BURGIO, Giovanni Antonio Buglio barone di
Appartenne ad antica famiglia di origine normanna il cui cognome subì diversi mutamenti e dall'originario lu Puglu divenne - verso la fine del sec. XV - Pulione e poi Buglio. Quest'ultima forma si trova già nelle carte del principio del sec. XVI e s'alterna con l'altra latineggiante di Pulio, Pulione.
Il B. nacque da Liotta e da certa Antonella, fu il terzo barone di Burgio e, per la morte del padre, ricevette l'investitura e il titolo baronale il 19 sett. 1494, rappresentato dalla madre perché ancora minorenne. Nulla sappiamo della sua giovinezza, ma molti elementi ci inducono a ritenere ch'egli dovette soggiornare a lungo a Roma. Questo spiegherebbe la fiducia di cui godette nella Curia romana e la sua familiarità con la famiglia Farnese.
Il B. è ricordato per la prima volta a Roma nel 1522: secondo una tradizione piuttosto insicura sembra che abbia chiesto l'intervento del papa Adriano VI per entrare al servizio imperiale, ma che le sue attitudini diplomatiche gli valsero invece un incarico pontificio, sebbene egli, già sposato e padre di quattro figli, non potesse accedere allo stato ecclesiastico. Nello stesso 1522 si recò comunque in Polonia per negoziare nell'interesse del papa un matrimonio (poi non avvenuto) tra Jagelloni e Gonzaga.
La sua prima missione diplomatica digrande rilievo la svolse in Ungheria, dove egli doveva collaborare all'organizzazione della resistenza contro la minaccia ottomana. Verso la metà del 1523 si recò in compagnia del cardinale Tommaso de Vio, arcivescovo di Gaeta, in Ungheria e vi restò anche dopo la morte di Adriano VI (14 sett. 1523) con il favore del nuovo papa Clemente VII. Nell'ottobre partecipò alle conversazioni tra il re Luigi II d'Ungheria e l'arciduca Ferdinando d'Austria, tenute a Wiener Neustadt alla presenza degli ambasciatori imperiali e del re di Polonia, per concertare un piano di guerra comune contro i Turchi. La Camera apostolica mise a sua disposizione la somma di 25.000 ducati per assoldare un contingente militare pontificio da affiancare ai collegati. Inoltre aveva pieni poteri per indurre gli Stati ungheresi sotto minaccia di scomunica a contribuire finanziariamente alla difesa del paese, per sequestrare le suppellettili d'oro e d'argento dei capitoli e dei monasteri e venderli o fonderli e consegnare infine all'arcivescovo di Kalocza-Bács. Paulus Tomory, destinato al comando del contingente pontificio, lo stendardo benedetto. Dopo aver richiamato a Roma il cardinale de Vio, Clemente VII nominò il B. nel gennaio del 1524 nunzio apostolico in Ungheria. Teoricamente egli dipendeva dal legato Lorenzo Campeggio, ma in pratica negoziava in modo del tutto indipendente, dato che il legato si trasferì in Germania. Poco dopo rientrò a Roma per ragioni sconosciute, ma già nel febbraio fu accreditato di nuovo presso la corte ungherese, su richiesta del re Luigi II e dei magnati, dei quali godeva tutte le simpatie. In questa circostanza il papa lo lodò pubblicamente per l'attività svolta in Ungheria. Dopo una breve sosta a Venezia, nel corso della quale egli tentò di convincere il governo della Repubblica a sostenere l'Ungheria contro la minaccia turca, si diresse verso Zengg. Qui intervenne energicamente contro certi capi militari locali che avevano venduto il grano messo a disposizione da Adriano VI per il vettovagliamento delle truppe dislocate nelle fortezze di confine croate. A Ofen, dove giunse all'inizio di aprile, alloggiò in una casa vicina al palazzo reale, ma rifiutò, per non gravare troppo sulla Camera reale, somme considerevoli, accettando solo il denaro strettamente necessario (da Roma riceveva 60 ducati che a partire dal 1525 furono elevati a 100). Ricevuto dal re all'inizio del maggio, gli consigliò di concludere la pace con i Turchi e promise sussidi pontifici e imperiali. Poco dopo entrò in conflitto con la banca dei Fugger che faceva difficoltà per versare il sussidio pontificio di 40.000 ducati. Nel giugno del 1524 si recò alla corte del re Sigismondo di Polonia per tentare di indurlo a soccorrere l'Ungheria, ma ricevette da lui e dai suoi consiglieri solo risposte negative. Nell'agosto era già di ritorno a Ofen.
In questo periodo e in particolare a partire dall'assedio di Szörény egli aveva acquisito la convinzione che l'inerzia del re e le risse dei magnati avrebbero frustrato ogni prospettiva favorevole di intervento militare. Anche i disperati appelli che egli rivolse agli Stati ungheresi riuniti nella Dieta di Rákos restarono senza seguito. Provocò anche l'invio del Campeggio in Ungheria, ma neanche la sua presenza ebbe efficacia cosicché nel giugno del 1525 ritornò in Germania. Da allora il B. restò il solo rappresentante della S. Sede in Ungheria.
Nel marzo 1526 invitò il papa a mandare al re Luigi la spada benedetta (non però la rosa benedetta). Anche nel corso dei mesi successivi il B. fu l'unico diplomatico straniero in Ungheria che assicurò al re appoggio morale e finanziario, anche se i suoi dispacci lasciano intendere che egli non aveva più alcun dubbio sull'inutilità della resistenza contro i Turchi: descriveva i capi militari ungheresi divisi e incapaci, le macchine militari, l'artiglieria e la flotta come del tutto insufficienti. Dopo ripetute richieste a Roma se nel caso di catastrofe dovesse restare in Ungheria ed esporsi alla minaccia turca e della popolazione in rivolta, ricevette alla fine di luglio l'ordine di tentare ancora una volta in extremis di spingere la Polonia a soccorrere l'Ungheria. Il B. non poté più mettersi in viaggio in considerazione dell'avanzata turca. Dopo la sconfitta di Mohács del 29 ag. 1526 accompagnò la regina Maria a Bratislava e alla metà di settembre si diresse verso Roma.
Il 26 ott. 1526 Clemente VII lo nominò commissario generale alle truppe pontificie fuori e dentro Roma, che dovevano respingere le incursioni dei Colonna. Più tardi il B. dichiarò di avere accettato questo incarico malvolentieri, dato che era rivolto anche contro l'imperatore. Dopo la dissoluzione dell'esercito pontificio nel marzo del 1527, fu rimandato per breve tempo in Ungheria. Già alla fine di marzo era a Venezia, dove, come fu affermato più tardi dai suoi nemici, cospirò contro l'imperatore e si adoperò per la conclusione della lega franco-pontificia.
Poco chiaro è anche il suo atteggiamento nei confronti dell'invasione francese del Regno di Napoli che nel 1527-1528 coinvolse molti nobili napoletani e siciliani. Il B. stesso affermò più tardi di avere prestato all'imperatore fedeli servizi in questa circostanza e che perciò i baroni alleati ai Francesi avrebbero devastato i suoi possedimenti. Altri lo accusarono però di avere collaborato segretamente con i Francesi. Ma questi sospetti si dimostrarono privi di fondamento e il B. non fu colpito, dopo la ritirata delle truppe francesi, dalle severe sanzioni adottate contro i ribelli. Essi tuttavia sembrano essere stati il vero motivo per il quale la missione del B., progettata nel marzo del 1529, come nunzio alla corte imperiale non ebbe luogo. Fu invece inviato in Sicilia.
Fu nominato nunzio presso il Regno di Sicilia con breve apostolico del 12 giugno 1529 e vi rimase almeno fino al luglio del 1530. In questa missione ebbe anche il mandato di controllare l'amministrazione di alcuni benefici ecclesiastici e di intervenire perché fossero inviate a Roma somme che abusivamente alcuni religiosi detenevano presso di sé (è il caso dei frutti dell'arcivescovato di Reggio che da tempo il beneficiario cardinale Trivulzio reclamava invano). L'aspetto più notevole dell'opera svolta dal B. durante questa nunziatura è rappresentato però dall'incarico di risolvere alcune controversie sorte tra governo e Sede apostolica. In Sicilia l'antico privilegio della Legazia apostolica (di cui il tribunale della regia monarchia era l'organo giudiziario) poneva il sovrano in una particolare posizione di privilegio nei confronti della Chiesa che veniva a trovarsi in condizioni di inferiorità di fronte allo Stato. La libertà ecclesiastica appariva seriamente minacciata tanto da indurre Clemente VII a inviare il B. per tentare di contenere l'ingerenza delle autorità civili nella sfera di azione della gerarchia ecclesiastica. In effetti nel corso della sua missione il B. si adoperò per dare una sistemazione definitiva ai rapporti tra Stato e Chiesa. Di questa sua opera ci resta testimonianza in un progetto di "trattato d'accordo" redatto in collaborazione col viceré, ma che non ebbe mai pratica attuazione. Secondo il Caruso esso riconosceva al papa prerogative che limitavano la portata dei privilegi, concessi al re di Sicilia, in virtù della Legazia apostolica. Questa circostanza determinò probabilmente il fallimento del tentativo promosso dal Burgio. A meno che l'interruzione delle trattative non si debba attribuire alla nomina del B. a nunzio apostolico presso il re d'Inghilterra, la quale tuttavia sembra da considerare piuttosto conseguenza che causa dell'interruzione. Il pontefice, davanti alle resistenze incontrate dal suo nunzio, dovette preferire allontanarlo dall'isola prima che un deciso rifiuto delle sue proposte ponesse la Sede apostolica dinnanzi all'impossibilità di riaprire il dialogo con l'autorità politica.
Qualche anno dopo, in una relazione inviata all'imperatore, in data 20 dic. 1535, Antonino Montalto, avvocato fiscale, ricordava il progetto d'accordo redatto dal B. come un contributo positivo e aggiungeva: "converria, per discarico della coscienza di V. M. e di tutti suoi Officiali e Ministri, havere confirmazione della detta Monarchia o prendere alcun altro bono assento con la Sede Apostolica".
Nel luglio 1530 venne prospettata la nomina del B. a nunzio in Inghilterra. Gli ambasciatori di Carlo V e dell'arciduca Ferdinando, Miguel May e Andrea Borgo, tentarono di impedirla sospettando i suoi stretti rapporti con la corte francese e con il voivoda di Transilvania; tuttavia al B. riuscì di convincerli dei suoi sentimenti di fedeltà all'imperatore. Nella lettera credenziale del 9 luglio il papa dichiarava che egli doveva prospettare al re Enrico VIII la minaccia rappresentata per tutta la cristianità dai Turchi e sollecitare la sua partecipazione attiva alle misure difensive previste. Il vero scopo della missione era però quello di impedire l'annullamento del matrimonio con Caterina d'Aragona, zia di Carlo V e dell'arciduca Ferdinando, dal re ardentemente desiderato. Dato che Enrico per realizzarlo si richiamava ai rapporti di parentela con la sposa, il B. fu munito di un breve di dispensa che doveva eliminare ancora una volta a posteriori questo impedimento canonico al matrimonio. Lasciò Roma il 17 luglio, ma poté raggiungere Dover solo il 3 settembre. A Londra il re inizialmente lo ignorò, tanto che egli dovette ricorrere all'aiuto dell'ambasciatore imperiale, Eustache Chapuys, con il quale concordò un'azione comune mantenendo però la massima discrezione. Alla prima udienza il re si rifiutò di discutere l'iniziativa della guerra contro i Turchi, accusando il papa di parzialità nella questione del suo matrimonio e sollecitando l'intervento di delegati francesi ai negoziati che dovevano essere conclusi con una decisione dell'arcivescovo di Canterbury, primate della Chiesa d'Inghilterra. Il B. fu costretto a sentire assai di frequente aspre accuse e minacce contro il papa senza ottenere neanche il permesso di prenotarsi per una udienza della regina. Sebbene Chapuys e May fossero ora convinti della integrità del B. e nel corso del 1531 avessero consigliato ripetutamente a Carlo V di compensarlo delle sue fatiche, fra di loro si manifestarono forti divergenze sulla linea di condotta da seguire nei confronti del re d'Inghilterra. Mentre il B. puntava su un'intesa tra Carlo V e Enrico VIII da perseguire con mezzi diplomatici, Chapuys consigliava invece un atteggiamento di intransigenza corroborato dalla minaccia di un procedimento giudiziario pontificio. In nuovi contrasti con il re si venne a trovare il B. quando il clero inglese e il vescovo di Londra in particolare si pronunciarono per un atteggiamento deciso in difesa delle loro immunità nei confronti della corona. All'inizio di gennaio 1531 ricevette il breve pontificio con il quale era proibito esplicitamente al re di contrarre un nuovo matrimonio. Al B. era lasciata la facoltà di renderlo noto; il B. ne annunciò il contenuto al re il 31 maggio, ma questa dilazione gli fu rimproverata aspramente dal papa e dalla Curia. Per il resto del 1531 e dell'anno successivo la situazione restò quasi immutata, sebbene il B. facesse sempre nuovi tentativi di salvare il matrimonio di Enrico con Caterina. Nel gennaio 1533 fu ventilato il progetto di rimettere la questione a un consesso di due cardinali e di alcuni delegati del re da convocare in una città neutrale (fu designata Cambrai); il B. sostenne subito il progetto, se non ne fu addirittura l'autore, e venne in aspro contrasto con Chapuys che ora l'accusò di doppiezza e di intrattenere segreti rapporti con il re. Egli si scagionò adducendo l'atteggiamento indeciso del papa che non gli permetteva di mostrare la necessaria energia. Che il B. si definisse un povero cavaliere incapace di rifiutare i doni offerti dal re non corrisponde probabilmente a verità; doveva trattarsi di una trovata dell'adirato Chapuys. Enrico VIII, il quale con tutta probabilità sin dal gennaio del 1533 aveva sposato segretamente Anna Bolena, invitava ora spesso il B. alla sua corte, per lasciare intendere di avere raggiunto una intesa con il papa. Il B. lasciò fare, sebbene dovesse essersi accorto almeno a partire dal febbraio del gioco del re, e non assunse neanche alcuna iniziativa contro l'arcivescovo di Canterbury, quando questi cominciò ad avocare alla sua giurisdizione la questione del matrimonio reale. All'inizio del luglio ricevette l'ordine di recarsi a Nizza con un pretesto. La partenza ebbe luogo nell'agosto, dopo che egli aveva ricevuto ricchi doni dal re e si era congedato dai funzionari di corte dai quali era molto apprezzato a dispetto delle divergenze politiche. Nell'ottobre 1533 dovette assumersi le sue responsabilità davanti all'ambasciatore imperiale a Roma che gli rimproverò il tiepido comportamento a Londra. Con la fine della missione inglese si concluse il momento prestigioso della carriera diplomatica del B., impiegato successivamente solo in incarichi di modesta importanza circoscritti alla nativa Sicilia.
Il 16 marzo 1534 Clemente VII lo nominò procuratore per l'amministrazione dei beni e la tutela degli interessi dell'Ospedale di S. Spirito in Saxia, dell'Ordine degli agostiniani, nei territori delle Due Sicilie, citra et ultra Farum, riconoscendogli autorità di delegare una o più persone per l'esecuzione del mandato affidatogli e di ricorrere, in caso di bisogno, "auxilio brachii secularis". Nel 1536il B. è governatore della città e del territorio dell'arcivescovato di Monreale, ufficio affidatogli dal cardinale Alessandro Farnese titolare della diocesi. Con breve apostolico in data 21maggio 1536, Paolo III, accogliendo la richiesta avanzata dallo stesso cardinale, nominò il B. visitatore apostolico per la diocesi, concedendogli anche facoltà di intervento a seconda delle necessità. Il 3agosto veniva nominato nunzio in Sicilia e il 4 era incaricato di diffondervi la lettera che invitava vescovi e prelati al concilio convocato a Mantova per il 23maggio 1537. Un breve apostolico del 2genn. 1538, che confermava la validità delle disposizioni del cardinal Farnese, attesta che il B. era ancora nunzio apostolico nel Regno di Sicilia ed una sua lettera del 9 agosto dello stesso anno documenta la sua operosità nel vigilare sulla vita degli ordini religiosi. Riferendo sui monasteri femminili della diocesi di Monreale, ed in genere su quelli di tutta l'isola, non esitava ad affermare che essi "erano più presto case et redutti di donne che non ponno maritarse, che non monasterii, et che de la professione che fanno non ne servano stanza".
Il nome del B. figura anche in un Elenco di confratelli e consorelle della Compagnia della Grazia creata da Ignazio da Loyola per assistere le peccatrici pentite e desiderose di mutar vita. La sua sensibilità religiosa è confermata da una lettera indirizzata il 2maggio 1539 al cardinale Alessandro Farnese, anche a nome del pretore e dei giurati di Palermo, per chiedere con insistenza l'invio di Bernardino Ochino a Palermo, perché con le sue prediche "ogni un di noi cum lo suo bono arregardo et exempio diventi cappuccino in casa propria".
Il B. morì verso la fine del 1545, probabilmente a Mineo.
Dai contemporanei fu giudicato, con la sola eccezione di Chapuys, uomo d'onore, incorruttibile, niente affatto disposto a lasciarsi intimidire dalle minacce. Ben note furono la sua solida cultura e la grande abilità nel servizio diplomatico. Aveva anzitutto la capacità di conquistarsi la generale simpatia, come attestano i suoi rapporti con la corte inglese e in particolar modo la sua popolarità in Ungheria. Sul terreno politico egli era sostenitore di un atteggiamento unitario degli Stati italiani sotto la guida del papa, che possibilmente li doveva mantenere fuori dai conflitti dei "barbari". Rifiutava però la politica della doppiezza praticata da Clemente VII. Riguardo al problema religioso egli era un nemico dichiarato di Lutero, pur giudicando necessaria una vasta riforma della Chiesa.
In Sicilia la sua famiglia risiedeva a Mineo, la cui chiesa parrocchiale fu ingrandita ed abbellita, intorno al 1530, dallo stesso B., che ne arricchì anche il patrimonio con donazioni e nello stesso periodo, certamente durante il pontificato di Clemente VII, curò il trasferimento nella cittadina, e la sistemazione nella chiesa di S. Agrippina, di reliquie di s. Barbara e di s. Marco donate dal pontefice. Qualche anno dopo, con privilegio imperiale concesso in Valenza l'11 marzo 1535, il B. veniva anche nominato castellano di Mineo con tutti gli emolumenti, onori ed oneri che la carica comportava.
Fonti e Bibl.: Epistolae procerum regni Hungariae, a cura di G. Pray, I, Posonii 1806, passim;F. Firnhaber, Vincenzo Guidoto's Gesandtschaft am Hofe König Ludwigs von Ungarn 1523-1525, in Quellen und Forsch. zur vaterländischen Gesch., Literatur und Kunst, Wien 1849, pp. 88, 90, 111; Acta Tomiciana, a cura di S. Gorski, VI, Posnaniae 1857, pp. 17 s., 192, 314, 349-58; VII, ibid. s.d., pp. 7 s., 42, 45, 249-55, 274, 288 s., 308, 333, 336; VIII, ibid. s.d., pp. 2121, 223, 235, 252; Letters and papers,foreign and domestic,of the reign of Henry VIII, a cura di J. S. Brewer, III, 2, London 1867, n. 1471; IV, 1, ibid. 1870: nn. 2048, 2301, 2306; IV, 2, ibid. 1872, n. 2380; IV, 3, ibid. 1876, nn. 1521, 6550, 6618, 6661, 6675, 6700; V, ibid. 1880, passim; Calendar of state papers and manuscripts,relating to English affairs,existing in the archives and collections of Venice and in other libraries of Northern Italy, IV, a cura di R. Brown, London 1871, nn. 621, 744, 816, 847, 850, 867, 923, 967; Calendar of letters,despatches and state papers,relating to the negociations between England and Spain, a cura di P. de Gayangos, III, 1, London 1873, p. 994; III, 2, ibid. 1877, pp. 256, 923; IV, 1, ibid. 1879, passim, IV, 211, ibid. 1882, passim; IV, 212, ibid. 1882, pp. 629, 674, 740, 769, 817, 838; Monumenta Vaticana historiam regni Hungariae illustrantia, s. 2, I (Relationes oratorum pontificiorum,1524-1526), Budapest 1884, passim; Römische Dokumente zur Geschichte der Ehescheidung Heinrichs VIII. von England, a cura di S. Ehses, Paderborn 1893, pp. VIII, 152 s., 164-66, 175 s., 185 s., 191-93, 203; M. Sanuto, Diarii, XLI, Venezia 1894, col. 115; XLII, ibid. 1895, coll. 109, 230, 236-41, 2708, 339 s., 349, 420, 635, 637-39; XLIII, ibid. 1895, coll. 19, 38; Calendar of state papers and manuscripts,existing in the archives and collections of Milan, I, a cura di A. B. Hinds, London 1912, pp. 524, 527; Die Korrespondenz Ferdinands I., I, a cura di W. Bauer, Wien 1912, pp. 213, 392; G. Fráknoi, Le baron B., nonce de Clément VII en Hongrie (1523-1526), Florence 1884; P. Friedmann, Anna Boleyn. A chapter of English history 1527-1536, I, London 1884, pp. 143 s., 179-81, 184 s., 190 s., 203 s., 298; L. v. Pastor, Gesch. der Päpste, IV, 2, Freiburg i. Br. 1907, pp. 234, 437-442; E. Bartoniek, Mohács Magyaorszaga. Bero Burgio követjelentései, Budapest 1926, passim;G. v. Pölnitz, Jacob Fugger, I, Tübingen 1949, pp. 569, 573, 610, 630, 635; II, ibid. 1951, pp. 543, 545, 561-63, 571, 577; G. Alberigo, I vescovi ital. al concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, pp. 194 s.; H. Ankwicz-Kleehoven, Der Wiener Humanist Johannes Cuspinian, Graz-Köln 1959, pp. 227 s. Per la parte siciliana cfr. inoltre: Archivio di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, vol. 247, f. 404; vol. 258, f. 319; vol. 270, f. 123; Palermo, Biblioteca comunale, ms. (sec. XVII) Qq. G. 22: Miscell. iurisdictionis ecclesiasticae et Monarchiae Siculae, ff.87, 88, 95, 97, 98, 103, 104, 106; Ibid., ms. (sec. XVII) Qq. G. 24: De Monarchia Sicula - tractatus ac documenta, ff.188 s., 245 s.; V. Colonna, Carteggio, Torino 1889, pp. 308, 341; A. Inveges, Annali della felice città di Palermo, Palermo s.d. (ma 1651), 2, III, pp. 47, 48, 50; R. Pirri, Sicilia sacra, I, Panormi 1733, pp. 676, 677; G. B. Caruso, Discorso istorico-apologetico della monarchia di Sicilia, Palermo 1863, pp. 71 s., 240 s., 242-44, 246; P. Tacchi-Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, I, Roma 1910, pp. 146, 657; F. San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobil. di Sicilia, I, Palermo 1924, pp. 470 s.