di ventura. Così, oltre alla riduzione delle imposte e a un'amnistia generale, fu stabilita l'istituzione di un corpo armato speciale di 400 uomini che al comando di Galeotto Malatesta (nominato pure maestro giustiziere e capitano generale) avrebbe dovuto porre fine a questa piaga.
Negli anni 1351-62 G. non aveva esercitato alcuna influenza concreta sul governo del Regno o della Provenza, e aveva soltanto fatto emettere a proprio nome decreti e documenti preparati su ordine di Niccolò Acciaiuoli e di Luigi di Taranto. Sebbene dal 1359 i rapporti con il suo secondo marito fossero piuttosto migliorati, non dovette provare comunque molto dolore per la sua morte avvenuta a causa di una malattia il 24 maggio (secondo altre fonti nella notte tra il 25 e il 26 maggio) 1362. Se forse all'inizio della loro relazione Luigi amò veramente G., non appena il loro matrimonio fu benedetto dal papa, egli rivelò un carattere dispotico, al punto da non risparmiare alla moglie neppure le peggiori umiliazioni e da tenerla per oltre dieci anni quasi agli arresti domiciliari: è dunque verosimile che la regina abbia accolto la morte di Luigi quasi come una liberazione.
Per evitare una nuova usurpazione del potere da parte di Roberto di Taranto o di suo fratello Filippo II e della di lui moglie Maria, che già da quasi vent'anni nutrivano speranze sul trono, G. tenne probabilmente segreta la morte del marito per due giorni, in modo da avere il tempo di informare papa Innocenzo VI e di sollecitare l'immediato rientro dell'Acciaiuoli dalla Sicilia. La preoccupazione della regina non era immotivata, perché Roberto e Filippo, temendo un matrimonio di G. con il loro antico avversario Luigi di Durazzo, pensavano addirittura di detronizzarla e di sostituirla con Maria. I Tarantini ricorsero così a una soluzione di cui si era già fatto frequente uso alla corte angioina: il 25 giugno (Chronicum Siculum, p. 21) o il 22 luglio 1363 (Cronaca di Partenope, p. 161) fecero avvelenare il duca di Durazzo. Il figlio di questo, Carlo, di appena cinque anni, ebbe la vita salva grazie alla regina, la quale certo non immaginava che vent'anni più tardi proprio lui l'avrebbe prima detronizzata, e poi fatta uccidere.
Sebbene il 5 giugno, in un'assemblea a Napoli, G. avesse fatto dichiarare con ogni solennità che intendeva assumere personalmente il governo nel Regno e in Provenza, ella era ben consapevole della difficoltà della sua situazione, minacciata soprattutto dalle ambizioni dei due tarantini. Si impose perciò la necessità di trovare un nuovo marito, che da un lato fosse abbastanza forte da arginare le ambizioni di Roberto e di Filippo II di Taranto, dall'altro si accontentasse del ruolo di principe consorte e non ambisse - com'era stato con Luigi di Taranto - a esercitare personalmente il potere. Inoltre, il futuro consorte sarebbe dovuto essere di stirpe reale per assicurare un futuro alla dinastia angioina nell'Italia meridionale attraverso una discendenza legittima. Nell'agosto 1362 G. respinse perciò la proposta di un'ambasceria francese, che voleva offrirle la mano di Filippo di Turenne, figlio minore di re Giovanni II di Francia, perché questo matrimonio avrebbe significato nient'altro che l'annessione del Regno e della Provenza alla Corona francese. Probabilmente la scelta di G. era già allora caduta sul re titolare di Maiorca Giacomo III (IV), che sin dalla conquista del suo Regno a opera di re Pietro IV d'Aragona nel 1349 era stato prigioniero in Aragona e che nel maggio 1362 era riuscito a fuggire, forse con l'aiuto della corte napoletana. Già all'inizio di ottobre 1362 la regina pregò dunque Guglielmo Grimoard, abate di S. Vittore a Marsiglia, che in quel momento si trovava ancora nel Regno in qualità di nunzio e che il 28 settembre era stato eletto papa con il nome di Urbano V, di concederle la dispensa necessaria: dispensa che ricevette da Guglielmo il giorno dopo la sua incoronazione, il 7 novembre. Dato però che il re di Francia intervenne personalmente presso Urbano V a favore del matrimonio di G. con suo figlio Filippo e si paventò un cambio d'orientamento da parte del papa, la regina fece scrivere, probabilmente dal suo segretario Niccolò d'Alife, una lettera alla Curia, in cui rivendicava il diritto di decidere autonomamente del proprio matrimonio. Per evitare un possibile intrigo all'ultimo momento della corte francese, ma anche di Roberto e Filippo di Taranto, G. fece concludere il matrimonio con Giacomo di Maiorca il 14 dic. 1362 ad Avignone tramite procuratori. Urbano V diede allora la sua approvazione. Il 16 maggio 1363 Giacomo poté così fare il suo ingresso a Napoli con una piccola flotta e le nozze furono celebrate immediatamente.
Ben presto la regina dovette però riconoscere che la lunga prigionia in una gabbia di ferro aveva causato innegabili danni psichici e fisici nel suo terzo marito, perciò la sua situazione non poteva che dirsi peggiorata. Gli intrighi a corte, che con la morte di Luigi di Taranto e di Luigi di Durazzo avevano subito soltanto una breve interruzione, scoppiarono ora più virulenti di prima, dato che soprattutto Filippo II di Taranto, dopo la morte del fratello maggiore Luigi, nutriva speranze di assicurare una volta per tutte al ramo laterale di Taranto la sovranità sul Regno, trovando nel fratello Roberto, il più grande dei tre, a seconda delle circostanze un appoggio o un rivale. Nel frattempo, Giacomo di Maiorca richiese di partecipare alle faccende dello Stato, anche se nel contratto di matrimonio con G. tale diritto gli era stato espressamente negato. Già nell'agosto 1363 pretese la nomina a capitano generale del Regno, pretesa alla quale G., dopo che il marito era ricorso con lei alla violenza fisica, contro la volontà di Niccolò Acciaiuoli e nonostante le cattive esperienze con Luigi di Taranto, alla fine diede il suo assenso. Le tensioni politiche influenzarono anche la vita privata della coppia, dato che si arrivò pubblicamente a violenti scontri tra G. e il consorte, che accusava la moglie dell'assassinio del primo marito e in più di un'occasione la ridusse a mal partito a suon di percosse, il che naturalmente non fece che esacerbare l'avversione della regina verso il nuovo consorte. Inoltre, Giacomo, nonostante i ripetuti attacchi di febbre con deliri (dovuti forse alla sifilide) e la malattia mentale sempre più manifesta, costringeva la regina a dividere con lui il letto nuziale e distribuiva a piene mani ai propri familiari benefici e pensioni annue attingendo alle disastrose finanze statali. I contrasti arrivarono in breve al punto che Giacomo di Maiorca minacciò di richiamare le compagnie di ventura nel Regno, così G. fu costretta sin dal gennaio 1364 a metterlo sotto sorveglianza ed evitò di trovarsi da sola con lui nella stessa stanza. Conflitti di competenza tra l'arcivescovo di Napoli, Pierre Ameilh, che su incarico del papa doveva risanare le finanze del Regno e riformare l'amministrazione, e Niccolò Acciaiuoli, che temeva per la sua posizione di predominio a corte a causa dell'intervento del prelato, complicarono ulteriormente il gioco d'intrighi, con continui cambiamenti dei partiti.
Il totale fallimento del terzo matrimonio di G. e la mancanza, che cominciava a profilarsi, di un'erede ebbero come conseguenza la ripresa dei maneggi di Maria d'Angiò e del marito Filippo II di Taranto, i quali avanzarono pretese sempre più palesi sulla successione nel Regno di Napoli. Maria stessa vedeva nella propria figlia Giovanna, avuta dal primo matrimonio con Carlo di Durazzo, la più pericolosa rivale per la corona, dato che il matrimonio di Roberto di Taranto con Maria di Borbone era rimasto anch'esso senza discendenza. Scalpore generò il cambiamento deciso unilateralmente dalla regina circa i progetti matrimoniali di Giovanna di Durazzo. Costei doveva sposare in un primo tempo Aimone di Ginevra, nipote del cardinale Guido di Boulogne, perché tale matrimonio non costituiva un pericolo né per la regina né per la sorella Maria; G., invece, seguendo il consiglio di Urbano V, cambiò parere e decise di far sposare la nipote a Federico IV d'Aragona re di Sicilia, dopo che la prima moglie di questo, Costanza d'Aragona, era morta nell'estate 1363.
Con questo matrimonio si sarebbe potuto definitivamente chiudere dopo più di sessant'anni l'affare siciliano, dopo che, a seguito dell'intervento di Niccolò Acciaiuoli del 1361-62, si era prodotta una situazione di stallo, nella quale nessuna delle fazioni coinvolte era riuscita a prendere il sopravvento e a sottomettere l'intera isola. Mentre soprattutto l'Acciaiuoli prospettava la soluzione del conflitto in Sicilia mediante questa unione, a tali piani matrimoniali si opposero la stessa Giovanna di Durazzo, la quale era veramente innamorata d'Aimone, l'arcivescovo di Napoli e anche Filippo di Taranto, mentre la posizione di Urbano V fu invece incerta. La regina non esitò neppure, alla fine del 1363, a imprigionare la nipote, per ottenere, se necessario con la forza, l'assenso al matrimonio siciliano, visto che si presentava l'opportunità unica di una pace favorevole che avrebbe lasciato Messina e Milazzo sotto la diretta sovranità angioina. Urbano V, sotto la pressione di Guido di Boulogne, prese infine posizione contro questo progetto di matrimonio e di pace, ma la regina, nonostante le ripetute esortazioni del pontefice, su consiglio dell'Acciaiuoli si rifiutò tenacemente di restituire la libertà a Giovanna di Durazzo. Il 6 marzo 1364 aveva ancora una volta protestato presso la Curia contro un possibile matrimonio di Aimone con Giovanna di Durazzo e, dopo la caduta di Messina all'inizio di giugno 1364, aveva spinto la piccola nobiltà di Napoli a una protesta presso Urbano V contro Pierre Ameilh, il quale disapprovava apertamente le trattative di pace con la Sicilia. Nonostante il papa rispondesse nel luglio 1364 lanciando l'interdetto su Napoli e scomunicando la regina e il marito, la posizione di Pierre Ameilh nella città divenne insostenibile. Nell'agosto 1364 il presule fuggiva perciò a Benevento e fu successivamente trasferito alla sede arcivescovile di Embrun. La partenza dell'arcivescovo non contribuì a distendere la situazione, dato che scoppiò un aperto scontro tra i due tarantini e l'Acciaiuoli che si contendevano l'influenza sulla regina. Ancora durante la sua presenza a Napoli, Pierre Ameilh, contro la resistenza di G. che temeva una nuova interferenza negli affari statali, aveva richiesto ripetutamente l'invio di un nuovo legato nel Regno, dato che la situazione a corte minacciava di farsi di giorno in giorno più tesa.
Nella primavera 1364 Egidio Albornoz fu investito di questo delicato ufficio, dopo essere stato rimosso dal suo incarico di legato nell'Italia settentrionale. L'Albornoz arrivò solo all'inizio dell'ottobre 1365 nel Regno, dove la tensione, nonostante la morte di Roberto di Taranto, avvenuta il 16 o il 17 sett. 1364, non si era allentata, dato che il fratello Filippo II continuava a contrapporsi a G. e a Niccolò Acciaiuoli. Soprattutto, il nuovo principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli insisteva per avere l'investitura degli estesi feudi detenuti dal fratello in Terra di Bari, che G. su insistenza di Urbano V gli negava, cosicché Filippo si rifiutò di rendere omaggio alla regina per il principato di Taranto.
Poco dopo l'arrivo dell'Albornoz, l'8 nov. 1365 morì Niccolò Acciaiuoli, che negli ultimi quindici anni aveva esercitato un'influenza determinante sul governo del Regno: la sua scomparsa dalla scena politica apriva un vuoto di potere. I suoi nemici a corte intravidero ora la possibilità della grande rivincita mediante la confisca degli estesi beni e feudi che il siniscalco possedeva nel Regno e in Grecia, mentre il figlio Angelo fu addirittura incarcerato per un breve periodo.
Invece di realizzare riforme sostanziali nell'amministrazione del Regno, anche l'Albornoz dovette dedicare le sue energie principalmente alla mediazione nella lotta di potere a corte. Il giovane Carlo (II) di Durazzo già nell'agosto 1365, su insistenza di Luigi il Grande fu inviato in Ungheria, mentre Giacomo di Maiorca, che non era riuscito a dare a G. gli eredi desiderati (G. dette alla luce un bimbo nato morto nell'estate 1365), probabilmente per iniziativa dell'Albornoz, abbandonò il Regno alla fine di gennaio 1366 per entrare al servizio di Enrico di Trastamara di Castiglia. Ancora durante il soggiorno dell'Albornoz a Napoli scoppiò un nuovo conflitto tra Filippo II di Taranto e suo cognato il duca d'Andria Francesco Del Balzo, marito di Margherita sorella di Filippo, che presto condusse a scontri armati tra i due in Puglia, mentre Francesco, seguendo almeno in questo caso l'esempio del cognato, rifiutò di prestare l'omaggio feudale alla regina. La legazione napoletana dell'Albornoz trascorse pertanto più o meno senza successo, dato che il cardinale, soprattutto a causa dell'opposizione della nobiltà, non riuscì né a frenare l'inflazionata concessione di appannaggi né a sanare le finanze statali, nonostante Urbano V su un debito complessivo del censo feudale di oltre 352.116 fiorini il 13 ott. 1365 pretese in verità il pagamento di soli 35.000 fiorini. Dato che neppure era riuscito ad avviare a soluzione la faccenda del matrimonio della nipote di G., Giovanna di Durazzo, l'esperto Albornoz, infastidito, abbandonò la partita e nel giugno 1366 lasciò il Regno. Il fallimento quasi completo della sua legazione è sottolineato anche dal fatto che subito dopo la sua partenza la questione del matrimonio di Giovanna di Durazzo trovò il suo epilogo secondo la volontà della regina. Dopo che il progetto del matrimonio siciliano era definitivamente naufragato, il 19 giugno 1366 Giovanna di Durazzo sposò Luigi di Navarra, che già in passato aveva chiesto la sua mano.
Nonostante l'insuccesso dell'Albornoz e la condotta indipendente di G., che aveva temporaneamente messo in crisi i rapporti con Urbano V, non era possibile che nei rapporti tra la corte napoletana e la Curia papale la tensione durasse a lungo. Vero architetto della rinnovata alleanza pontificio-angioina fu soprattutto Niccolò Spinelli di Giovinazzo, che godeva della migliore reputazione in Curia e che, dopo la morte di Niccolò Acciaiuoli e di Niccolò d'Alife, aveva preso il loro posto come primo consigliere della regina e cancelliere del Regno di Napoli. La stessa G., forse ancora su consiglio di Niccolò d'Alife, nell'estate 1365 aveva sollecitato Urbano V a trasferire la propria residenza a Napoli. Nonostante il papa durante il suo soggiorno in Italia, dal 3 giugno 1367 al 5 sett. 1370, non avesse messo piede nella città partenopea, tra la regina e il pontefice regnava una stretta intesa, come mostra l'incontro celebratosi a Roma nella seconda metà di marzo 1368, in occasione del quale G. ricevette la famosa rosa d'oro. Inoltre, i conflitti tra Francesco Del Balzo, che a causa della mancanza di eredi del matrimonio tra Filippo II di Taranto e Maria d'Angiò e la quasi certa estinzione del ramo principale degli Angioini poteva aspirare alla successione del Regno, e il cognato persero, almeno per qualche tempo, vigore. Il merito di questa pacificazione momentanea fu anche di Gomez Albornoz, il nipote del cardinale, che ricopriva la carica di capitano generale del Regno e riuscì a infliggere una sconfitta decisiva ai mercenari al comando di Ambrogio Visconti fatti venire nel Regno da Francesco Del Balzo.
Altrettanto efficace fu l'azione dello Spinelli a favore di G. in Provenza. Dalla morte di Luigi di Taranto la Contea aveva goduto di una relativa calma e G. aveva potuto realizzare alcune fondamentali riforme amministrative: nel maggio 1365 tutte le investiture feudali a carico del Demanio comitale furono revocate e soprattutto in due documenti del settembre 1365 e 1366 furono ridimensionate le competenze del siniscalco, al quale fu sottratta l'amministrazione del patrimonio demaniale e delle finanze, trasferita alla Corte dei conti. Inoltre, dal 1363 erano state realizzate efficaci misure difensive, come il rafforzamento o la costruzione di numerosi castelli e l'introduzione di una imposta straordinaria per il rinforzo delle truppe stanziali, per cui i guasti causati dai ripetuti assalti di piccole compagnie di ventura poterono essere ridotti. Solo nella primavera 1368 un serio pericolo fu di nuovo costituito dall'attacco di Bertrand Duguesclin e del duca Luigi I d'Angiò, appoggiato dal fratello maggiore, Carlo V di Francia, perché le truppe provenzali si dimostrarono troppo deboli per arrestare l'avanzata dei mercenari. Tuttavia, le misure difensive prese negli anni precedenti si mostrarono efficaci: Duguesclin e Luigi d'Angiò non riuscirono a conseguire un successo decisivo e G., nell'agosto 1368, ebbe così tempo per inviare rinforzi dal Regno. Dato che pure Urbano V nell'aprile 1368 era intervenuto presso Carlo V, Luigi d'Angiò all'inizio di novembre fu costretto a concludere un armistizio e a sgomberare i territori fin lì occupati.
Il periodo che va dal 1366 al 1378 - anche se di questi anni, per la perdita totale dei registri angioini, avvenuta già prima del 1943, si possiede solo una documentazione frammentaria - fu certamente la fase più fortunata non solo per G., ma anche per tutti i suoi domini, nell'arco dei suoi quasi quarant'anni di regno. I conflitti a corte si smorzarono soprattutto per la morte della sorella e per tanti anni rivale di G., Maria, avvenuta il 20 maggio 1366 (secondo l'epitaffio a S. Chiara) o il 5 giugno 1367 (secondo la Cronaca di Partenope, p. 164), anche se in Puglia Filippo di Taranto e Francesco Del Balzo ricominciavano a combattersi periodicamente e ad assoldare mercenari. Anche il conflitto con Luigi d'Ungheria aveva superato la fase più acuta sin dalla morte di Luigi di Taranto, tanto più che anche il re d'Ungheria era senza discendenti diretti e perciò c'era da attendersi l'estinzione pure del ramo angioino ungherese. Entrambe le parti tentarono almeno di assicurare la continuazione dei rami collaterali sia nel Regno sia in Ungheria attraverso dei matrimoni. Con il sostegno di Urbano V e di Niccolò Spinelli il 24 genn. 1370 in Castelcapuano si arrivò così al matrimonio tra Carlo (II) di Durazzo, figlio di Luigi di Durazzo, con sua cugina, l'erede presuntiva al trono, Margherita di Durazzo, poiché il matrimonio della sorella maggiore di questa, Giovanna, con Luigi di Navarra, non aveva mai ottenuto l'approvazione della Chiesa ed escludeva di conseguenza dalla successione al trono. Iniziali resistenze della regina, che probabilmente temeva una nuova ondata di intrighi a corte, furono in apparenza eliminate, dato che subito dopo le nozze la giovane coppia partì per l'Ungheria. Anche il secondo matrimonio napoletano-ungherese, tra Filippo di Taranto ed Elisabetta d'Ungheria, nipote di re Luigi e possibile erede alla corona di S. Stefano, che fu contemporaneamente concluso a Buda all'inizio del 1370, fu accolto da G. con sentimenti piuttosto contrastanti, perché Filippo non aveva mai abbandonato del tutto le sue speranze alla successione sul trono di Napoli. Il principe di Taranto cominciò infatti, dopo il suo rientro nel Regno, avvenuto nella primavera 1371, con l'appoggio di re Luigi d'Ungheria, ad avanzare di nuovo pretese sul principato di Salerno o sulla Terra di Bari compreso Monte Sant'Angelo, che egli, senza che G. ne sapesse nulla, aveva promesso come dotario alla moglie. Sebbene Filippo per realizzare i suoi obiettivi si coalizzasse momentaneamente contro la regina persino con il suo nemico giurato Francesco Del Balzo, l'alleanza tra i due si rivelò fragile e già nel 1372 divampò di nuovo l'ostilità a causa di liti di confine tra feudi in Puglia. La morte di Filippo II di Taranto, avvenuta il 25 nov. 1373, mise fine una volta per tutte a questo conflitto, dato che la discendenza maschile della casa di Taranto si era estinta. G., il 2 genn. 1374, riassorbì di nuovo il principato nel Demanio regio, così come tornarono alla Corona i feudi greci dei principi di Taranto (Corfù e il principato di Acaia), il che per qualche tempo causò disordini negli antichi feudi di Filippo in Puglia e in Romania, rapidamente repressi nel febbraio 1374 da Angelo Acciaiuoli, che nel frattempo aveva ottenuto la grazia ed era subentrato al padre Niccolò nella carica di siniscalco. L'epilogo della pacificazione in Puglia fu conseguito con il bando di Francesco Del Balzo, il quale, dopo la morte di Filippo, aveva preteso a sua volta l'investitura del principato di Taranto e si era ribellato apertamente alla Corona.
Negli stessi anni sembra si fosse riusciti a realizzare un certo risanamento delle finanze statali, visto che il censo dovuto alla Curia, almeno in parte, fu pagato; inoltre il Regno continuò a rimanere al riparo dalle aggressioni di compagnie di ventura. La già ricordata distruzione dei registri angioini per gli ultimi anni di regno di G. non consente in verità di stabilire se la regina si sia sforzata in questo periodo di promuovere riforme interne e una più energica repressione del brigantaggio e delle rapine dilaganti nel Regno. Da constatare è, però, che le sole imprese urbanistiche significative da lei promosse nella capitale furono eseguite negli anni tra il 1367 e il 1374: il completamento della certosa di S. Martino (1367-68), l'erezione della chiesa di S. Maria dell'Incoronata (nel 1368-74, e non negli anni Cinquanta del XIV secolo, come spesso si trova scritto) e la posa di un acquedotto tra Castelnuovo e Castel dell'Ovo.
Il coronamento di questi anni d'oro del regno di G. è rappresentato dalla definitiva conclusione del conflitto siciliano dopo novant'anni di lotta e dal ripristino del dominio angioino in una parte del Piemonte. Alla fine della guerra contro i re aragonesi di Sicilia contribuì innanzitutto il nuovo papa Gregorio XI, il quale era interessato a riunire le forze militari del Regno, di cui la Curia aveva urgente bisogno nella guerra contro i Visconti, mentre Bernabò Visconti tentò di stringere un'alleanza con Federico IV. Il papa nel febbraio 1372 propose perciò un matrimonio tra Antonietta Del Balzo, figlia di Francesco e di Margherita di Taranto, e Federico IV. Già all'inizio dello stesso anno G. e Federico riuscirono anche a concludere un trattato preliminare, che però non ebbe l'approvazione di Gregorio XI. Solo il timore di un intervento armato di Pietro IV d'Aragona in Sicilia persuase il papa, il quale il 20 ag. 1372 avanzò una proposta di pace che in sostanza ripeteva il contenuto dell'accordo concluso a Caltabellotta settant'anni prima: al ramo collaterale aragonese fu riconosciuto il possesso perpetuo dell'isola, però il Regno di Trinacria (come fu chiamato il Regno insulare) doveva divenire feudo sia del Regno di Napoli sia della S. Sede. La proposta della Curia trovò l'approvazione anche di G. e di Federico, e il 31 marzo 1373 fu ratificata ad Aversa, mentre le nozze tra il re aragonese dell'isola e Antonietta Del Balzo furono celebrate il 26 nov. 1373 a Messina. All'abilità diplomatica nonché militare di Niccolò Spinelli, che ricopriva sin dal 1370 la carica di siniscalco della Provenza, si dovette invece, nella primavera 1373, il recupero alla sovranità angioina del territorio di Cuneo grazie a un'azione congiunta con Amedeo VI di Savoia contro Bernabò Visconti.
Se il 1373 rappresentò il vero culmine del lungo regno di G., la questione ancora irrisolta della successione cominciò a pesare sulla regina ormai in età, visto che la famiglia reale, come gli Atridi nell'Orestiade, si era sterminata da sola e G. era sopravvissuta a tutti i suoi pronipoti più o meno coetanei, cioè i tre tarantini e i due durazzeschi. Il problema della successione divenne più incalzante allorché a Luigi il Grande tra il 1370 e il 1373 nacquero inaspettatamente ancora tre figlie, e così il doppio matrimonio del 1370, che doveva regolare le successioni a Napoli e in Ungheria, perse gran parte del suo significato politico. Innanzitutto, Luigi, che il 17 nov. 1370 era stato incoronato anche re di Polonia, sperava di ottenere ancora la corona di Napoli per una delle sue figlie. Ma Carlo V di Francia rivendicò al contempo diritti sul Regno per Luigi d'Orléans, figlio secondogenito di Giovanni II, facendoli discendere dal matrimonio di suo bisnonno Carlo di Valois con Margherita d'Angiò, primogenita di Carlo II. Logica conseguenza di queste combinazioni intorno alla successione nel Regno fu un'intesa franco-ungherese, che il 12 ag. 1374 portò a un patto che prevedeva le nozze della primogenita di Luigi d'Ungheria, Caterina, con Luigi d'Orléans, la cui dote avrebbe dovuto essere costituita dal Regno di Napoli, dal principato di Salerno, dall'Onore di Monte Sant'Angelo e dalle Contee di Provenza e Piemonte, vale a dire tutti i domini degli Angioini di Napoli. Sebbene G., che era stata informata da Gregorio XI del progettato accordo franco-ungherese, protestasse fermamente richiamandosi alla dichiarazione di rinuncia fatta da Luigi nel 1352, le trattative franco-ungheresi si protrassero fino allo scoppio del Grande Scisma, con la parte francese impegnata a ottenere miglioramenti che prevedessero soprattutto l'immediata annessione della Provenza e del Piemonte alla Corona di Francia.
A rendere più incerta la situazione contribuì il fatto che la regina non poteva contare sull'incondizionato appoggio di Gregorio XI, perché a causa dell'appoggio prestato segretamente da Firenze ai Visconti e delle rivendicazioni territoriali avanzate sui confini settentrionali dello Stato della Chiesa si era verificata un'aperta rottura tra il papa e il Comune toscano. G. si trovò così in un'alternativa quanto mai difficile, perché doveva decidere per uno dei due più importanti alleati della dinastia angioina sin dal tempo della conquista del Regno da parte di Carlo I. Mercanti e banchieri fiorentini erano inoltre i più importanti creditori della regina. G. tentò così in un primo tempo di mediare tra il papa e Firenze, ma dopo il fallimento di questi sforzi per una riconciliazione non le fu possibile decidersi per il sostegno a Gregorio XI. Come grave complicazione intervenne il fatto che Francesco Del Balzo dopo la confisca dei suoi feudi nel 1374 si era riparato alla corte papale ad Avignone e vi alimentava sentimenti contrari a Giovanna.
Una volta di più fu Niccolò Spinelli che, per superare le tensioni con la Curia, propose un quarto matrimonio di G., dopo la morte di Giacomo di Maiorca nel febbraio 1375. Nel febbraio di due anni prima, durante la sua campagna in Piemonte, lo Spinelli aveva collaborato strettamente con Ottone di Brunswick-Grubenhagen, primogenito del duca Enrico II, il quale dopo la vendita dei suoi diritti e possedimenti allo zio Ernesto nel 1351 aveva soprattutto militato come condottiero di ventura, e si era potuto fare un'idea delle sue capacità militari. Fu certamente il cancelliere a prendere l'iniziativa per il matrimonio di G. con il principe tedesco (la notizia che Ottone sia già entrato negli anni 1358-59 per un breve periodo al servizio di G. è infondata e si riferisce invece a un suo soggiorno in Germania del 1378-79 al fine di assoldare nuovi mercenari per il servizio della regina). Nonostante l'età avanzata di 55 anni, per altre ragioni Ottone sembrò il candidato pressoché ideale per un matrimonio con la regina, dato che aveva mostrato anche capacità di amministratore e, a causa della sua origine da una famiglia quasi sconosciuta, non poteva avanzare alcuna pretesa sulla corona reale. Gregorio XI diede perciò senza indugio la sua approvazione il 1° dic. 1375, e il matrimonio fu concluso il 28 dicembre ad Avignone mediante procuratori. Per prevenire possibili pretese sulla Corona da parte del quarto marito di G., nel contratto di matrimonio egli fu espressamente escluso dalla dignità reale e dalla partecipazione al governo. All'inizio di marzo 1376 Ottone partì dunque dal Piemonte per Napoli, dove giunse il 25 marzo e le nozze furono celebrate lo stesso giorno. L'11 maggio 1376 egli ricevette in feudo la contea di Acerra, mentre il principato di Taranto gli fu conferito solo il 23 sett. 1380, ricevendo l'investitura solenne di questo vasto feudo tre mesi dopo, il 25 dic. 1380.
In effetti, in un primo tempo le speranze che Niccolò Spinelli e Gregorio XI avevano riposto nel matrimonio tra la regina ormai agée e il condottiero si realizzarono, dato che G. appoggiò incondizionatamente le iniziative pontificie contro Firenze. Particolarmente importante si rivelò in questo contesto l'appoggio finanziario che G. garantì al pontefice, che il 17 genn. 1377 era ritornato a Roma. Il 15 apr. 1377 Gregorio XI ricevette 50.000 fiorini dal Regno, un ulteriore segnale che un risanamento delle finanze era stato, almeno in parte, realizzato.
Proprio quando la politica pontificio-angioina era prossima al successo e Firenze mostrava di essere disponibile alle trattative, la morte di Gregorio XI, avvenuta il 27 marzo 1378, mise fine ai dieci "anni d'oro" del regno di G. e aprì l'ultima, drammatica fase della vita della regina, non priva di colpi di scena. Sebbene il Collegio cardinalizio già il 7 apr. 1378, in mezzo a tumulti e alla pressione del popolo romano che chiedeva un papa italiano, avesse eletto come successore di Gregorio XI un candidato di compromesso franco-italiano, nella persona di Bartolomeo Prignano - arcivescovo di Bari e originario di Napoli, dunque suddito di G. -, sorsero ben presto conflitti soprattutto con i cardinali francesi, perché Bartolomeo, che prese il nome di Urbano VI, rivelò un carattere dispotico e litigioso. Nel maggio-giugno 1378 i porporati francesi abbandonarono la Curia e si riunirono ad Anagni. Al contrario di quanto affermano alcune fonti aneddotiche, non si arrivò subito a una rottura tra Urbano VI e G., che aveva salutato l'elezione del Prignano con favore; inoltre, il papa conferì numerose cariche chiave dell'amministrazione curiale a sudditi napoletani e anche Niccolò Spinelli continuò ad avere alla Curia una posizione di prestigio.
Influenzata da alcuni membri del S. Collegio che misero in dubbio la regolarità canonica dell'elezione, avvenuta sotto pressione esterna, ma che erano anche insoddisfatti perché era loro sfuggita la tiara, e confortata dal parere di giuristi dell'Università di Napoli, sembra che la regina cominciasse nello stesso periodo a nutrire dubbi sulla legittimità dell'elezione di Urbano. G. tentò comunque ancora nella metà di luglio 1378 di mediare tra il papa e il Collegio cardinalizio. Fu invece decisiva per il futuro corso degli avvenimenti una visita del cardinale Iacopo Orsini a Napoli alla fine di luglio 1378. Questi, probabilmente con la segreta speranza di divenire papa se si fosse tenuto un altro conclave, riuscì a persuadere G. dell'illegittimità della elezione.
La regina, perciò, contro le sue simpatie personali e l'interesse del Regno, non solo non prestò ancora obbedienza formale al papa, ma, spalleggiata da Niccolò Spinelli, che pure nel frattempo si era allontanato da Urbano VI ed era tornato a Napoli, cominciò ad appoggiare i cardinali secessionisti. In apparenza, la decisione della regina non fu influenzata da motivi politici, anche se non si può escludere del tutto che ella guardasse con preoccupazione agli stretti rapporti tra Urbano VI e Carlo (II) di Durazzo, dato che quest'ultimo dopo la sua definitiva rinuncia al trono ungherese, ma anche per timore che l'avvicinamento franco-ungherese lo escludesse dalla successione al trono di Napoli, maturò almeno palesemente aspirazioni alla successione del Regno. La decisione di G. confortò in ogni caso i cardinali a fare un passo più determinato, sebbene i membri italiani del Collegio rimanessero esitanti, dopo avere appreso che la maggioranza francese era assolutamente decisa a votare un candidato francese. Il 27 ag. 1378, sotto la protezione di Onorato Caetani ma anche della regina di Napoli, i porporati si spostarono da Anagni a Fondi e qui, il 20 sett. 1378, elessero il candidato di compromesso, il cardinale Roberto di Ginevra con il nome di Clemente VII, anche se Niccolò Spinelli, probabilmente su incarico della regina, fino all'ultimo aveva lavorato a favore dell'elezione di un papa italiano, che avrebbe forse evitato lo scoppio dello scisma.
L'elezione non poteva assolutamente essere gradita a G.: il nuovo pontefice altri non era, infatti, che il fratello di quell'Aimone il cui matrimonio con Giovanna di Durazzo la regina aveva a suo tempo impedito. Probabilmente per aspettare le reazioni degli altri sovrani d'Europa, G. tardò a riconoscere formalmente il neoeletto, sebbene alla sua incoronazione, il 31 ottobre, a Fondi, avesse inviato una delegazione ufficiale. Solo dopo che si seppe che Carlo V di Francia avrebbe comunque prestato ubbidienza a Clemente VII, G. riconobbe questo ufficialmente il 20 nov. 1378. La decisione di G. provocò però subito nuovi disordini nel Regno e in Provenza, perché soprattutto il popolo minuto di Napoli mantenne l'ubbidienza a Urbano VI. Nella città partenopea si arrivò pure a dei tumulti, quando Clemente VII vi soggiornò dal 10 al 13 maggio 1379, per cui il pontefice fu costretto a fuggire dalla città alla volta di Avignone. In seguito, la regina contribuì notevolmente con la sua incostanza al sorgere di nuovi disordini, perché, preoccupata dalla situazione nella capitale, decise solo apparentemente di cambiare obbedienza e nel maggio 1379, dopo la partenza di Clemente VII, riconobbe di nuovo Urbano VI come papa; quando però Ottone di Brunswick sopraggiunse con nuove truppe dalla Germania e represse la sommossa nella capitale, revocò questa decisione.
Urbano VI aveva dapprima tardato a reagire, ma, dopo il nuovo cambio di obbedienza di G., il 17 giugno 1379 aprì contro di lei il processo canonico per favoreggiamento di eresia e dello scisma. La scelta di un candidato adatto per la corona di Napoli non fu molto difficile per Urbano, che aveva già stretto a quanto pare buoni rapporti con Carlo (II) di Durazzo sin dall'epoca del soggiorno di questo nello Stato della Chiesa nel 1377-78 e che lo stesso Urbano era stato riconosciuto come pontefice da Luigi I d'Ungheria, all'inizio di giugno 1379. Il papa nell'autunno 1379 offrì pertanto la Corona di Napoli a Carlo, un progetto che pure Luigi d'Ungheria approvò, dopo che le trattative franco-ungheresi sulla successione del Regno di Napoli erano definitivamente fallite. L'alleanza tra il papa e il cugino di secondo grado di G. non parve in un primo momento preoccupare troppo la regina, perché ella fidava nella competenza militare del marito e si era mostrata incerta riguardo a un piano proposto da Clemente VII, che prevedeva l'adozione come successore del duca Luigi I d'Angiò, mentre questi in cambio avrebbe dovuto prestare aiuto militare alla regina in caso di attacco contro il Regno. Determinante per l'esitazione di G. fu certamente anche il fatto che ella non si era dimenticata del tentativo di Luigi di occupare la Provenza nel 1368. Solo dopo avere ricevuto preoccupanti notizie sui preparativi intrapresi da Carlo di Durazzo in Ungheria per un'invasione del Regno e dopo che Urbano VI, l'11 maggio 1380, ebbe sciolto tutti i suoi sudditi dal loro giuramento di fedeltà e l'ebbe dichiarata ancora una volta formalmente deposta, G. il 28 giugno 1380 adottò il duca d'Angiò, Luigi, e gli conferì come erede al trono il ducato di Calabria.
Carlo di Durazzo, che in luglio si era mosso dall'Ungheria e aveva abilmente preparato il suo passaggio per via di terra attraverso gli Stati dell'Italia settentrionale e centrale, non accelerò tuttavia la sua avanzata e raggiunse Roma solo l'11 nov. 1380. A causa della stagione avanzata non si passò ad alcuna azione militare. Durante l'inverno, soprattutto Rinaldo Orsini, conte di Tagliacozzo, tentò di organizzare la difesa del confine settentrionale del Regno contro il previsto attacco di Carlo, mentre la decisione imposta a G. da Clemente VII di adottare Luigi d'Angiò si dimostrò un catastrofico errore, perché Luigi non mostrava nessuna intenzione di affrettarsi in aiuto della regina minacciata, come prevedevano invece gli accordi. G. e Ottone di Brunswick potevano così contare solo su se stessi per respingere l'invasione del Durazzo, poiché anche da Firenze, tradizionale alleata degli Angioini, dopo le vicende del 1377-78 non c'era da aspettarsi alcun aiuto. Carlo di Durazzo riceveva intanto, il 1º giugno 1381, dalle mani di Urbano VI l'investitura feudale per il Regno con il nome di Carlo III. Con l'esercito di Carlo ante portas, il 4 giugno G. rese pubblica l'adozione di Luigi d'Angiò e gli promise la partecipazione al governo e l'incoronazione, nella speranza che il duca si affrettasse ora a mandare l'aiuto promesso. Ma anche questa mossa si rivelò una valutazione errata della situazione, perché il francese non poteva certo in pochi giorni formare un esercito pronto al combattimento e condurlo nel Regno. Inoltre, questa decisione rafforzò in ampi ceti della popolazione, che temeva un nuovo dominio francese nel Regno dopo che la dinastia angioina sotto G. si era definitivamente assimilata, le simpatie per Carlo di Durazzo, che era nato nel Regno e vi aveva trascorso la fanciullezza, e perciò poteva essere considerato un regnicolo.
La conquista del Regno di Napoli divenne così dunque soltanto una formalità. Teodorico di Niem, pieno di candore e di simpatia per il suo connazionale Ottone, poté spiegare la rapida vittoria di Carlo III soltanto con la magia nera e il sortilegio. Messe in fuga, il 24 giugno presso Anagni, le truppe del Brunswick, numericamente inferiori, che tentavano di sbarrargli la via Latina, il 16 luglio Carlo occupò Napoli senza incontrare ulteriore resistenza. I seggi della città lo stesso giorno prestarono giuramento di fedeltà nella chiesa di S. Chiara, mentre G. commise in breve tempo un secondo, clamoroso, errore. Invece di fuggire in Provenza come nel 1348 e di mettersi sotto la protezione di Clemente VII e del "figlio adottivo" Luigi I d'Angiò, si rinchiuse con pochi fedeli in Castelnuovo, nella speranza di un rapido soccorso da parte del marito. Il nuovo re mise subito l'assedio e la regina alla fine capitolò, il 26 ag. 1381, dopo che le truppe di Ottone, nel tentativo di rompere l'assedio, il 25 agosto avevano subito un'ulteriore sconfitta e il Brunswick stesso era stato fatto prigioniero. La sovranità di G. sul Regno di Napoli e sulla Contea di Provenza aveva così fine dopo più di 38 anni.
In violazione dei patti che il nuovo sovrano aveva probabilmente concluso con lei, il 2 sett. 1381 G. fu rinchiusa in Castel dell'Ovo. Dopo la scoperta di una congiura contro la vita di Carlo III, nella quale era coinvolta anche la cognata del re, Giovanna di Durazzo, alla fine di dicembre il re fece trasferire l'ex regina nel castello di Nocera, sebbene non sia certo che G. fosse davvero al corrente dei piani di regicidio. Dal 28 marzo 1382, forse nel timore di un tentativo di liberazione, poiché una parte della nobiltà, specie nel principato, le conservava la fedeltà, fu imprigionata nel remoto castello di Muro, in Basilicata. Luigi d'Angiò partì finalmente, il 13 giugno 1382, dalla Linguadoca con un potente esercito per conquistare il suo nuovo regno. Carlo III temeva una possibile liberazione di G. o almeno sommosse e ribellioni, dato che l'Angiò, per diritto di sangue, dopo la morte di G., come ultimo consanguineo sarebbe stato comunque il legittimo erede della corona di Napoli, e l'ex regina, fino a quando fosse vissuta, costituiva sempre una potenziale minaccia. Probabilmente il 27 luglio 1382, a Muro, Carlo fece perciò soffocare tra due cuscini la donna che vent'anni prima, dopo l'assassinio del padre da parte di Roberto e Filippo II di Taranto, gli aveva salvato la vita. La salma fu portata subito dopo a Napoli e composta nella bara in S. Chiara ai piedi della tomba del nonno Roberto, per dare l'impressione di una morte naturale. Alla ex regina, in quanto scismatica, fu però negata una sepoltura cristiana e i suoi resti furono raccolti in un ossario sotto il pavimento della chiesa.
G. I d'A. non è certamente una delle più importanti figure di regnanti del Medio Evo, sebbene il giudizio unilateralmente negativo della storiografia più remota, che presentò la regina soltanto come una assassina del proprio consorte e donna di costumi scellerati e viziosi, senza alcun interesse per gli affari politici, non è certo condivisibile. È stato soprattutto merito dello storico francese E.G. Léonard - al quale dobbiamo l'opera fondamentale su G. - l'avere rettificato quest'immagine deformata ed errata, senza con ciò presentare la regina, d'altra parte, come "femminista", come vuole suggerire, a torto, invece una pubblicazione recente (Drossbach, p. 334). Nella sua vita privata la regina fu colpita da un'amara sorte. Dei suoi quattro matrimoni i primi tre si possono considerare completamente falliti: ebbe mariti che la trattarono più o meno come un "oggetto" il cui possesso garantiva la corona di Napoli. Inoltre perse tutti i figli in tenera età. Sulla scena politica ella dovette invece pagare soprattutto per le colpe dei padri, perché la decisione, che pesò sul suo lungo regno come una spada di Damocle, di dividere la casa angioina in una linea napoletana e una ungherese, era stata presa già dal suo bisnonno Carlo II e fu sanzionata dal nonno Roberto. Da quest'ultimo ereditò inoltre un Regno che aveva già da parecchio tempo sorpassato il suo culmine e nel quale, già negli ultimi anni di Roberto, erano riconoscibili i segni di una pesante crisi interna: quali il rafforzamento dei principali feudatari, l'esaurimento delle finanze statali a causa degli infruttuosi tentativi di riconquistare la Sicilia, un generale declino dell'autorità della monarchia soprattutto nelle zone lontane dal centro politico del Regno, come la Puglia e la Basilicata.
La stessa regina, che salì al potere appena diciassettenne e che era del tutto impreparata per i suoi certo non facili compiti, divenne presto ostaggio dei diversi partiti di corte, che tentarono di usarla per il conseguimento dei loro propri fini. Soprattutto le secondogeniture di Taranto e di Durazzo videro in lei un mezzo per impadronirsi del titolo reale o per lo meno difesero solo i propri interessi senza riguardo per la Corona. Questi problemi interni del Regno furono aggravati in maniera decisiva dalla crisi generale del XIV secolo, che si manifestò con la diffusione delle compagnie di ventura - per le quali il Regno a causa della sua debolezza interna divenne un eccellente campo di operazioni nella prospettiva di ricchi bottini -, la cattività avignonese del Papato e l'inizio del Grande Scisma, nonché l'insorgere della peste. Il rafforzamento delle signorie e dei comuni nell'Italia centrale e settentrionale, a Milano o a Firenze, fu parimenti dannoso per la potenza angioina nella penisola, e il Regno fu obbligato a rinunciare alla sua tradizionale posizione di semiegemonia: tendenza che fu ancora accentuata dall'indebolimento in Italia del potere politico del Papato, tradizionale alleato degli Angioini, con il trasferimento ad Avignone. Anche un sovrano più forte e capace di G. sarebbe riuscito a malapena a dominare questa sequela di problemi e focolai di crisi. La sua attenzione fu assorbita interamente dalle vicende italiane e provenzali, così ella poté a malapena arginare il crollo del potere della casa d'Angiò nei possedimenti greci, che erano stati da lei dati in feudo ai principi di Taranto. Dopo la morte di Filippo II di Taranto concesse in affitto dunque il principato di Acaia per cinque anni all'Ordine degli Ospedalieri in cambio del pagamento annuo di 4000 ducati, mentre riuscì a conservare alla casa angioina almeno Corfù e intervenne pure ripetutamente nel governo dell'isola. Che G. possedesse qualità politiche è mostrato dai suoi provvedimenti di governo soprattutto in Provenza negli anni di relativa pace, tra il 1366 e il 1378. La decisione di G. più gravida di conseguenze a lunga scadenza fu il riconoscimento di Luigi d'Angiò come erede al trono. Questo atto non significò soltanto una nuova fase nella battaglia per il possesso del Regno di Napoli, ma pose fine alla duplice sovranità degli Angioini sul Regno di Napoli e sulla Contea di Provenza, poiché Carlo III di Durazzo riuscì a imporsi nel Regno e Luigi d'Angiò si impadronì della Provenza.
Il drammatico destino della "regina dolorosa" (come fu chiamata in una rozza profezia del tempo) stimolò già la fantasia dei suoi contemporanei e portò presto alla creazione di leggende sulla "reincarnazione della sirena Partenope", nelle quali, però, la persona della regina fu spesso fusa con quella della pronipote omonima Giovanna II. Una risonanza della sua fama si può per esempio osservare nel fatto che una pittoresca formazione di scogliere, situata al mare a sud di Sorrento, è ancora oggi chiamata nella tradizione popolare "bagni della regina Giovanna". Infatti si può considerare G. la "prima vera sovrana napoletana" della dinastia angioina, la quale già in vita, nonostante alcune errate decisioni politiche, godette a Napoli di una costante popolarità. Dal XVI secolo fino ai giorni nostri furono composti drammi e romanzi storici su di lei, che almeno in un certo senso incarna l'eternamente affascinante legame tra "santa" e "puttana", ovvero carnefice e vittima, a significare come la sua tragica e anche contraddittoria figura continui a suggestionare l'immaginazione. G. non ha in verità trovato uno Shakespeare che la sua tragica vita avrebbe meritato, ma a lei dedicò uno dei suoi più importanti drammi, La rèino Jano, il poeta provenzale Frédéric Mistral.
Fonti e Bibl.: La massima parte dei registri angioini del regno di G. I, custoditi nell'Archivio di Stato di Napoli, fu distrutta nel 1701 nella cosiddetta "Congiurazione del Principe di Macchia", e rimasero fino al 1943 solo 25 volumi per gli anni 1342-52 (cfr. B. Capasso, Inventario cronologico sistematico dei registri angioini conservati presso l'Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1896, pp. 357-378); atti inediti di G. sono presenti a Marsiglia, Archives départementales des Bouches-du-Rhône, s. B, regg. 3-8, 146-147, 150, 159-161, 166, 168, 176, 178, 196-197, 204-205, 209, 266, 269, 488, 527-586, 752, 756, 758-761, 1126-1167, 1171, 1375-1382, 1469-1471; Mss. XXV.F.7 (schede di E.G. Léonard degli "Arcani storici" di Niccolò d'Alife). Altri atti inediti si trovano in numerosi archivi francesi e italiani, per esempio, Parigi, Archives nationales de France, J.375, n. 4; J.512, n. 34; Arch. di Stato di Napoli, Ufficio della Ricostruzione angioina, Mss., Francesco Forcellini, Atti di G. 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Vengono qui di seguito indicate per completezza anche le seguenti opere che sono, però, da utilizzare con grande cautela, trattandosi di scritti di puro carattere divulgativo: I. De Feo, G. d'A., regina di Napoli, Napoli 1968; C. Angelillis, Nuove luci sulle vicende della regina G. I di Napoli, Monte Sant'Angelo 1977; V. Gleijeses - L. Gleijeses, La regina G. d'A., Napoli 1990; A. Perlingieri, G. I d'A. tra storia e leggenda, Firenze 1991; A. Baussy, Le tragique et fabuleux destin de Jeanne Ière, reine de Naples - comtesse de Provence, in Annales de la Société scientifique et littéraire de Cannes et de l'arrondissement de Grasse, XXXVII (1991), pp. 49-65; F. Froio, G. I d'A., Milano 1992; L. Michel, La reine Jeanne de Naples et de Provence. Histoire et légendes, Spéracèdes 1995; D. Paladilhe, La reine Jeanne, comtesse de Provence, Paris 1997.