MERAVIGLIA, Giovanni Alberto
MERAVIGLIA (Maraviglia, Mirabilia, de Mirabiliis), Giovanni Alberto. – Nacque a Milano, probabilmente verso la fine degli anni Ottanta del XV secolo, da Ambrogio di Giovanni e da Margherita Sansoni di Bernardino.
Il ramo della famiglia del M. non sembra legato da stretti vincoli di sangue con i Meraviglia residenti in Porta Vercellina, i feudatari di Ghemme che diedero il nome alla contrada milanese nota ancora con l’originale toponimo. Antonio Meraviglia, zio del M., fu uno dei più importanti cortigiani di Galeazzo Maria Sforza e ricoprì le cariche di cameriere ducale e di sescalco generale (governatore di casa e cerimoniere).
Rimasta vedova, Margherita Sansoni sposò in seconde nozze Bartolomeo Sola di Stefano; la famiglia Sola era di origine canturina, trapiantata a Milano, nel sestiere di Porta Nuova, contava tra i suoi membri diversi notai e non era estranea all’ambiente della corte sforzesca e al mestiere delle armi. Polissena Sola, sorellastra del M., sposò Giovanni Taverna e fu madre di Luigi, Francesco (gran cancelliere) e Giovanni Battista.
Il M. dovette crescere per alcuni anni in casa del patrigno, mantenendo verosimilmente buone relazioni con la parentela acquisita dalla madre e con i nuovi figli di lei. I fratelli del M., Luigi e Giovanni, portarono avanti le attività bancarie e mercantili della famiglia e abitarono nel quartiere milanese di Porta Nuova, nella parrocchia di S. Silvestro, dove probabilmente era stata la residenza paterna.
Le relazioni della famiglia con il mondo del denaro e con l’ambiente cortigiano furono valorizzate quando, durante il primo decennio del Cinquecento, il M. entrò a far parte del seguito di Galeazzo Sanseverino, vedovo di Bianca, figlia dell’ex genero del duca Ludovico Sforza detto il Moro, capitano inetto ma perfetto cortigiano, passato al partito francese e diventato gran scudiero del re di Francia nel 1505. Con la cerchia di Sanseverino, dunque, il M. si trasferì in Francia e alla corte francese assunse gradualmente un ruolo autonomo, fino a divenire scudiero del re; nel 1517 gli fu assegnata una pensione di 400 lire.
Entro pochi anni rientrò a Milano, investito dei feudi di Ripalta e Castel Noceto, e nel 1519 ricoprì per qualche tempo l’ufficio finanziario di maestro delle Entrate ordinarie. Continuò verosimilmente le attività bancarie e commerciali della famiglia, divenendo creditore di consistenti somme anche nei confronti del deposto duca Massimiliano Sforza e di suo fratello, il duca Francesco II. Nel 1524, durante le campagne militari che videro il passaggio del Ducato milanese dalla sfera d’influenza francese a quella spagnola, fu luogotenente della compagnia di Bernabò Visconti. Nello stesso anno risulta residente nel quartiere di Porta Nuova e, come filofrancese, gli furono confiscati beni per 3500 ducati (una cifra che, negli estimi milanesi, non sembra indicare una grande ricchezza). Dopo la battaglia di Pavia (1525), durante la quale morì Galeazzo Sanseverino, il M. seguì le armate francesi che percorrevano l’Italia sotto il comando di Michele Antonio Ludovico del Vasto, marchese di Saluzzo. Probabilmente continuò a occuparsi di questioni di denaro e del pagamento delle truppe, fece la spola fra l’Italia centrale e Lione e infine seguì l’esercito francese nel Regno di Napoli. Durante la spedizione, nel dicembre 1527, mentre si trovava a Todi, il M. fu coinvolto nell’assassinio di un gentiluomo cremonese fratello del conte e senatore ducale Francesco Sfondrati.
Al termine di queste campagne dovette trasferirsi in Francia, dove aveva già cercato di sistemarsi definitivamente chiedendo per sé le terre di Montréal che erano state di Federico Gonzaga, signore di Bozzolo. Il suo favore presso la corte cresceva e la pensione di cui godeva fu aumentata in modo esponenziale. Divenuto scudiere del re Francesco I, continuò a mantenere i contatti con Milano e a prestarsi come una sorta di agente segreto impiegato per curare le relazioni tra il Ducato di Milano e la corte di Francia. Tornò in città nell’ottobre 1531 per proporre al duca Francesco II di sposare Elisabetta d’Albret, sorella del re di Navarra Enrico II; il duca rifiutò il matrimonio intuendo lo scontento che avrebbe provocato tra gli Imperiali.
Ai primi di novembre del 1532 il M. lasciò la corte francese per trasferirsi di nuovo, per l’ultima volta, a Milano. Alla corte di Francesco I si sottolineava che la partenza non fosse dovuta a un incarico ufficiale, bensì – come indicava insistentemente l’oratore della Serenissima presso il re di Francia – «il scudier over capitanio Meraveia è stà licentiato per andar a Milan, non per negotio publico, ma per soe facende» (Sanuto, LVII, col. 203). Per il viaggio nel Milanese il M. ricevette un’ulteriore entrata di 2400 lire annue e gli fu concesso di rientrare in patria con l’incarico ufficiale di importare in Francia lavoratori di lana specializzati e di intraprendere un commercio di arazzi, tessuti pregiati e prodotti suntuari d’Oltralpe. In realtà il M. aveva ricevuto istruzioni ufficiose per tenere sotto controllo la situazione milanese e alimentare le aspettative del gruppo di nobili ancora legati al partito francese, così da facilitare un intervento del re volto al recupero del Ducato nell’eventualità, assai probabile, che Francesco II Sforza morisse precocemente e senza eredi. A tal fine le ragioni avanzate per il rientro, cioè il voler perseguire attività commerciali, non estranee alla sua tradizione familiare, erano buone per mantenere i rapporti con i nobili milanesi e soprattutto con il potente conte Massimiliano Stampa.
Giunto a Milano, il M. cercò immediatamente di prendere contatto con il duca Francesco, che nel frattempo era a Bologna per incontrare Carlo V. Lo Sforza lo ricevette, ma iniziò anche a farlo sorvegliare, dal momento che sia lui sia il conte Stampa intuirono quale imbarazzo la presenza del M. e le sue mosse avrebbero potuto creare presso l’imperatore. Il M. ripropose il matrimonio con la figlia del re di Navarra, ma ormai erano state definite le nozze sforzesche con Cristina di Danimarca, nipote di Carlo V.
In città il M. affittò il palazzo di Giulio Vimercati nella parrocchia di S. Pietro in Cornaredo in Porta Nuova, poco discosto dal duomo; lo arredò sontuosamente, iniziò a fare vita da gran signore e a intessere relazioni con la nobiltà milanese. Tentò addirittura di combinare per sé un matrimonio vantaggioso con una delle sorelle del ricco conte Attendolo Bolognini. Pare tuttavia che le sue comparse a corte fossero in parte impedite dalla gotta e dalla sifilide. Nel frattempo, nei suoi confronti cresceva l’animosità dello Sforza e di tutti gli spagnoli e imperiali presenti a Milano.
Il M. scrisse in Francia facendo sapere che il duca e tutto il suo Consiglio cercavano ogni maniera per allontanarlo dalla città e che, per gettare discredito su di lui, venivano rievocati i fatti legati alla morte di Sfondrati.
Nel giugno 1533, dopo poco più di sei mesi di soggiorno in Italia, il M. fu richiamato alla corte di Francia e si preparò a partire, ma la sua missione non era terminata; come registrava l’oratore veneziano «andarà poi vol ritornar qui a Milano» (ibid., LVIII, col. 364).
Nel contempo si acuirono gli antichi contrasti tra il M. e Giovanni Battista Castiglioni, nati quando i due militavano nella compagnia di Bernabò Visconti e rinnovatisi per rivalità amorose: entrambi spasimavano per una certa Ippolita «de Corsico». La sera del 4 luglio 1533 alcuni servitori del M. tesero un agguato a Castiglioni nella contrada di Brera e lo uccisero. Il fatto destò grande scalpore a Milano per il prestigio della vittima, unico figlio del ricco e potente Alessandro Castiglioni. Il M. fu immediatamente incarcerato, processato e condannato a morte, probabilmente dietro sua confessione.
Il M. fu decapitato la notte tra il 6 e il 7 luglio 1533. Il suo corpo fu esposto in piazza Mercanti e poi sepolto, come da suo desiderio, in S. Maria delle Grazie.
Il duca aveva lasciato al M. la possibilità di disporre dei suoi beni, che non furono confiscati, come invece accadeva di consueto. Nel testamento il M. ricordò le notevoli somme delle quali era creditore, anche verso gli Sforza e i Gonzaga; dispose lasciti in favore dei suoi servitori presenti all’uccisione di Castiglioni e dei parenti Sola e Taverna.
La notizia della morte del M. destò clamore in Francia: Francesco I si indignò e, affermando che il M. era suo ambasciatore presso il duca di Milano, chiese conto dei fatti minacciando ritorsioni. Giovanni Stefano Robio, oratore ducale presso Francesco I, lasciò la corte temendo per la propria vita. Nel frattempo era giunto in Francia anche il nipote del M., Giovanni Battista Taverna, che fornì una versione dei fatti tale da dare agio alle proteste francesi e all’idea che contro il M. era stato ordito un complotto. Per tutta l’estate le proteste francesi da un lato e le discolpe sforzesche dall’altro riempirono i carteggi e occuparono i diplomatici delle corti europee. In ottobre il gran cancelliere Francesco Taverna, altro nipote del M., fu inviato dal duca al congresso di Marsiglia per narrare quella che da allora divenne la versione milanese ufficiale: si era trattato semplicemente di un giusto procedimento penale eseguito contro un assassino, ma il re non sentì ragioni e chiese a Carlo V di lasciargli aperta la via verso Milano. La questione dell’esecuzione del M. non condusse a una guerra aperta tra la Francia e l’ultimo Sforza, ma l’«affaire Maraviglia» fu riesumato anche alla riapertura delle ostilità tra Francesi e Imperiali sia nel 1536 sia nel 1542.
La truce storia del M. stimolò la fantasia romantica e il gusto neorinascimentale del mondo milanese dell’Ottocento: gli avvenimenti divennero la trama di un’azione drammatica in cinque parti scritta nel 1855 da Vitaliano Prina, Il conte Alberto Meraviglia. La stessa confusione che si era creata all’epoca dei fatti tra le varie versioni dell’accaduto si perpetuò anche nella tradizione storiografica relativa. La rilettura storica assunse toni nazionalistici tra la fine del XIX e i primi anni del XX secolo: gli studiosi italiani tesero a tracciare i lati negativi della personalità del M. e a giustificarne la condanna a morte discolpando Francesco II Sforza; quelli francesi continuarono a considerare l’esecuzione un assassinio politico. Furono le realistiche considerazioni di F. Chabod a riequilibrare infine la visione della vicenda.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Censo, parte antica, cart. 1520 (Estimo del 1524); Riva Finolo, 54: G. Sitoni di Scozia, Theatrum genealogicum familiarum illustrium, nobilium et civium inclytae urbis Mediolani, 1705, cc. 299, 418; M. Sanuto, I diarii…, a cura di R. Fulin et al., LV-LVIII, Venezia 1900-01, ad ind.; C. Romussi, La morte di A. M., in Archivio storico lombardo, I (1874), pp. 249-274; A. Portioli, Altre notizie sulla morte di A. M., ibid., II (1875), pp. 30-50; F. Calvi et al., Famiglie notabili milanesi. Cenni storici e genealogici, I, Milano 1875, s.v. Taverna, tav. I; M.E. Picot, Les Italiens en France au XVIe siècle, II, Les diplomates italiens au service de la France, in Bulletin italien, I (1901), pp. 284 s.; V.L. Bourrilly, Les diplomates de François I: Maraviglia à Milan (1532-33), ibid., VI (1906), pp. 133-146; N. Guastella, Tre pretesi delitti di Francesco II Sforza visti da Carlo de Rosmini, in Archivio storico lombardo, LXXV-LXXVI (1948-49), 1, pp. 122-153; F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 29-36; R. Sacchi, Il disegno incompiuto. La politica artistica di Francesco II Sforza e di Massimiliano Stampa, Milano 2005, ad indicem.
E. Rossetti