D'AMATO, Giovanni Angelo
Del pittore originario di Maiori (Salerno) ignoriamo le date di nascita e di morte, ma la sua attività è ampiamente documentata nell'ultimo quarto del secolo XVI e agli inizi del XVII. La più antica data finora nota che lo riguardi è il 1576, anno in cui il D. dipinse per la collegiata di Atrani, per il prezzo di 120 ducati, "una gran cona di legno" (Camera, 1876), tuttora esistente ma smembrata. L'anno successivo promise, insieme con Girolamo Imparato, di dipingere e indorare una "cona", ora perduta, per Marcantonio Dulcetto (Filangieri, 1891). Nel 1583 il pittore firmò e datò la tavola del duomo di Ravello con S. Michele Arcangelo "Io: Angelus de amato maioresis me pinxit A.D. MDLXXXIII". Dopo tale anno, a parte una "icona magna" con la Madonna del Rosario e Misteri firmata e datata 1588, ricordata a Ravello nella sacra visita del 1617 (Imperato, 1976) e oggi dispersa, nessuna notizia ci è pervenuta sul D. fino al 1595, data da cui inizia invece una fitta serie di documenti che si susseguono, quasi ad annum, fino al 1615 (D'Addosio, 1912 e 1919; Strazzullo, 1954). Dal loro esame emerge che il D. collaborò più volte con Girolamo Imparato e dovette appartenere alla sua stessa generazione anche se nelle opere ritrovate - quasi tutte a Napoli, sulla costiera amalfitana e sorrentina e in Calabria - appare spesso in connessione col più giovane Francesco Curia.
Le conoscenze acquisite permettono soprattutto di delinearne il percorso artistico la cui fase iniziale è documentata dal ricordato polittico di Atrani del 1576: le tre tavole del registro inferiore con la Maddalena fra i ss. Sebastiano e Andrea sono attualmente sistemate nell'abside della chiesa, mentre quelle del registro superiore con la Resurrezione fra i ss. Pietro e Paolo si trovano nella sagrestia. Nell'opera, che stando ai documenti è la più antica del pittore, il D. sembra essere agli esordi debitore di Giovan Bernardo Lama anche se già se ne distacca caratterizzandosi per certe libertà disegnative e per personali scelte coloristiche di tinte acide e fredde.
Forse ad un momento ancora giovanile andrà datata anche l'Annunciazione della collegiata di Maiori attribuitagli dal Previtali (1976), sia per alcune incertezze nel disegno anatomico, sia perché la tavola con l'Annunciazione nella chiesa delle Vergini a Cosenza, che riflette un nodo culturale Lama-D'Amato assai simile, reca la data 1576 (Di Dario Guida, 1975, fig. 278).
Ad alcuni anni di distanza, nel S. Michele di Ravello - trasferito nel 1658 nel duomo dalla chiesa di S. Angelo - il pittore appare orientato verso una dichiarata temperie protointernazionale da far supporre contatti con l'ambiente di Roma e di Caprarola, soprattutto con Marco Pino il cui S. Michele della chiesa napoletana di S. Angelo a Nilo potette essere all'origine del dipinto di Ravello, che ne offre una fredda e polita interpretazione plastica tanto accentuata da porsi in contiguità coi risultati del "Maestro di Montecalvario", alias Michele Curia (per tale identificazione cfr. M.P. Di Dario Guida, 1975, pp. 95-99; G. Previtali in Prospettiva, 1976, n. 7, p. 59; Id., 1978, pp. 64-67; P. Leone De Castris, ibid., 1984, n. 39, pp. 11 s. Per una diversa identificazione cfr. F. Abbate, in La Voce della Campania, 1979, pp. 354-57; V. Sgarbi, in Da Tiziano a El Greco [catal.], Milano 1981, pp. 123-29; F. Abbate, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXI, Roma 1985, p. 432), e da rasentare certe propensioni di Francesco Curia e di manieristi nordici come B. Spranger. La tendenza è del resto ribadita nella predella dove sono raffigurate tre storiette legate al culto del santo, I contadini non riescono a spostare il bue dal Gargano; S. Michele appare sulla Mole di Adriano; S. Michele appare al vescovo di Avronche, e tutto ciò ad una data precoce, in anticipo nei riguardi di Francesco Curia.
Forse qualche anno più tardi, ma certo nella medesima temperie di esaltante fervore manieristico, è da inserire il Martirio di s. Caterina nella cappella Tomacelli in S. Domenico Maggiore a Napoli, che nella forte spinta eccentrica della composizione, nel rovello dei panneggi, in certi atteggiamenti estatici mostra ormai una più chiara adesione alla linea Marco Pino-Francesco Curia.
L'opera, creduta di Leonardo da Pistoia dalle antiche fonti e attribuita in un primo Tomento a Rinaldo il Fiammingo dal.Previtali (1972, p. 873 n. 23), è stata restituita al D. (Di Dario, Guida, 19753 pp. 119 s.) sulla base di un documento del 1596 (in D'Addosio, 1919, p. 377), in cui viene citata ad esempio per una "cona" che l'artista si impegna di dipingere per Ippolita Ruffo: "...che sia di bontà come quella cona che fe' alla cappella de' suoi figli dentro S. Domenico, nominata S.ta Caterina, d'altezza palmi 11 e di larghezza 8"; ed è databile con verosimiglianza al 1591, anno in cui "Ippolita Ruffo moglie di Tomacelli e madre e tutrice di Lucrezia e Caterina" abbellì la cappella "pel defunto marito, per sé e pe' suoi credi".
La tavola di S. Domenico rappresenta senza dubbio il punto massimo di tensione a cui giunge il D. nella conseguente traiettoria che dalle posizioni romaniste del Lama - quali appaiono nella lunetta di S. Maria delle Grazie a Caponapoli e specialmente nella Resurrezione di Liveri del 1579 e nella Decollazione di S. Gregorio Armeno - lo porterà a cadenze "internazionali" tanto risentite da collimare col più giovane Curia.
In seguito il D. sembra chiaramente deflettere dalle arrovellate fantasie del Martirio verso un compunto pietismo in opere di carattere devozionale destinate specialmente alla provincia; in tale evoluzione un punto significativio di trapasso può essere individuato, ci sembra, nella inedita Madonna del Rosario coi Misteri già nella chiesa di S. Mauro Martire a San Mauro Cilento ed ora presso il Museo diocesano di Vallo della Lucania.
Se per certi versi lo stile dei D. si attiene nell'opera appena ricordata alla linea "internazionale" nell'accezione di Francesco Curia giovane, per altri se ne allontana tanto da ricordare, in qualche passo, le tendenze devote del Teodoro D'Errico più maturo. L'evoluto punto di stile dell'opera suggerisce una datazione tarda che sulla base dei dati storici potrà cadere fra il 1576 e il 1596 - ma precisandosi in prossimità del secondo termine - epoca in cui Antonio Grisoffi, feudatario di San Mauro Cilento, fondò e abbellì la cappella del Rosario dove l'opera era conservata fino a qualche anno fa. La circostanza potrebbe anzi confermare l'attribuzione della tavola al D. poiché Antonio Grisoni era anche patrizio di Ravello, dove si conserva ancor oggi il S. Michele del D. e dove anticamente si trovava anche la Madonna del Rosario, ora dispersa.Le successive opere documentate del D. erano destinate in gran parte alla Calabria come attestano i pagamenti del 1597, 1598, 1602, 1608, 1609, 1614 (D'Addosio, 1912 e 1919; Rass. econ., 1939). E forse proprio per adeguarsi ai gusti dei committenti provinciali, il D. si attesta ora su posizioni di dolce pietismo espresse in termini di estenuata eleganza raggiungendo risultati affini a quelli dei pittori controriformati, come appare appunto nelle ultime tele ancora conservate nella regione: quella firmata di Tropea con la Madonna della Sanità, databile dopo il 1598, ed una Madonna degli Angioli già a Fiumara ed ora nell'eremo della Consolazione a Reggio Calabria, nella quale solo gli angeli reggicorona ricordano le antiche fantasie del pittore.
Alla medesima linea di aderenza ai dettami della Controriforma si collega la Madonna degli Angioli trafugata alcuni anni orsono da Mesuraca e forse anche due tele con S. Francesco d'Assisi e S. Antonio abate di Vienne conservate entrambe nel convento del Crocifisso a Cosenza.
Fonti e Bibl.: San Mauro Cilento, Arch. parrocch.: Cronistoria o notizie intorno alla Chiesa parrocchiale ed altre varie Cappelle dentro e fuori di essa, ms. sec. XVIII; G. Fiore, Della Calabria illustrata, II, Napoli 1743, p. 414; M. Camera, Mem. storico-diplomatiche dell'antica città e ducato di Amalfi, I, Salerno 1876, p. 662; G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napol., V, Napoli 1891, pp. 15 s.; D. Taccone Gallucci, Monografie delle diocesi di Nicotera e Tropea, Reggio Calabria 1904, p. 129; G. B. D'Addosio, Documenti ined. di artisti napol. del XVI e XVII secolo, in Arch. stor. per le province napoletane, XXXVII (1912), pp. 598 ss.; ibid., XLIV (1919), pp.377 s.; A. Frangipane, Artisti non calabresi che lavorarono per la Calabria, in Calabria vera, II (1921), 2-3, p. 13; P. Toraldo, Orme francescane della diocesi di Tropea, Tropea 1930, p. 23; Inventario degli oggetti d'arte d'Italia, II, A. Frangipane, Calabria, Roma 1933, pp. 106 s.; Documenti estratti dall'Archivio storico del Banco di Napoli, in Rass. economica, 1939, p. 519; F. Strazzullo, Docum. ined. per la storia dell'arte nella città di Napoli, in Il Fuidoro, 1954, p. 144; F. Bologna, Opere d'arte nel Salernitano dal XII al XVIII sec., Napoli 1955, pp. 52 s., 82; R. Causa-O. Ferrari-M. Picone, IV Mostra di restauri (catal.), Napoli 1960, pp. 101, 144, 150; P. A. Pergamo, Regesto delle pergamene di San Mauro Cilento, Perito e Ostigliano, Salerno 1966, p. 22; M. Rotili, L'arte del Cinquecento nel Regno di Napoli, Napoli 1972, p. 151; F. Abbate-G. Previtali, La pittura napoletana del '500, in Storia di Napoli, V, Cava dei Tirreni 1972, p. 893 n. 57; C. Guglicimi Faldi, Il duomo di Ravello, s.l. [ma Milano] 1974, pp. 39-42, 54, nn. 119-122; M. P. Di Dario Guida, Arte in Calabria. Ritrovamentirestauri-recuperi, Cava dei Tirreni [1975] 1982, pp. 119-22, con regesto dei docc.; G. Imperato, Visioni di Ravello, Salemo 1976, p. 30; G. Previtali, IlVasari e l'Italia meridionale, in Il Vasari storiografo e artista. Atti del Congresso (Firenze, 2-8 sett. 1974), Firenze 1976, p. 699; Id., La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino 1978, p. 66 n. 38, con regesto dei docc.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, I, p. 381 (s. v. Amato, Giovannangelo d').