AGNELLI, Giovanni
AGNELLI, Giovanni (Gianni)
Nacque a Torino il 12 marzo 1921, secondo dei sette figli (dopo Clara e prima di Susanna, Maria Sole, Cristiana, Giorgio e Umberto) di Edoardo, unico erede maschio del fondatore della FIAT, e di Virginia Bourbon del Monte di San Faustino. Riprese il nome del nonno, cui tutti si riferivano come «il Senatore». La scomparsa improvvisa del padre, quando era appena adolescente, lo investì in prospettiva di una funzione di leader d’impresa a cui il nonno lo responsabilizzò grandemente attraverso uno stretto e intenso legame personale. Divenne questo il tratto che lo caratterizzò, quando prese su di sé il compito di guida della FIAT e, con essa, dell’esercizio di una sorta di patronage nei confronti dell’intera industria privata italiana.
Fu educato secondo un modello altoborghese con fitte frequentazioni nel mondo dell’aristocrazia, favorite dal legame con i principi di Piemonte, nei canoni di rigido formalismo del costume dell’epoca, che voleva i figli delle famiglie di maggior rango affidati alle cure di istitutrici straniere e di precettori privati, seppure talvolta anticonformisti e di prestigio intellettuale come Franco Antonicelli. La sorella prediletta, Susanna (n. 1922), ne avrebbe descritto con vivacità e precisione le modalità e i riti in una testimonianza (Vestivamo alla marinara, Milano 1975) fra le più incisive memorie borghesi del Novecento, sottolineando le inclinazioni trasgressive del fratello, studente irrequieto e indisciplinato, come lamentarono gli insegnanti del liceo classico Massimo d’Azeglio.
Sulla formazione dei giovani Agnelli influirono grandemente le vicende legate alla scomparsa del padre nel 1935 per un incidente aereo. Il dissidio fra il senatore Agnelli e la famiglia del figlio, latente fino alla morte di quest’ultimo, si manifestò con la vedovanza di Virginia, cui il suocero fece sottrarre la potestà sui figli. Per anni i rapporti fra suocero e nuora, che si dimostrò capace di opporre una tenace resistenza al volere del primo, si mantennero tesissimi, finché non si trovò un modus vivendi per garantire all’anziano Senatore una funzione di vigile tutela sul nipote, da lui identificato come erede naturale. Fu per volontà del nonno che Gianni, dopo aver conseguito la maturità, intraprese un viaggio oltreoceano visitando New York, Detroit e Los Angeles. Rientrò in Italia fortemente impressionato dagli Stati Uniti – dove tutto gli pareva contrassegnato da dimensioni imponenti, al punto da ricondurre in seguito a quella prima impressione il marcato occidentalismo e filoamericanismo della maturità – e rafforzato nell’idea, già instillatagli dal nonno, che la civiltà e la potenza americane fossero fuori del raggio delle nazioni europee.
Seguendo anche in questo le orme del nonno e del padre, continuò la sua formazione presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, da cui uscì in tempo per partecipare come sottotenente alle operazioni della seconda guerra mondiale. Contrariamente ai desideri del senatore, che avrebbe voluto porlo al riparo dai rischi bellici, fu prima sul fronte russo e poi in Tunisia, da dove il nonno lo fece trarre in salvo poco prima che le truppe italiane si arrendessero alle forze angloamericane. Il 25 luglio 1943 lo trovò quindi a Torino, dove conseguì la laurea in giurisprudenza presso la locale Università. L’anno dopo, insieme con Susanna, crocerossina, tentò di varcare le linee tedesche nell’Italia centrale, allo scopo di ricongiungersi con la madre da qualche anno trasferitasi a Roma. Durante il tentativo, ebbe un grave incidente d’auto che lo costrinse a sostare a Firenze, dove entrò in contatto con i reparti italiani aggregati all’esercito angloamericano, terminando quindi la guerra come ufficiale della divisione Legnano.
L'improvvisa scomparsa della madre e del nonno, tra il novembre e il dicembre 1945, lo pose dinanzi alle incombenze connesse alla condizione di erede delle fortune familiari in un momento oltremodo difficile e tormentato della vita nazionale e della ricostruzione dell’apparato economico. Aderendo all’invito del nonno, che l’aveva esortato a riporre piena fiducia nell’amministratore delegato della FIAT, non si impegnò in prima persona nella gestione dell’azienda, delegando a Vittorio Valletta – reintegrato nelle proprie funzioni dalla commissione di epurazione agli inizi del 1946 – ogni responsabilità operativa fino a cedergli la presidenza della FIAT, che Valletta tenne ininterrottamente sino alla primavera del 1966.
Agnelli fu nominato vicepresidente, una carica simbolica nel segno della continuità della struttura proprietaria. Si riservò invece la presidenza dell’altra azienda di famiglia, la RIV (Roberto Incerti e C. Villar Perosa), mentre, ancora per accondiscendere alle inclinazioni del nonno, assunse nel 1945 la carica di sindaco di Villar Perosa, la località della Val Chisone dov’erano la prima residenza e le radici degli Agnelli.
Il 1946 inaugurò per il venticinquenne quella che molti considerarono come una lunga jeunesse dorée, spesa nei luoghi di ritrovo dell’alta società internazionale. All’epoca, le cronache si compiacquero di rappresentarlo come uno dei maggiori protagonisti di una brillante vita mondana cosmopolita, a fianco di celebrità e personaggi importanti. In realtà, il periodo trascorso avendo come base la villa di Beaulieu, in Costa Azzurra, appartenente alla madre, non si rivelò, alla distanza, improntato esclusivamente a frivolezze e divertimenti. Fu infatti allora che venne realizzando quella rete di legami internazionali destinata a favorirlo quando avrebbe assunto su di sé le maggiori responsabilità. Anche grazie alla lunga relazione con l’inglese Pamela Digby – che aveva sposato in prime nozze il figlio di Winston Churchill, Randolph, ed era entrata in rapporto durante la guerra con l’esponente democratico statunitense Averell Harriman – Agnelli stabilì rapporti di amicizia con un’emergente élite occidentale, a metà tra affari e politica, rivelatasi determinante soprattutto negli anni Sessanta, al momento dell'accesso alle leve del potere. Risalgono agli anni Cinquanta le relazioni con John F. Kennedy, allora senatore democratico, e sua moglie Jacqueline Bouvier – estesesi poi al fratello minore Edward, a sua volta rappresentante del partito democratico – e con il banchiere David D. Rockefeller.
Su un piano più strettamente professionale si sviluppò invece il rapporto con André Meyer della banca d’affari internazionale Lazard, inizialmente mediato da Raffaele Mattioli e da Enrico Cuccia, divenuto presto per Agnelli un punto di riferimento nella conduzione delle attività. Nella cornice mondana della riviera francese e negli ambienti culturali di New York, doveva maturare anche un altro dei caratteri di lì in avanti sempre esibito, vale a dire la sua natura di appassionato intenditore d’arte, in specie contemporanea, e di collezionista, all’origine, nel tempo, di una fama considerevole.
Nel 1953 sposò Marella Caracciolo di Castagneto dal matrimonio con la quale nacquero nel 1954 Edoardo e nel 1955 Margherita.
Per tutti gli anni Cinquanta, la presenza di Agnelli in Italia fu sporadica e senza apprezzabili ripercussioni sulla gestione della FIAT e delle altre attività economiche controllate dalla famiglia. Rimarchevole fu invece la sua influenza nelle vicende sportive: figurò nel consiglio d’amministrazione della Juventus dalla morte del padre e ne divenne presidente effettivo nel 1947. Sotto la sua presidenza, durata fino al 1954, la squadra vinse due campionati italiani di calcio, nel 1950 e nel 1952. Il coinvolgimento nelle questioni sportive fu intensissimo e rafforzò notevolmente l’identificazione fra la squadra e la famiglia, per la quale l’impegno nel calcio fu sempre considerato come un elemento qualificante. Agnelli continuò a seguire la Juventus con evidente, sollecita partecipazione anche dopo esserne divenuto presidente onorario.
Col trascorrere del tempo, divenne sempre più difficile per Agnelli trovare una collocazione che lo sottraesse a quella posizione di erede senza responsabilità oggetto di inevitabili critiche. L’autorità di Valletta sulla FIAT era assoluta e finché l’ottuagenario presidente avesse tenuto le redini non vi sarebbe stato posto per un altro ruolo di vertice. Confortato dagli eccellenti risultati economici ottenuti e da un controllo totale sulla gerarchia aziendale, Valletta si limitò per un po’ a informare periodicamente Agnelli circa gli andamenti aziendali, delegandogli il compito di partecipare alla vita interna della Confindustria, cui egli, convinto dell’autosufficienza della FIAT in materia di relazioni politiche e sindacali, annetteva poca importanza. Nel 1959, Agnelli assunse la presidenza dell’IFI (Istituto finanziario industriale), la finanziaria che gestiva le partecipazioni azionarie di famiglia, mentre il ruolo operativo era assicurato da Gaetano Furlotti.
Per affermarsi sulla scena pubblica italiana, Agnelli dovette giungere alla soglia dei quarant’anni, quando – in occasione delle celebrazioni per il centenario dell’unità d’Italia, con il complesso di manifestazioni organizzate a Torino sotto la sigla Italia ’61 – gli venne affidata la presidenza dell'Esposizione internazionale del lavoro. Evento di per sé non troppo significativo, questa rappresentò per Agnelli un apprendistato importante: per il rilievo pubblico che acquistò la sua figura (da allora cominciò a essere indicato con l’appellativo, divenuto celebre, di «avvocato», a motivo della sua laurea in legge), e per l'opportunità di riflessione su questioni destinate a rivelarsi centrali una volta assunto il potere aziendale. A coadiuvarlo fu un giovane funzionario della FIAT, a lungo al suo fianco nell’opera di costruzione delle relazioni esterne dell’azienda, Vittorino Chiusano, un cattolico molto attento agli equilibri politici e distante dal mondo vallettiano.
Nei primi anni Sessanta, Agnelli apparve sempre più spesso a lato di Valletta, affiancandolo nelle missioni internazionali e facendo risaltare quella capacità di stabilire contatti e creare reti di relazioni che ne stavano connotando il profilo. L’amicizia con il presidente Kennedy contribuì a spianare la strada a una politica di espansione aziendale, fondata esplicitamente sul principio della coesistenza pacifica fra Est e Ovest.
Un ruolo importante Agnelli ebbe nelle trattative che precedettero gli accordi per la costruzione di impianti della FIAT in Unione Sovietica. La firma dell’intesa per la realizzazione di uno stabilimento di produzione di autovetture giunse solo nel 1966, ma fu preparata da un intenso lavorio, in Italia e negli Stati Uniti, in cui Agnelli aveva avuto modo di ritagliarsi uno spazio proprio. Nell’apertura all’Est, salutata come evento di inusitata novità per una grande impresa occidentale, si rispecchiava peraltro il senso del limite raggiunto dalla FIAT di Valletta. A metà degli anni Sessanta, superata la stagione cruciale del ‘miracolo economico’, iniziava a farsi strada l’idea che l'azienda, all'apice della classifica dei produttori europei di autovetture, dovesse cercare nuove vie di sviluppo e allargare la sua sfera d’azione internazionale. La scelta dell’URSS costituiva l’innovazione più radicale, anche se non furono trascurati altri sentieri: Francia, Spagna, America latina, Turchia.
Nel 1963 Agnelli fu nominato amministratore delegato della FIAT, a fianco del collaboratore più stretto di Valletta, Gaudenzio Bono. A posteriori, anche questo passo appare come un’ulteriore tappa di avvicinamento al potere in azienda e al ripristino di un ruolo di comando per la famiglia Agnelli, del quale Valletta non percepiva la necessità. Piegato dall’età e indebolito, il vecchio presidente dovette risolversi a cedere il passo a Gianni – invece che a Bono, come aveva sperato di fare in un primo tempo – non più disposto a delegare ad altri la guida dell’impresa. Nella primavera del 1966 Valletta lasciò la presidenza, pur rimanendo in servizio fino alla morte, nell’agosto 1967, non volendo Agnelli privarlo della soddisfazione di concludere l’accordo con i sovietici.
La FIAT veniva dal periodo di più intensa e duratura crescita della sua storia. Ma l’impressione di stabilità era offuscata da una montante insoddisfazione, avvertita anche nelle file del management e fra i quadri direttivi di reclutamento più recente, sempre più insofferenti per la preferenza accordata al già sperimentato, conosciuto e di routine. Il ritorno di un Agnelli alla presidenza aziendale non fu il normale avvicendamento che Valletta aveva prefigurato, perché spezzò la linea di continuità gerarchica. Con le parole e gli atti, manifestò la volontà di uno stacco nei metodi di gestione, evidente fin dal richiamo a modelli extraziendali come quello, ancora vibrante di attualità, di Kennedy, e nell’esortazione a immaginare una ‘nuova frontiera’ anche per l’impresa.
L’impulso al rinnovamento si incanalò lungo due strade distinte: la prima si snodava lungo l’asse aziendale, per intaccare il centralismo dell’età di Valletta, divisionalizzare la struttura d’impresa e modificare i suoi centri decisionali. La seconda seguiva un itinerario più incerto, che prendeva le mosse dal tema della cultura industriale, per raccordarsi al dibattito sulle sedi dell’associazionismo imprenditoriale e approdare alla presidenza della Confindustria, assunta da Agnelli nel 1974.
La FIAT ereditata da Valletta era un monolito, potente e coeso, ma centralizzato al massimo e scandito da una successione quasi interminabile di livelli e di gradi gerarchici. Soltanto il vertice dell’impresa possedeva il controllo della macchina operativa e disponeva della conoscenza circa la sua capacità di reddito e i flussi finanziari che generava. Questo modello presupponeva che tutte le decisioni fossero avocate al centro e che il principio della gerarchia e della lealtà aziendali costituissero l’elemento premiante. La FIAT poteva essere governata solo attraverso lo strumento della disciplina e dell’uniformazione alle direttive calate dall’alto.
A questa visione Agnelli oppose la necessità di procedere a un rinnovamento in profondità della mappa delle funzioni d’impresa. Prima di tutto, occorreva decentrare e concedere autonomia operativa ai settori, in modo da responsabilizzarli nel conseguimento dei risultati. Diede dunque il via a una complessa opera di ridefinizione del sistema aziendale, affidata soprattutto all’intervento del nuovo amministratore delegato, chiamato ad affiancare Bono, il fratello ultimogenito Umberto (n. 1934).
Questi, che sedeva nel consiglio d’amministrazione FIAT dal 1964, veniva da una precedente esperienza di riorganizzazione che aveva interessato la consociata francese SIMCA (Société industrielle de mécanique et de carrosserie automobile), poi FIAT France, divenuto il quarto produttore di automobili sul mercato d’Oltralpe, con una quota pari al 20%. Il compito assunto da Umberto, in un rapporto di stretta complementarità con il fratello, appariva quasi improbo perché, come ha ricordato il suo più stretto collaboratore d’allora, Luchino Revelli-Beaumont, la FIAT «era una gigantesca piramide basata su 300.000 dipendenti», ove «le decisioni, di qualsiasi natura, anche per problemi di modesta rilevanza, erano di norma prese dal vertice: direttore generale e amministratore delegato». Tale rigidità «da un lato provocava perdite di tempo al vertice, chiamato a controfirmare “a posteriori” decisioni quasi sempre già prese»; dall’altro «costituiva di per sé una forma di esautorazione dei direttori responsabili» (Revelli-Beaumont, 1996, p. 160). Umberto reagì a una situazione di anchilosi gerarchica fissando, d’intesa con il fratello, un limite di 60 anni d’età per i livelli direttivi, di 70 per i consiglieri d’amministrazione e di 75 per il presidente. Per il sistema FIAT, fu quasi un terremoto: «si intaccava sostanzialmente la compattezza della struttura esistente e saldamente al potere, con tutto l’intrico di protezioni e interessi anche economici che ne potevano conseguire» (ibid., p. 161).
Il processo di riforma e modernizzazione aziendale ebbe il proprio oppositore nel direttore generale Niccolò Gioia, fortemente contrario al progetto di una FIAT trasformata in un gruppo formato da «una serie di attività operative, contraddistinte per prodotto, interamente responsabili del raggiungimento degli obiettivi economici, produttivi e di mercato, di redditività, fissati nei budgets annuali di esercizio e inquadrati nei piani di sviluppo pluriennali a medio e lungo termine. Tali società operative per prodotto erano destinate a essere coordinate da un vertice con funzioni di indirizzo, stimolo e controllo» (ibid., pp. 161 s.).
In breve, si determinò una polarizzazione fra la nuova leva direttiva raccolta attorno al neoamministratore delegato – il cosiddetto Gruppo affari internazionali, destinato a sovrintendere alle strategie dei vari enti FIAT nel mondo – e la vecchia guardia capitanata dal direttore generale.
Gli sforzi di rinnovamento del vertice FIAT dovettero peraltro fare i conti anche col più intenso ciclo di conflittualità industriale che le fabbriche italiane avevano fino allora conosciuto. La spirale dello scontro crebbe su un accumulo di condizioni sociali che avrebbero fatto da detonatore della protesta collettiva, senza che i tentativi di rilancio della rappresentatività confindustriale, che ebbero in Agnelli uno dei principali sostenitori, fossero in grado di incidere. Quando Agnelli aveva prospettato la necessità di una nuova frontiera anche per il mondo dell’industria, si era voluto riferire apertamente all’elaborazione di un’autonoma politica culturale, che il sistema imprenditoriale aveva sin lì trascurato.
Diventando presidente della FIAT, si preoccupò immediatamente di varare un progetto che gli stava a cuore, la nascita di una fondazione intitolata al nonno, nel centenario della sua nascita, allo scopo di portare in Italia l’esperienza e il modello operativo delle grandi fondazioni americane polifunzionali, come la Ford Foundation. Ad attuare il progetto fu ancora Chiusano, che si affiancò – come direttore – una personalità esterna all’azienda e, negli anni recenti, allo stesso ambiente torinese, Ubaldo Scassellati, intellettuale di estrazione cattolica, in gioventù funzionario della casa editrice Einaudi e militante del Partito comunista italiano. Chiusano e Scassellati lavorarono in coppia per elaborare un vasto programma di ricerche, volte alla valorizzazione delle scienze sociali in Italia e con un’attenzione speciale per i temi del ricambio generazionale nell’industria e nel sistema imprenditoriale. La cultura italiana accolse con un’esasperata diffidenza i programmi culturali della Fondazione Agnelli (inaugurata nel 1966), mentre la sinistra vi scorse soprattutto il segnale di un’ambigua vocazione egemonica del neocapitalismo italiano, sospettando la nuova istituzione di prefigurare inquietanti scenari di cambiamento politico-istituzionale. Finito il periodo della direzione di Scassellati, la Fondazione non sarebbe più riuscita a imboccare un cammino definito, anche per la crisi seguita nel 1975 alla decisione del direttore di allora, lo scrittore ed ex manager olivettiano Paolo Volponi, di sostenere il PCI alle elezioni amministrative.
La politica culturale e le attività della Fondazione Agnelli incisero comunque nel processo di trasformazione della rappresentanza confindustriale aperta con l’avvento di Gianni alla presidenza FIAT. Il rinnovamento aziendale insieme con la volontà di innovare lo stile della leadership industriale, bastarono ad attirargli l’interesse di quanti pensavano che molto andasse cambiato nel sistema imprenditoriale. Il neopresidente della FIAT presentava inoltre un vantaggio duplice: essere il discendente della più insigne dinastia imprenditoriale del paese e apparire estraneo al rituale e alle frequentazioni convenzionali dell’élite economica; alla Confindustria lo si conosceva poco e ciò faceva di lui un interlocutore potenziale per chi credeva giunto il momento di rendere meno asfittici i circuiti e i luoghi di ritrovo degli imprenditori, iniettando in essi linfa nuova. Nacque così il rapporto fra Agnelli e il gruppo Giovani imprenditori, il nucleo che dal 1966-67 si propose di riformare la Confindustria, per reagire sia alla disaffezione crescente verso la rappresentanza confindustriale, sia alla delegittimazione che corrodeva il ruolo imprenditoriale.
Con la spinta iniziale dei Giovani imprenditori, si mise in moto il processo che doveva condurre al primo ambizioso schema di riforma della Confindustria. La formazione della commissione presieduta da Leopoldo Pirelli, incaricata nel marzo 1969 di riformare lo statuto dell’associazione, ne costituì in qualche misura una filiazione, alla quale Agnelli prestò il suo apporto personale, partecipando in un ruolo di garanzia ai suoi lavori dall’aprile 1969 al febbraio 1970.
L’ondata di conflittualità, però, aveva già investito con tutta la sua forza la FIAT, irrompendo nel processo di trasformazione interna. Nel 1969 – l’anno in cui l’azienda torinese incorporò la Lancia e assunse il controllo della Ferrari – il totale delle ore perse per sciopero negli stabilimenti torinesi della casa automobilistica superò i 9 milioni. La perdita produttiva che ne derivò fu calcolata in 273.000 vetture in meno rispetto alle previsioni e, pur dinanzi a un aumento del fatturato, l’utile scese dai 34 miliardi di lire del 1968 ai 13 miliardi del 1969. Ma soprattutto fu presto chiaro che gli scioperi non erano stati una fiammata, perché il livello e la temperatura del conflitto si mantennero elevatissimi fino al 1980. Per un decennio l’andamento dei profitti della FIAT fu altalenante, mentre gli investimenti andarono assorbendo sempre più ingenti risorse finanziarie, con la conseguenza di aumentare l’indebitamento, aspetto che per un’azienda cresciuta sulla capacità di autofinanziarsi ebbe un effetto traumatico, come doveva scoprire nell’autunno del 1974 il nuovo direttore finanziario Cesare Romiti, giunto in azienda quando la situazione dei conti era sull’orlo del collasso.
Nello stesso tempo apparve chiaro come alla diffusione degli scioperi e dell’insubordinazione operaia contribuissero anche i livelli abnormi di concentrazione industriale che caratterizzavano gli impianti torinesi. Mirafiori, con oltre 50.000 addetti, era una fabbrica monstrum, che le dimensioni (e una politica sindacale dell’azienda assai poco lungimirante) avevano reso ingovernabile e fonte perenne di conflittualità. Agnelli non aveva trovato modo di opporsi alle risoluzioni di Valletta che, ancora nel 1966, aveva voluto l’implementazione di una nuova fabbrica torinese a Rivalta, già obsoleta per concezione progettuale al momento dell’edificazione. Ma era evidente che la congestione industriale di Torino era arrivata a una soglia insostenibile. Gli anni Settanta, da questo punto di vista, segnarono una svolta determinante con la scelta di localizzazione della FIAT nel Mezzogiorno, attuata col concorso importante degli incentivi e degli investimenti pubblici, che si concretizzò negli impianti di Termini Imerese, Sulmona, Cassino, Termoli.
Anche la Confindustria doveva fare delle relazioni industriali un’arena centrale del proprio impegno proprio durante la presidenza di Agnelli. Nel 1974, d’intesa con Pirelli, aveva indicato il miglior candidato in Bruno Visentini, presidente della Olivetti, attivo in politica nel Partito repubblicano. Ma la candidatura, non del tutto ben gestita all’interno dello schieramento confindustriale, s’infranse contro l'opposizione del presidente della Montedison, Eugenio Cefis, allora accreditato come il principale avversario del fronte degli imprenditori laici per i suoi legami con il segretario della Democrazia Cristiana Amintore Fanfani. Dinanzi alla situazione di stallo determinata dal ritiro di Visentini, fu giocoforza che Agnelli accettasse, sebbene per un solo biennio, la presidenza di Confindustria, incarico che – al di là degli stessi risultati – rappresentò nella sua biografia una tappa fondamentale. Egli prestò all’organizzazione degli imprenditori il proprio prestigio personale e l’autorevolezza che lo circondava, ricevendone in cambio la definitiva consacrazione pubblica nazionale.
La responsabilità confindustriale non fu solo il frutto delle posizioni che l’avevano portato a essere il membro più ascoltato della commissione Pirelli, ma anche delle sue proposte di politica economica. Nei primi anni Settanta fu lui ad avallare il progetto di un ‘patto dei produttori’, una sorta di alleanza fra i soggetti sociali animatori dello sviluppo industriale. Questi, invece di combattersi sulla ripartizione della ricchezza prodotta, avrebbero dovuto concordare una politica comune. In altri termini, si sarebbe trattato di sostenere un’ipotesi ‘manchesteriana’, in cui lavoro e capitale potessero incontrarsi sull’interesse comune della lotta alle numerose rendite di posizione che affliggevano l’Italia e ne minavano la modernità. Una volta compresso lo spazio della rendita (identificata con fenomeni vari, come l’elefantiasi della pubblica amministrazione, l’estensione e la frammentazione del settore commerciale, la diffusione della speculazione edilizia), il beneficio economico per i ceti più attivi sarebbe aumentato e ne avrebbe guadagnato anche il livello dei salari reali dei lavoratori dell’industria, senza per questo far lievitare il costo del lavoro. Era una linea che mostrava di contemperare gli interessi dei sindacati e di alcune componenti della sinistra e che, non a caso, stimolò un interlocutore come l’economista marxista Claudio Napoleoni.
L’eco di questo approccio può essere avvertito anche nell’atto più significativo della presidenza Agnelli della Confidustria. Il 25 gennaio 1975, egli siglò un accordo, largamente ricettivo delle tesi sindacali e di vasta risonanza, anche per la fama e l’aura di rispetto che circondavano i suoi maggiori contraenti, a cominciare dal segretario della CGIL (Confederazione generale italiana del lavoro) Luciano Lama, con il quale Agnelli strinse un lungo rapporto di stima. Nell’intesa si accettava di unificare il punto di contingenza per tutti i lavoratori, rivalutandolo al livello più alto; così si poneva termine a una prassi di differenziazione dell’indennità secondo il livello retributivo e la qualifica, sottoscrivendo il principio della massima copertura possibile contro l’inflazione. Fosse per il prestigio di chi l’aveva avallato con il proprio nome o per il rilievo oggettivo di una grande intesa interconfederale, l’accordo ottenne un ampio credito pubblico, facendo passare in secondo piano critiche e perplessità. Peraltro, Agnelli ne illustrò le ragioni con parole sobrie all’assemblea annuale degli industriali tenuta in aprile, presentandolo come una premessa per ridare ordine alla contrattazione collettiva. Senza chiedere al sindacato «l’impegno innaturale di evitare ad ogni costo la conflittualità», la Confindustria si attendeva che la nuova scala mobile sarebbe valsa a «contenere le spinte corporative ed evitare il peggioramento della jungla normativa e retributiva» (Quaranta anni di Confindustria, 1989, II, pp. 456 s., 462).
Quanto meno nelle intenzioni, l’accordo sulla scala mobile tradiva un richiamo al New deal, teso com'era a chiudere i conti con un’epoca, possibilmente per aprirne un’altra meno intrisa di conflittualità. Era quasi un monumento eretto al fordismo e al suo apporto allo sviluppo recente dell’industria italiana: si coglieva il riconoscimento tributato all’incidenza del lavoro comune, dequalificato, e alla massificazione operaia, due fenomeni rilevanti sia per la crescita della produttività sia per il dilagare del conflitto. Il punto unico di contingenza diveniva il pilastro di una risistemazione globale della politica del lavoro, che andava dalle pensioni alla nuova disciplina della cassa integrazione. Sottesa all’accordo permaneva un’intonazione ottimistica, inscindibile dal fordismo, che proiettava sullo sviluppo futuro le medesime caratteristiche del presente, lasciando ritenere che la crescita avrebbe continuato a dipendere dalla produzione di massa e da un dimensionamento imponente degli impianti.
L’accordo, tuttavia, venne a inscriversi in una fase economica già assai critica per il paese, come non si mancò da più parti di sottolineare. Secondo il governatore della Banca d’Italia Guido Carli, l’accordo puntava addirittura «a scardinare il sistema e a costringere l’Italia a distaccarsi dalla comunità dei Paesi ad economia capitalistica». Il meccanismo egualitario sanzionato dal punto unico avrebbe impedito di «destinare risorse alle esportazioni, sottraendole al consumo» (Cinquant’anni, 1993, pp. 339 s.). Dovevano farne le spese i conti con l’estero, fra l’indifferenza dei sindacati che consideravano il vincolo esterno come una ‘mistificazione’ capitalistica da smascherare. Le necessarie misure di aggiustamento finivano con l’essere tacitamente devolute alla politica monetaria, con la conseguenza di penalizzare gli investimenti, contrarre i margini di profitto e innalzare i livelli di indebitamento delle imprese. Ancora più aspro fu il giudizio dell’economista italo-americano, futuro premio Nobel, Franco Modigliani, il quale reagì prontamente al titolo col quale il Corriere della sera del 26 gennaio sintetizzava l'avvenimento – «Importante accordo Confindustria-sindacati apre nuove prospettive al rilancio produttivo» – inviando al giornale un articolo di dura accusa verso un atto economicamente sconsiderato. Con l’accordo, i sindacati avevano voluto «prima di tutto aumentare i salari e in secondo luogo livellarli». Grazie alla nuova scala mobile, infatti, i redditi più bassi – cioè quelli degli «operai meno retribuiti, […] di gran lunga più numerosi» (Modigliani, 1999, pp. 230, 232) – sarebbero cresciuti più del costo della vita, determinando quindi un aumento del salario medio superiore all’indice dei prezzi. Non era sensato affidare la ridistribuzione del reddito all’inflazione invece che alla politica fiscale.
Anche dall’esecutivo piovvero critiche sull’accordo e i suoi artefici. Proprio l’uomo politico più vicino ad Agnelli, Ugo La Malfa, vicepresidente del Consiglio nel governo presieduto da Aldo Moro, doveva attaccare il compromesso contrattuale per il suo alto potenziale inflazionistico.
Sebbene la questione della contingenza lasciasse un’ipoteca pesante sulle questioni sindacali e, più in generale, sulla politica economica, è comunque indubbio che Agnelli, quando nel 1976 cedette il timone della Confindustria a Carli, da lui quasi letteralmente imposto agli imprenditori italiani, fosse ormai una figura pubblica di indiscusso rilievo. Il periodo alla testa dell’associazione industriale ne aveva accentuato i tratti di leader carismatico, accrescendone l’autorevolezza presso l’opinione pubblica, persuasa di trovarsi dinanzi un esponente dell’élite economica capace di guardare al di là dei propri interessi immediati. I discorsi di Agnelli avevano acquistato un respiro e un’autorevolezza inconsueti fra le classi dirigenti dell’economia, che raramente s’erano distinte per l’inclinazione a rivolgersi direttamente al paese. Nella prospettiva di molti, era insomma un leader politico, per di più dotato di un garbo e uno charme personali del tutto inconsueti. Era logico, perciò, che ci si attendesse che l’impegno di Agnelli dovesse proseguire anche nelle forme canoniche della politica. Il primo a coltivare questa possibilità fu appunto La Malfa, che da anni intratteneva con Agnelli un legame privilegiato e un rapporto di stima. La Malfa pensava a lui come a un eccellente ministro degli Esteri in pectore, grazie alla qualità delle sue relazioni internazionali e all’apprezzamento riscosso fuori d’Italia. Gli offrì così una candidatura nelle liste repubblicane per le elezioni politiche del 1976, che Agnelli parve per un po’ prendere in considerazione, sino a quando il fratello Umberto raccolse l’invito della DC a candidarsi nelle sue file. Tramontata la proposta, fu la sorella Susanna a essere eletta al parlamento fra i repubblicani.
Gli Agnelli guardavano oltre i confini della loro impresa perché erano convinti di avere ormai assicurato alla FIAT un assetto direzionale stabile. Nella primavera del 1976, con un gesto a sorpresa, avevano chiamato alla posizione di amministratore delegato (peraltro da condividersi con Umberto Agnelli e Romiti), un imprenditore quarantenne di Torino, Carlo De Benedetti, che la FIAT aveva già voluto alla guida della locale Unione industriale. Fu subito chiaro che l’approccio di De Benedetti non era quello di un manager soltanto. Il nuovo amministratore delegato si comportava più da proprietario che da alto dirigente, senza alcun timore reverenziale verso i livelli gerarchici esistenti e con la convinzione che la FIAT andasse rivoltata come un guanto per conseguire un vero rilancio. A queste condizioni, il divorzio con gli Agnelli si profilò presto come inevitabile: si consumò poco dopo, nel corso dell’estate, dischiudendo a Romiti la possibilità di ampliare il proprio raggio d’influenza. I conti della FIAT restavano frattanto preoccupanti. In quel 1976, l’esposizione finanziaria a breve ammontava a 1434 miliardi di lire e, con una redditività del tutto insoddisfacente, occorreva pensare a soluzioni che permettessero la copertura dell’alto livello di investimento di cui l’azienda aveva bisogno. In una conferenza stampa convocata all’improvviso il 1° dicembre 1976 Agnelli, destando non poco scalpore negli ambienti finanziari e politici, in Italia e all’estero, annunciò la conclusione di un accordo con la Lybian Arab foreign investment company (LAFICO), di fatto con il governo di Tripoli di Muhammar Gheddafi, che si impegnava a sottoscrivere un aumento di capitale della FIAT per un apporto di 415 milioni di dollari, pari al 9,7% del capitale della società. A indirizzare i capitali libici in direzione di Torino erano stati prima André Meyer e la banca Lazard e poi Cuccia e la sua Mediobanca. Suscitava stupore e anche timore il fatto che Agnelli, considerato universalmente tra gli italiani più filoccidentali, avesse contratto un patto con un interlocutore che a quel tempo figurava nella prima fila dei nemici dell’Occidente. La presenza dei rappresentanti libici nel consiglio d’amministrazione della FIAT non doveva tuttavia generare problemi né all’azienda né all’Italia, almeno fin quando, a metà degli anni Ottanta, la Libia non sarebbe apparsa come il maggiore focolaio del terrorismo internazionale e il nemico dichiarato del presidente americano Ronald Reagan. A quel punto, Agnelli e la FIAT – nell'impossibilità di ignorarne le ricadute – riuscirono grazie a una complicata operazione finanziaria architettata da Cuccia e non priva di pesanti conseguenze per il mercato finanziario, a ricomprare, nel settembre 1986, 5.000.000 delle proprie azioni, precedentemente nelle mani della LAFICO.
All’epoca dell’accordo con i libici, però, i problemi della FIAT non erano in primo luogo di natura finanziaria. Il versante su cui l’azienda restava più esposta era quello delle relazioni di lavoro: alla conflittualità endemica che travagliava la vita degli impianti produttivi si stava aggiungendo la minaccia sempre più estesa del terrorismo.
Le forme di lotta che si erano diffuse a partire dall’Autunno caldo avevano, da un lato, scardinato la gerarchia aziendale nelle sue fasce più basse e, dall’altro, dato adito a forme di mobilitazione collettiva non immuni dal ricorso alla violenza. Di questo clima avevano approfittato, pur osteggiate dal sindacato, le organizzazioni terroristiche (Brigate rosse e Prima linea): lo scorcio finale degli anni Settanta fu drammaticamente segnato dalle azioni dei ‘gruppi di fuoco’ terroristi, che volsero la loro offensiva nei confronti dei responsabili sindacali di reparto, dei quadri direttivi intermedi e, più in generale, di tutte quelle figure gerarchiche che, prive di scudi protettivi, potevano essere facilmente identificate e colpite. Al disordine dell’organizzazione produttiva della FIAT, continuamente paralizzata dalla microconflittualità, si sommò così il senso di pericolo costante, indotto dalle azioni terroristiche. I costi organizzativi di tale situazione stavano diventando insostenibili per la struttura d’impresa, sottoposta a sollecitazioni che non era più in grado di reggere dopo quasi un decennio di ininterrotta alta conflittualità.
Il clima aziendale precipitò nel 1979, dopo l’uccisione, a opera di Prima linea, di Carlo Ghiglieno, un ingegnere incaricato della pianificazione interna, che provocò una vasta reazione fra i quadri. In quello stesso anno, le agitazioni sindacali per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, che a Torino si svolsero con blocchi stradali e numerose manifestazioni di protesta, contribuirono a rendere tese le relazioni industriali. Alla FIAT Auto, che si era appena costituita in società autonoma, la direzione del personale decise un mutamento di rotta, individuando fra i militanti di base del sindacato i soggetti che potevano essere accusati di comportamenti violenti e procedette al licenziamento di 61 di loro. La mancata protesta dei lavoratori, stanchi anch’essi di uno stato di tensione che si prolungava da tempo, convinse il vertice FIAT che i tempi fossero maturi per un affondo capace di restaurare la normalità produttiva nelle fabbriche e di limare fortemente il potere di interdizione del sindacato.
Quest’orientamento maturò al principio del 1980 ed ebbe il principale interprete in Romiti il quale raccolse intorno a sé una squadra di dirigenti relativamente giovani, convinti che la FIAT non potesse sopravvivere senza una svolta radicale. La responsabilizzazione piena del management comportava peraltro una riduzione del ruolo e della presenza della proprietà: Gianni Agnelli e anche il fratello Umberto erano troppo esposti alle pressioni politiche e istituzionali perché potessero condurre la svolta. Inoltre, se l’offensiva manageriale non avesse avuto successo, agli azionisti sarebbe comunque rimasto un margine di manovra che, invece, laddove avessero gestito in prima persona l’operazione, si sarebbe annullato.
Il 1980 coincise così, oltre che un autentico spartiacque nella storia delle relazioni industriali in Italia, anche l’accentuazione del potere manageriale alla FIAT. Fu allora che Romiti conquistò sul campo la leadership nella gestione d’impresa, mantenuta poi fino al 1998, al raggiungimento dei 75 anni. Dopo un’agitazione che per 35 giorni bloccò gli impianti della FIAT, riuscì a ottenere che 24.000 lavoratori fossero posti in cassa integrazione a zero ore, infliggendo quindi al sindacato dei metalmeccanici (FLM), ancora unitario, una sconfitta bruciante. Non solo assicurò in tal modo le condizioni che permisero all’azienda di recuperare pienamente efficienza e redditività, ma insieme ai suoi collaboratori mostrò di sapere ricostruire la coesione e la lealtà del sistema aziendale attorno a un principio di disciplina interna, come rivelò la «marcia dei 40.000», durante la quale una massa di quadri intermedi, impiegati e anche operai, sfilarono per le vie di Torino chiedendo il ripristino della libertà di riprendere il lavoro.
Agnelli assistette con indubbia soddisfazione a questa rilegittimazione del valore dell’aziendalismo che riportava la FIAT a una posizione di impresa di avanguardia, al punto di farne l’antesignana del mutamento in atto nel clima sociale. La sua figura e autorevolezza ne uscirono irrobustite, anche se si era limitato ad avallare la politica di Romiti, senza intervenire direttamente nelle vicende dell’autunno 1980. Era inoltre sicuro di poter contare su un nuovo gruppo dirigente che avrebbe saputo trarre tutte le opportunità dalla svolta appena compiuta: Romiti nel ruolo di amministratore delegato unico fu affiancato, per quanto riguardava la responsabilità di gestione di FIAT Auto, da un tecnico di valore come Vittorio Ghidella, un ingegnere da poco approdato a Mirafiori dopo aver maturato un’esperienza alla RIV (che gli Agnelli avevano progressivamente ceduto del tutto agli svedesi Wallemberg). Quest’ultimo divenne l’artefice del rilancio della produzione automobilistica della FIAT grazie al fortunato modello Uno, un’utilitaria presentata nel 1983, che fece guadagnare posizioni di mercato alla casa torinese, fino al punto di disputarsi il primato europeo con la tedesca Volkswagen.
Ormai sessantenne, Agnelli appariva a tutti come una delle personalità dominanti dell’Italia di fine secolo. La sua identificazione con la FIAT era ancora totale, ma, nel medesimo tempo, impersonava l’immagine più definita di una classe dirigente italiana non condizionata dalle fortune altalenanti della politica. Mentre la FIAT simboleggiava il capitalismo privato italiano, egli dava voce all’anima più occidentale e internazionalizzata dell’élite del paese, in naturale affinità con i circoli esclusivi atlantici come la Trilateral Commission, a proprio agio a New York come a Parigi (città nelle quali disponeva di residenze personali). Il suo profilo presentava sia un aspetto cosmopolita – visibile soprattutto attraverso le sue frequentazioni internazionali, politiche ed economiche ma anche culturali e artistiche – sia un’indole specificamente italiana, manifestata attraverso la partecipazione alle vicende di costume e, in primo luogo, al mondo del calcio, ove la sua opinione godeva di un’autorità indiscussa, non in contrasto con l’appassionato coinvolgimento nelle sorti della Juventus, seguita con lo stesso spirito sportivo con cui guardava alle corse della Ferrari. Ad Agnelli si rivolgevano commentatori politici e giornalisti sportivi, a caccia di una delle battute fulminanti con cui l’Avvocato riusciva spesso a sintetizzare una situazione. Infiniti furono i ritratti che ne diffusero i giornali, attraverso interviste o articoli degli opinionisti più noti e brillanti, con cui si manteneva in contatto, anche grazie al suo ruolo di editore del quotidiano torinese La Stampa, sviluppando sempre più l’abitudine al colloquio informale, sovente di prima mattina, con una telefonata che appariva a chi la riceveva come un segno di distinzione e di interesse. La sua consacrazione pubblica definitiva venne con la nomina a senatore a vita da parte del presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel 1991.
La FIAT si configurava allora quasi come una diarchia fra Agnelli e Romiti, in cui il primo esercitava il compito di garanzia e di rappresentanza dell’azienda e il secondo assolveva agli impegni di gestione. L’apporto di Agnelli tendeva a enfatizzarsi là dove era in gioco la funzione dell’azionista, mentre l’esecuzione delle linee strategiche era assicurata dall’amministratore delegato, rafforzato in questo ruolo dal sostegno puntuale di Cuccia e Mediobanca. Al fratello Umberto erano, invece, stati affidati compiti di natura sempre più strettamente finanziaria, svolti dalla ‘ridotta’ degli enti finanziari di famiglia, IFI e IFIL (Istituto finanziario italiano laniero), separati, anche spazialmente, dal centro direzionale della FIAT. Sotto la direzione di Gianluigi Gabetti, le partecipazioni finanziarie degli Agnelli crebbero costantemente di rilievo e di valore, fino a costituire il nucleo più solido di un reticolo di attività economiche destinato a rivelarsi, nel tempo, essenziale all’autonomia della FIAT. Col supporto di Gabetti e del legale di fiducia Franzo Grande Stevens, Agnelli operò per creare meccanismi societari tali da preservare sia la compattezza della quota azionaria della FIAT detenuta dalla sua famiglia sia un principio di continuità dinastica. Lo strumento per questa funzione fu creato nel 1987 con la costituzione della società in accomandita Giovanni Agnelli.
Probabilmente per la prima volta nella sua storia, la FIAT dopo il 1980 cominciò ad assomigliare di più a una monarchia costituzionale, nella quale colui che ricopriva la parte del sovrano non si faceva coinvolgere nelle decisioni di gestione, se non quando si trattava di scelte da cui dipendeva il destino ultimo dell’azienda. È quindi arduo tentare di stabilire quali atti siano da ascrivere direttamente all’intervento di Agnelli e, soprattutto, in che misura la parabola discendente della FIAT, iniziata alla fine degli anni Ottanta, possa essere ricondotta alle sue responsabilità di azionista.
Certo a lui devono essere ricollegate le due decisioni che più dovevano condizionare l’assetto aziendale: il mancato accordo con la Ford, che nel 1985 sarebbe dovuto sfociare nella formazione di un’unica società, derivante dalla fusione della FIAT Auto e delle attività europee della casa di Detroit, e l’alleanza strategica con la General Motors, siglata nel marzo 2000. Entrambe le scelte tradiscono la sua volontà di non firmare accordi che potessero significare, anche in prospettiva, la fine della produzione automobilistica della FIAT come struttura d’impresa autonoma. Nel 1985, si ritrasse dall’intesa con la Ford perché quest’ultima avrebbe voluto avocare a sé la quota azionaria di maggioranza della nuova società dieci anni dopo il suo avvio. Un istinto difensivo lo trattenne dall’impegnarsi in un’iniziativa che, al di là dei patti originari, non si sarebbe comunque potuta predeterminare nei suoi sviluppi, a motivo delle caratteristiche che distinguono un settore industriale complesso come l’automobile. Nel 2000, una preoccupazione analoga, acutizzata con il tempo dal desiderio di Agnelli di non venire meno al lascito del nonno, impedì alla FIAT di accettare l’offerta della Daimler-Chrysler, interessata a rilevare il controllo della sua divisione automobilistica. La stessa General Motors (che ottenne il 20% di FIAT Auto in cambio del 5% delle proprie azioni) sembrava interessata alla stessa prospettiva, ma si mostrò più incline della concorrente a sperimentare la via di un accordo fondato su un progetto di cooperazione industriale, invece che su basi finanziarie, e che non prevedeva alcun mutamento negli assetti di controllo societario ove non fosse richiesto dalla casa torinese (depositaria in origine di una put option per la cessione totale da esercitarsi non prima del 2004). È verosimile, però, che in entrambe le occasioni a influire siano state anche le propensioni del management e soprattutto di Romiti che nel caso di fusione con la Ford Europa si sarebbe ritrovato alla guida di una FIAT fortemente ridimensionata.
Per tutta la vita Agnelli diede reiterate conferme della volontà di salvaguardare la principale delle attività industriali della FIAT, l’automobile, quasi per tributare un omaggio alla tradizione e alla capacità imprenditoriale dell’azienda ereditata dal nonno, alla cui memoria dichiarò sempre d’ispirarsi. A più riprese sostenne che la FIAT (di cui divenne presidente d’onore nel 1996, allo scoccare del limite d’età di 75 anni) possedeva le risorse per reggere alle trasformazioni verso le quali era indirizzato il settore dell’auto.
In questa logica rientra la controversa acquisizione dell’Alfa Romeo, rilevata dalle mani delle Partecipazioni statali nel 1986, anche se gravata da un sistema di costi e da un indebitamento ormai insostenibili. La FIAT pagò per un marchio apprezzato in tutto il mondo e a lungo simbolo d’indipendenza rispetto alla produzione automobilistica di Torino, 1050 miliardi di lire, dilazionati in cinque anni (offerta superiore a quella del concorrente americano Ford, pure interessato ad acquistarla). Il fatto che la FIAT diventasse così, più che un campione nazionale, un monopolista, al riparo da ogni forma di concorrenza diretta non mancò però di provocare in Italia uno strascico di polemiche.
Vero è che la FIAT dagli anni Ottanta e Novanta non era più centrata univocamente sull’auto. Dall’IFI-IFIL era stato pilotato l’ingresso nella compagine di gruppo di attività notevolmente diversificate e destinate a crescere. Il prolungato conflitto fra Romiti e Ghidella, conclusosi con l’allontanamento di quest’ultimo nel 1988, ampliò ulteriormente la sfera decisionale e di potere dell’amministratore delegato. Romiti avocò a sé l’interim della gestione di FIAT Auto, in seguito trasferita a Paolo Cantarella; a non pochi operatori aziendali, convinti del valore tecnico e professionale di Ghidella e dubbiosi della preparazione di Romiti nelle questioni di prodotto, la soluzione, pur temporanea, parve una forzatura, ancor più in considerazione della tendenza romitiana a governare l’universo FIAT secondo la logica di una conglomerata, in cui coesistevano interessi, attività e forme d’impresa prive, in buona sostanza, di un denominatore comune.
Gli sviluppi delle inchieste giudiziarie della stagione di Tangentopoli, che dopo il 1992 avevano gettato luce sull’intreccio opaco tra affari e sistema politico, intervennero a complicare la situazione. Le vicende giudiziarie non avevano soltanto sbiadito l’immagine di un’azienda di cui si iniziava a presagire il declino, ma avevano distratto energia e attenzione dalla conduzione degli affari per dirigerle invece verso le aule di tribunale.
Oltre che dalle vicissitudini economiche e pubbliche della FIAT, gli ultimi anni di Agnelli furono tormentati dalle tragedie familiari. Nel 1997 si spense a 33 anni il nipote Giovanni Alberto, figlio di Umberto, in cui aveva riposto le sue speranze di successione aziendale, mentre nell’autunno del 2000 morì suicida, al termine di un’esistenza travagliata, il figlio Edoardo.
Il centenario della FIAT, celebrato a Torino nell’estate del 1999 con manifestazioni e iniziative culturali, rappresentò per Agnelli l’occasione per ripercorrere, insieme con le tappe della sua vita, la storia dell’azienda, ai cui eventi partecipava dal maggio 1939, quando aveva assistito all’inaugurazione dello stabilimento di Mirafiori da parte di Mussolini. Nel dicembre 2001, nel tradizionale incontro di fine anno, parlò per l’ultima volta ai dirigenti e ai quadri FIAT, ma le sue parole denunciarono la preoccupazione per le sorti del settore auto. Il rapido aggravarsi delle condizioni di salute, che lo costrinsero a recarsi negli Stati Uniti per sottoporsi a terapia nella primavera del 2002, gli impedirono una partecipazione diretta nella dinamica della crisi FIAT, esplosa in tutta la sua portata nel maggio. Ebbe comunque parte nella negoziazione di un’intesa con le banche più esposte sul fronte dei creditori (Sanpaolo-IMI, Unicredit, Banca Intesa e Capitalia).
Tornato nella residenza sulla collina di Torino per trascorrervi gli ultimi mesi di vita, poté soltanto vigilare da lontano sull’andamento sempre più convulso di una crisi aziendale ormai del tutto imprevedibile nei suoi sviluppi.
La sua scomparsa, il 24 gennaio 2003 a Torino, fu seguita da un’imponente testimonianza di cordoglio della società torinese, che si mobilitò per rendere omaggio al feretro, esposto nella pinacoteca presso il Lingotto, dove nel settembre precedente Agnelli e la moglie Marella avevano voluto raccogliere alcune fra le opere della loro collezione d’arte per renderle accessibili al pubblico.
I documenti fondamentali per la ricostruzione della storia dell’azienda e del ruolo imprenditoriale della famiglia Agnelli possono essere rintracciati presso i fondi dell’Archivio Storico Fiat a Torino. Molti lati della biografia di Agnelli, pur con qualche imprecisione, sono richiamati in V. Castronovo, Fiat 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano 1999, che tratteggia anche la cornice aziendale entro cui inquadrare la sua attività. Nella vasta pubblicistica a lui dedicata, si segnalano: E. Biagi, Il signor Fiat, Milano 1976; A. Friedman, Tutto in famiglia, Milano 1988; M.F. Pochna, Agnelli l’irresistibile, Milano 1990; A.S. Ori, Storia di una dinastia. Gli Agnelli e la Fiat, Roma 1996; G. Galli, Gli Agnelli. Il tramonto di una dinastia, Milano 1999; G. Turani, L’Avvocato 1966-2002. Dal potere alla crisi, Milano 2002; M. Ferrante, Casa Agnelli. Storie e personaggi dell’ultima dinastia italiana, Milano 2007. Sui rapporti con Valletta, P. Bairati, Vittorio Valletta, Torino 1983. Sui contatti con il gruppo Giovani imprenditori e la partecipazione alla commissione Pirelli, G. Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Bologna 2001, pp. 186-202. Sulla nascita e gli esordi della Fondazione Agnelli, U. Scassellati, I primi cinque anni della Fondazione Giovanni Agnelli di Torino 1966-1970, in Società e storia, XXIII (2000), 90, pp. 791-822. Sulla dinamica della conflittualità alla FIAT dall’autunno 1969 in poi, G. Berta, Struttura d’impresa e conflitto industriale alla Fiat 1919-1979, Bologna 1998, pp. 139-205. Per l’opera di riassetto organizzativo e strategico della FIAT è fondamentale la testimonianza di L. Revelli-Beaumont, Forse da raccontare, Genova 1996. Sulla divisionalizzazione della FIAT e la nascita di FIAT Auto, G. Volpato, Il caso Fiat. Una strategia di riorganizzazione e di rilancio, Torino 1998. Sul passaggio di C. De Benedetti alla FIAT, F. Rampini, Per adesso. Intervista a C. De Benedetti, Milano 1999, pp. 38-40. Sul lungo periodo della gestione di Romiti, C. Romiti Questi anni alla Fiat, intervista di G. Pansa, Milano 1988. Sui contrasti con Eugenio Cefis e la Montedison, sul problema del Corriere della sera e sulla presidenza della Confindustria, P. Ottone, Il gioco dei potenti, Milano 1985. Sulla campagna di lotta alle rendite e sulla presidenza di Confindustria, G. Berta, L’Italia delle fabbriche, cit., pp. 210-219, 236-246. Le citazioni dalle relazioni di Agnelli alle assemblee della Confindustria del 22 aprile 1975 e del 22 luglio 1976 sono tratte da Quaranta anni di Confindustria. Economia e società nei discorsi dei presidenti, a cura di G. Fiocca con il supporto documentario della Biblioteca-Archivio storico della Confindustria, Milano 1989, II, pp. 456 s., 462. Le drastiche valutazioni di G. Carli sull’accordo relativo al punto unico di contingenza sono nel suo libro di memorie Cinquant’anni di vita italiana, in collaborazione con P. Peluffo, Roma-Bari 1993, pp. 339 s. Le posizioni di F. Modigliani sono richiamate nel volume autobiografico Avventure di un economista. La mia vita, le mie idee, la nostra epoca, a cura di P. Peluffo, Roma-Bari 1999, pp. 230, 232. In controtendenza i giudizi più favorevoli a «un’economia indicizzata al 100 per cento» che retrospettivamente ha formulato A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Torino 1998, pp. 126 s., 188-195. Un ritratto assai critico dei comportamenti e della figura di Agnelli è in M. Borsa, Capitani di sventura, con L. De Biase, Milano 1992, pp. 64-104. Per un resoconto delle vicende giudiziarie che coinvolsero la FIAT alla fine degli anni Novanta, P. Griseri - M. Novelli - M. Travaglio, Il processo, Roma 1997. Un’analisi delle ragioni del declino FIAT è stata tentata da G. Bodo, Una rivoluzione non annunciata. La Fiat nell’ultimo decennio, in L’Industria, n.s., XXIII (2002), 1, pp. 33-55, e da G. Scotti, Fiat, auto e non solo, Roma 2003. Un’analisi della crisi aziendale nel corso del 2002 è in G. Berta, La Fiat dopo la Fiat. Storia di una crisi. 2000-2005, Milano 2006. Sui risvolti dinastici della crisi Fiat: J. Clark, Mondo Agnelli. Fiat, Chrysler and the power of a dynasty, New York 2012.