CACCIA (Cazza), Giovanni Agostino
Nacque a Novara in un anno da ritenersi compreso nel primo decennio del secolo XVI.
La congettura - essendo distrutti gli atti di nascita dell'Archivio novarese, anteriori al 1552 - si fonda su un passo della sua tredicesima satira, pubblicata nel 1548, che contiene la seguente indicazione biografica: "Giovane non son io, ne vecchio molto: / Ma sono à punto un uom di mezza etade, / Benché più che non ho, dimostro al volto".
Appartenente al ramo della famiglia Caccia di Castellazzo, ove mantenne per tutta la vita un modesto possedimento, il C. studia a Milano con Giorgio Merula, prima di iniziare gli studi universitari di medicina - presto interrotti ("Non volli anch'io guardar ne gli orinali / Sendo arrivato a più di mezza strada / Per non esser fra tanti micidiali", sat. VIII) - a Pavia. Seguendo le tradizioni familiari egli si dedicava invece alle lettere e alle armi, prendendo parte, sullo sfondo delle lotte franco-spagnole in Italia della prima metà del sec. XVI, alla resistenza di Pavia contro il re di Francia Francesco I, organizzata nel 1524 da Antonio de Leyva. La sua parallela e successiva attività letteraria si concretizza nella partecipazione all'attività di varie accademie; membro, col nome di Lacrito, di quella novarese dei Pastori dell'Agogna (fondata prima del 1550 dall'esule giureconsulto milanese Bartolomeo Taegio), sembra che il C. sia il Discreto dell'Accademia degli Affidati di Pavia, cui aderirà anche il figlio Giovan Giacomo, oltre a risultare in contatto con i celebri Intronati di Siena, ai quali è rivolta la satira XVI.
Da un unico matrimonio, con una donna premortagli prima del 1548, il C. ebbe due figli, Margherita e il citato Giovan Giacomo. Per l'educazione del figlio sceglie con accortezza il suo insegnante nella persona del Maioragio, presso il quale - a Milano - lo invia, prima del passaggio all'università di Padova. Le relazioni del C. con i letterati dell'epoca superano i confini locali della familiarità col Taegio (attestata da una lettera di questo a Giovan Giacomo), estendendosi a personalità quali il Caro, l'Alamanni, il Doni (che lo definisce "persona universale") e l'Aretino, dal quale riceve, nel 1539 una lettera dal tono amichevolmente benevolo, in risposta ad una sua dedica di un sonetto delle Rime spirituali. Altri documenti non esistono, al di fuori di una sua incerta presenza nell'elenco degli ordinati del Comune novarese tra il 1540 e il 1552, atti a definire le linee della vita del C., se non si considerano direttamente le sue opere.
Nel 1546 vengono edite a Venezia, presso Giolito, le Rime - si tratterebbe secondo il Quadrio e il Vallauri della ristampa di un'edizione del 1545 - che contengono, oltre a una produzione convenzionale mediocremente petrarchista, due azioni drammatiche d'ambiente bucolico, l'Erbusto e la Filena, che sembrano preludere alla larga posteriore stabilizzazione del genere pastorale, culminante nell'Aminta e nel Pastor Fido.
Al di là di sterili discussioni su più o meno fondati diritti di primogenitura o su distinzioni riferite ad elementi esterni (presenze non di certi personaggi), le due opere si inseriscono comunque pertinentemente in un gruppo di tentativi analoghi, sintomo di una precisa tendenza del gusto letterario di quegli anni. Ciòcon tutti i limiti del genere: lo slittamento del tono della Filena (occasione per il Carducci d'una moralistica definizione di essa quale "rinfocolamento... d'amorazzi militareschi") verso la commedia sensuale di stampo aretinesco e verso certe azioni satiriche dei Rozzi senesi; l'esilità stessa dell'intreccio nell'Erbusto, pur in una sostanziale aderenza alla poetica pastorale.
Nel 1549 viene stampata a Milano, con dedica al cardinale di Trento Cristoforo Mandruzio, la raccolta delle Satire et capitoli piacevoli, che resta, non solo per i suoi materiali autobiografici, l'opera più tipica dei Caccia.
Qui le regole aperte del genere consentono l'emergere di una cifra psicologica ben determinata e, al di là dei temi encomiastici o della pura informazione (la citazione di una sua commedia perduta, il Beveraggio), il C. può trarre utili suggerimenti dalla tradizione satirica, per consegnare un messaggio di piacevole "mediocrità" di comportamento. Il suo ideale di vita tende alla conquista di una sorta di "decenza quotidiana" ("Tutti i miei panni son di color bruno: / Né li porto però tanto pelati / Che mi sia incarco, o vituperio alcuno", sat. I) entro cui siano bilanciati la garanzia della comodità e il mantenimento del decoro e dell'indipendenza personale (II, XVI). All'interno di questi confini riesce a venire in luce una moralità permeata di buon senso, non priva di una dose di anticonformismo in una prospettiva ostile ad ogni esistenza retta da costrizioni e tendente comunque a distinguersi dalla prassi contemporanea. Alla difesa di una dignità media corrispondono gli spunti di poetica offerti dal C., il quale mentre si qualifica poeta "dal dì da lavoro", denunciando i propri limiti retorici, ironizza, d'altro canto, sulla presunta libertà della poesia irregolare. Ciò considerato, è meno esterno che in altri, nel C., il rivolgersi - dopo il 1550 - a composizioni religiose, ispirate dalla sterzata controriformistica: le Rime spirituali (1552), meditazioni morali versificate, e i Capitolispirituali, ricordati dal Viglio quale uno dei primi esempi di "poesia religiosa di carattere didascalico e confutativo".
Le notizie sugli ultimi anni della vita del C. sono quasi nulle: non resta che una testimonianza sulla sua morte, forse avvenuta a Pavia dopo il 1564, e un epitaffio che lo ricorda "Hetrusca Musa clarus" nella chiesa di S. Nicola a Novara.
Bibl.: L. A. Cotta, Museo novarese, Milano 1701, pp. 144 s.; F. S. Quadrio, Storia e ragione d'ogni poesia, I, Bologna 1739, p. 84; II, ibid. 1741, p. 237; V, ibid. 1739, p. 398; G. Albetti, introd. alle Rime del C., Torino 1770; G. Tiraboschi, Storia d. lett. italiana, Modena 1772-82, VII, pp. 1149, 1204; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino 1841, I, pp. 151, 153; G. Carducci, Su l'Aminta di T. Tasso saggi tre, in Opere (ed. naz.), XIV, p. 202; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano 1898, pp. 203, 212, 436, 484 s.; U. Cessi, La "Filena" di G. A. C., in Giorn. st. d. lett. italiana, XXXVII(1901), pp. 180-87; A. M. Viglio, Un poeta-soldato novarese del '500 e il suo tempo, in Miscell. stor. novarese, 1906, pp. 239-96 (recens. in Archivio st. lomb., s. 4, VII [1907], pp. 225 ss.); G. De Micheli, La "Filena" di N. Franco, in Rass. crit. d. lett. ital., XXX (1925), pp. 12 s.