ANGUILLARA, Giovanni Andrea dell'
Nato a Sutri (Roma) intorno al 1517, discendente forse dalla famiglia dei conti dell'Anguillara (v.), attese in Roma allo studio del diritto e vi conseguì il grado accademico, di cui non pare in seguito si servisse mai. Spirito bizzarro e irrequieto, disordinato nella vita e perciò spesso ridotto in gravi strettezze finanziarie, vagò per l'Italia sempre in cerca di protettori, ai quali si rivolgeva con versi e lettere per avere ricompense in cambio di elogi. Dimorò qualche anno in Francia (1553-1561) a Parigi, a Lione, e par che trovasse fortuna presso Enrico IV e Caterina de' Medici, a cui, come a varî nobili personaggi di quella corte, dedicò rime adulatrici. Tornato in Italia, si ridusse gli ultimi anni a vivere, malato e povero, a Roma, dove forse morì (dopo il 1572), se non è vera la tradizione che finisse i suoi giorni a Castellaccio, vicino al paese natale. Compose parecchi capitoli ternarî, canzoni, stanze e sonetti pubblicati in opuscoli e foglietti volanti o accolti in qualcuna delle tante sillogi di rime cinquecentesche; ma non hanno alcun valore e sono quasi tutti sullo stesso tono di adulazione e cortigianeria. Raramente è ispirato da più nobil soggetto come nella canzone a Massimiliano imperatore eletto nel 1564, per esortarlo a muovere guerra ai Turchi, o in quella in cui celebra la vittoria di Lepanto; e non sono senza qualche pregio di vivacità e di arguzia alcuni capitoli berneschi sulle mosche, in lode dell'anello, del vino e Sul pagar la Sensa. Assai miglior prova fece nelle versioni o rifacimenti di opere classiche, non tanto in una tragedia Edipo (Padova 1556), goffa continuazione di Sofocle e Seneca, e nella versione dei primi due libri dell'Eneide (I, Padova 1564; II, Roma 1556) che pur fu lodata dal Caro, quanto nelle Metamorfosi di Ovidio, ridotte, come l'Eneide, in ottava rima (Venezia 1561), le quali, se gli procurarono acerbe critiche da Ludovico Dolce che aveva anch'egli tradotto lo stesso poema, ebbero pure molte lodi da altri critici contemporanei.
Anche oggi l'A. è ricordato per questa opera, e si riconosce che fra gli altri tentativi del genere che si fecero allora il suo è forse il migliore. Non è una vera e propria traduzione, ché il poeta amplia il testo ovidiano introducendo la narrazione di favole dal poeta latino soltanto accennate, o ricavate da altre opere sue. In ciò ebbe l'intendimento di accrescere la varietà e l'intreccio degli episodî, sul gusto dell'ammiratissimo poema dell'Ariosto. In questi ampliamenti non è sempre felice, nello stile è disuguale, ma l'insieme della narrazione non manca di una certa spigliatezza e vivacità. Si ha pure notizia che riducesse in ottave l'Ars Amandi di Ovidio, e così pure l'Anfitrione di Plauto che fu anche recitato, ma queste versioni sono rimaste fin qui sconosciute.
Bibl.: M. Pelaez, La vita e le opere di G. A. dell'Anguillara, in Propugnatore, n. s., IV, i (1891), fascicoli 19-20; V. Rossi, Nuovi documenti su G. A. dell'A., in Giorn. stor. della letterat. ital., XVIII (1891), p. 435; F. Beneducci, Una traduzione bizzarra, in Scampoli critici, Oneglia 1899, pp. 35-41; G. Mancini, in Archivio stor. ital., LXXIII (1916), fasc. 4°. Le edizioni delle Rime si trovano indicate nella monografia del P.; si veda inoltre: Canzone di G. A. dell'A. per la battaglia di Lepanto a cura di A. Tenneroni, Roma 1894; Capitolo al card. Alessandro Farnese, a cura di G. B. Goretti, Roma 1917.