GUARDI, Giovanni Antonio (Antonio)
Figlio di Domenico e Maria Claudia Pichler, nacque il 27 maggio 1699 a Vienna, dove, nella Schottenkirche, venne battezzato. Il padre, originario della Val di Sole, in Trentino, si era trasferito a Vienna da poco meno di un decennio per far carriera come pittore e nel 1698 aveva sposato Maria Claudia Pichler, originaria di Egna.
Pochi e frammentari sono i dati conosciuti circa la biografia del G., in specie per quel che concerne la vita privata e gli anni giovanili. Ciò si deve forse in primo luogo, al fatto che la vicenda personale e artistica del G. si svolse in un'epoca e in un ambiente che non gli riservarono se non una scarsa attenzione e una modestissima considerazione. Questa circostanza - cui deve sommarsi la conseguente aggravante di un pressoché totale oblio che ha inghiottito la vita e l'opera dell'artista per più di un secolo e mezzo - ha fornito nondimeno il presupposto per una vera e propria riscoperta, avviatasi soltanto nel secondo decennio del Novecento con le pionieristiche, e per certi versi fortunose, ricerche di Fogolari. Tali ricerche hanno poi dato linfa a una miriade di contributi, indagini, e quindi dibattiti, polemiche e approfondimenti onde la figura del G. ha potuto infine conquistare un posto di primissimo piano nel canone artistico settecentesco, non solo veneziano né solo italiano, ma persino europeo, grazie anche a una temperie critica più sensibile e soggetta al fascino di quei precorrimenti e profezie di "modernità" che si son volute riconoscere nelle opere maggiori del pittore - benché non sempre a lui stesso pacificamente attribuite - e che hanno fatto da basso ostinato alla sua crescente rivalutazione storico-artistica.
Assai diversa, invece, la situazione restituita dalle fonti e dalla letteratura coeva. Il G. non è citato in alcuna delle guide sette-ottocentesche di Venezia; tacciono sul suo conto le fonti; non è contemplato persino nella Raccolta di ritratti de' pittori veneziani istorici più rinomati de' nostri giorni, pubblicata da Alessandro Longhi nel 1760. Ancor più sorprendentemente, l'esistenza stessa del pittore pare non fosse nota neppure all'ultimo discendente della famiglia Guardi, Nicolò, il quale - pur essendo nato nel 1773 e nipote omonimo del fratello più giovane del G. - forniva informazioni sui suoi avi allo studioso trentino P. Bernardelli (le cui fatiche sui Guardi sono rimaste inedite) come se il prozio non fosse mai esistito. Ancora nel 1904 Simonson (p. 75), autore della prima fondamentale monografia su Francesco Guardi, citava appena il G., senza nemmeno qualificarlo come pittore. A questo disarmante scenario critico corrispondeva ovviamente - fino a un'epoca relativamente recente - un altrettanto carente quadro documentario.
Dopo il trasferimento della famiglia a Venezia, avvenuto con ogni probabilità nel 1700, o poco più tardi, le vicende personali e professionali del G. nella città lagunare risultano piuttosto fantomatiche, almeno per quel che si può ricavare dai documenti ufficiali.
Non v'è traccia del suo nome nei registri settecenteschi della fraglia dei pittori, così come nei "rolli", gli elenchi compilati per il controllo della riscossione della "tansa", il tributo imposto all'arte dei pittori. Persino la sua presenza fisica in città pare sfuggente, se egli non risulta mai residente in un'abitazione propria, affittata a suo nome, in nessuno dei vari censimenti condotti dalle magistrature veneziane tra il 1712 e il 1750 per l'esazione delle decime. A questi dati si deve poi aggiungere il fatto che il maggiore dei figli di Domenico ricevette pochissime commissioni da parte di importanti istituzioni pubbliche o ecclesiastiche della Serenissima.
Meramente ipotetica resta dunque la ricostruzione dei primi passi della sua formazione artistica e del tirocinio da lui praticato come pittore. Non si sa se fu messo a bottega presso qualche maestro; e non si può accordare troppo credito alla nota - rinvenuta nei documenti relativi alla pala di Pasiano - che lo dice "de la scuola di Bastiano Rizzi", dacché queste parole, quand'anche si volessero interpretare alla lettera, furono aggiunte posteriormente alla redazione del documento originale (Binion, p. 87). Forse il giovane G. cominciò a impratichirsi nell'arte sotto la diretta guida del padre, dal quale egli potrebbe aver desunto quegli elementi caratteristici di certa pittura trentina e altoatesina di fine Seicento che si possono ritrovare, sia pur genericamente, nella prima opera a lui attribuibile, scoperta e resa nota da Zampetti soltanto nel 1964: il S. Giovanni Nepomuceno già in collezione Cogo a Treviso (ripr. in Morassi, 1973, fig. 53), firmato e datato sul verso "A(ntonius) Guardi fec(it) 1717".
Opera invero assai modesta, anche per un esordiente appena diciottenne, "di sapore "conventuale" alquanto stantio" - come ebbe a scrivere obiettivamente Morassi (ibid., p. 44) -, ma che comunque non denuncia debiti evidenti con la pittura veneziana del momento e neppure preannuncia quella che sarebbe poi stata la maniera matura del pittore. In forza di tali caratteri di impronta tridentina e austriaca tardobarocca, è stato anche suggerito che il G. potrebbe aver completato una sua prima educazione direttamente a Vienna, ambiente certo familiare, dove avrebbe potuto avere contatti con vari artisti lì attivi, quali Johann Michael Rottmayer, amico di Stanetti e suocero di un cugino dello stesso Guardi. In ogni caso egli risulta documentato nella capitale asburgica il 15 febbr. 1719, in veste di testimone al matrimonio del celebre architetto e decoratore teatrale Giuseppe Galli Bibiena.
Più improbabile è invece che il diciassettenne e inesperto G., alla morte del padre Domenico, nel 1716, potesse farsi carico dell'organizzazione di una vera e propria bottega o che ereditasse la guida di quella - per altro solo presunta - già condotta dal genitore in contrada dei Ss. Apostoli.
All'ipotesi dell'esistenza di una frequentata bottega dei fratelli Guardi, gestita con mano ferma dal G., ha dato credito una larga parte della letteratura critica, anche sulla scorta della testimonianza indiretta fornita da Giacomo Casanova, il quale, nei Mémoires, racconta come il fratello Francesco, nel 1742, si trovasse "in pensione presso un pittore chiamato Guardi" (Fiocco, p. 17).
Le ricerche più recenti hanno comunque sollevato una quantità di dubbi e difficoltà intorno alla fondatezza di tale ipotesi, a partire dal fatto che Domenico non ebbe mai un'abitazione ai Ss. Apostoli e che il G. vi trovò residenza, forse ospite del fratello minore Nicolò, solo alla fine degli anni Quaranta. Per di più, dopo la morte del capofamiglia, le condizioni economiche della vedova e dei figli dovettero diventare veramente precarie, tanto che il primogenito, sul quale doveva principalmente gravare la responsabilità della famiglia, non sarebbe stato in grado di sostenerne il peso con le sole risorse di cui poteva disporre un giovane pittore senza la minima reputazione. Si sa, infatti, che a preoccuparsi della non facile situazione degli orfani di Domenico intervennero i nobili Giovanni Paolo e Giovanni Benedetto Giovanelli, che già erano stati i pressoché esclusivi committenti e protettori del pittore trentino.
Nelle carte contabili del conte Giovanni Benedetto Giovanelli si trova registrata una lista di spese, datate tra il 1720 e il 1721, in cui il ricco patrizio annotò una serie di pagamenti effettuata a favore del G.: dai 22 ducati e mezzo necessari per la rata dell'affitto della casa d'abitazione alle 58 lire e 10 soldi "per comprarsi un tabarro di panno" (Montecuccoli degli Erri, 1992, p. 25). Dati significativi, tanto più se si considera il fatto che solo qualche anno prima, nel 1712, Domenico poteva permettersi di pagare - o di farsi pagare - la non indifferente pigione di 66 ducati. Dallo stesso documento si evince inoltre che nel 1720 il G. lavorava più o meno regolarmente come pittore di copie per i fratelli Giovanelli, presso i quali aveva evidentemente ereditato il posto e le mansioni che già furono del padre, anche se non risulta che percepisse un regolare stipendio. Egli potrebbe aver collaborato in qualità di assistente già nelle ultime commissioni affidate a Domenico, come la pala della chiesa di S. Zenone a Valtrighe, per la quale ricevette, nel gennaio del 1717, una parte del compenso complessivo dovuto al genitore.
Il rapporto con i Giovanelli si protrasse per anni; e il testamento del conte Giovanni Benedetto, stilato nel 1731, cita un lascito di "copie de' quadri […] fatte dalli fratelli Guardi". Nondimeno la stima e la considerazione accordata dai committenti alle fatiche del loro protégé non dovettero mai essere più che modeste, ove si pensi che non solo l'inventario della quadreria redatto poco dopo la morte dei due Giovanelli non elenca alcun dipinto dei Guardi, ma che persino gli eventuali interventi di ritocco e correzione sulle copie realizzate venivano affidati ad altri, più costosi pittori, come attesta, per esempio, la già citata nota delle spese del 1720. Quanto ai dipinti lasciati in legato testamentario, il loro valore doveva essere probabilmente molto contenuto se - come è stato ipotizzato sulla scorta delle valutazioni allegate a una dichiarazione fiscale - si trattava di una trentina di quadri, per una stima complessiva di 62 ducati, appena 2 al pezzo (Montecuccoli degli Erri, 2002, p. 63). I facoltosi mecenati si valsero piuttosto dei servigi del G., non diversamente da come avevano fatto con Domenico, per decorare magioni private, chiesette e cappelle presenti nelle loro vaste proprietà con copie derivate da celebri dipinti dei grandi maestri della tradizione cinquecentesca e seicentesca, per lo più, ma non solo, veneziana. In questa tipologia rientrerebbe uno dei primi saggi autonomi del giovane pittore, recentemente attribuitogli: il quadro, già nella villa dei Giovanelli a Noventa Padovana (ripr. in A. G., 1992, fig. 2), con la Fuga di Enea da Troia, una palmare ma povera derivazione dalla celebre opera di F. Barocci, forse per il tramite dell'incisione trattane da Agostino Carracci. A questa si possono poi accostare le tre tele con scene della Passione di Cristo, ancora oggi conservate nella parrocchiale di Luzzana, vicino Bergamo, e databili al 1726 sulla scorta di un'antica scritta apposta a tergo di uno dei dipinti; nonché i dieci quadri che decorano la piccola navata della chiesa di Morengo, pure nel Bergamasco, con Episodi della vita di Cristo e della Vergine, realizzati entro il 1729, replicando capolavori veneziani di Tiziano, Veronese e Tintoretto, e donati dai Giovanelli che vi fecero fregiare il loro stemma di famiglia.
Sul finire del terzo decennio, il G. passò al servizio del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, già generale dell'esercito della Serenissima e trionfatore sui Turchi all'assedio di Corfù.
Dopo la brillante, insperata vittoria militare Schulenburg, si era trasferito a Venezia, che gli aveva tributato onori grandissimi, stabilendosi a palazzo Loredan, dove si circondò d'una sorta di piccola corte privata. Già dal 1724 egli aveva cominciato a collezionare avidamente dipinti e incisioni e il suo maniacale e narcisistico bisogno di circondarsi delle immagini di regnanti, principi e condottieri, e nello stesso tempo di far dono ai suoi pari della sua effigie, lo rendeva il committente più idoneo per un collaudato copista quale a quell'epoca era certamente il Guardi.
Ma anche da questo nuovo impiego la reputazione del pittore non ebbe a guadagnarne.
Dai libri di cassa del maresciallo - che costituiscono una preziosa fonte di informazioni sulla carriera del G. - si evince chiaramente che Schulenburg riservò al suo nuovo dipendente un trattamento tutt'altro che generoso. In un primo momento, tra il 1730 e il 1736, il G. percepì un mensile fisso di 27 lire: ben poca cosa, considerato che un cameriere o un cuoco guadagnavano di più; in compenso godeva del vitto e dell'alloggio (Binion). La copia - oggi perduta - dell'enorme tela veronesiana delle Nozze di Cana, che allora si trovava ancora nel refettorio benedettino di S. Giorgio Maggiore, richiese un lavoro di quattro mesi tra il 1733 e il 1734, e fruttò al pittore un saldo netto di appena 2 zecchini, pari a circa 7 ducati. Negli anni successivi egli venne pagato invece solo su commissione, con cifre meno "simboliche"; ma è nondimeno significativo che il suo nome risulti poi nei registri dei beneficiari delle elemosine abitualmente elargite da Schulenburg. Se gli emolumenti erano scarsi, non meno lo era il conto in cui venivano tenuti i suoi lavori. Pur non essendo più un principiante, il G. non venne mai consultato dal suo committente per un parere in merito ai frequenti acquisti di quadri, né per la redazione di stime o perizie, e nemmeno per l'estensione di inventari, segno che egli non poteva vantare una credibile formazione accademica. Anzi, nelle loro valutazioni, gli esperti di cui Schulenburg abitualmente si serviva per questo genere di scopi, Gian Battista Piazzetta, Giovan Battista Pittoni, Gaspare Diziani, per lo più liquidavano le copie del più modesto collega come cose "mediocri" o di nessun valore, e lo stesso maresciallo - quando non se ne serviva per farne regalo a qualcuno - le destinava ai quartieri della servitù. Nel lungo arco di anni in cui lo servì, dal 1729, almeno, al 1746, il G. fu un fedele, certo affidabile "pittor di casa", ma non fu mai "pittore di Sua Eccellenza".
Il rapporto con il generale tedesco lasciava inoltre poco spazio ad altri impegni e commissioni esterne: pertanto, in questo periodo, il G. risedette quasi sempre stabilmente a Venezia. Soltanto nell'ottobre del 1738 la sua presenza è documentata in Trentino, prima a Cles - per presenziare alla formalizzazione dell'avvio di una vertenza legale che lo vedeva in causa con un cugino per interessi relativi a beni ereditati in Val di Sole dall'avo Giovanni, prebendato a Vienna - e quindi a Vigo Anaunia, dove si era rivolto a un parente, don Pietro Antonio Guardi, parroco del luogo, affinché curasse i suoi interessi in veste di procuratore. Lo stesso Pietro Antonio in data 14 ott. 1738 registrava nel libro contabile della canonica di aver "consegnato i tre quadri grandi a questa chiesa parrocchiale posti in sagristia in adempimento del legato lasciato nel testamento" (De Maffei, 1951, p. 28). Il riferimento è alle tre lunette, tuttora in sito, che rappresentano La comunione sacrilega del vescovo Ugone, la Lavanda dei piedi e la Visione di s. Francesco d'Assisi. Le tele, oggi in cattivo stato di conservazione, hanno diviso gli studiosi tra i sostenitori di un'integrale attribuzione al G. e quanti hanno invece ravvisato - particolarmente nell'ultima lunetta - la mano del giovane Francesco. Si tratta comunque di un'opera fondamentale per la ricostruzione del percorso artistico del G., qui forse per la prima volta non vincolato alla pedissequa riproduzione di una copia in senso stretto, sebbene derivazioni più o meno puntuali siano state riconosciute da stampe e dipinti.
Subito a ridosso della realizzazione di queste opere - che dovettero essere allogate al pittore poco prima del suo viaggio trentino - si situa la commissione della pala che ancora decora l'altare della famiglia Marcolla nella stessa parrocchiale di Vigo Anaunia. La tela con la Madonna in gloria e santi è oggi, dopo varie controversie attributive, pacificamente ritenuta opera piena del G., che vi rivela ormai - pur dipendendo liberamente da un'analoga composizione di Francesco Solimena, ora a Dresda (Staatliche Kunstsammlungen), ma all'epoca in casa Widman a Venezia - quella scioltezza di esecuzione e quello sfrangiarsi della pennellata che sono caratteristiche del suo stile più maturo. Al piccolo gruppo di commissioni esterne, non veneziane, databili al medesimo giro d'anni della pala di Vigo, si possono poi ricondurre altre due opere significative.
La prima, firmata, è la paletta con il Transito di s. Giuseppe (Berlino, Gemäldegalerie), destinata originariamente alla cappella privata di villa Mocenigo a San Michele al Tagliamento, presso Latisana, dove ancora si trovava fino al 1911, quando fu scoperta da Fogolari. L'altra è l'Ultima Cena trovata a Castel Thun, nella Val di Non, da Morassi (1929), poi in collezione Stramezzi a Crema e quindi dispersa (Morassi, 1973, fig. 35), saggio squisito di quel genere di pittura che ha indotto taluni a evocare un "preimpressionismo" del Guardi.
Escluse le poche eccezioni, il decennio tra la fine degli anni Trenta e la fine dei Quaranta vide il pittore costantemente impegnato nella feconda produzione di copie richiestegli da Schulenburg.
A parte i ritratti - molti dei quali dello stesso maresciallo, come quello oggi conservato a Ca' Rezzonico - è da ricordare almeno il dipinto dell'Ultima Cena (Halle, Museo), nel quale è stata riconosciuta (Morassi, 1960, p. 156) "la copia d'una cena del Sebastiano Rizzi destinata per la chiesa di Doehliz" di cui è menzione nei libri di cassa e che fu pagata al G., il 1° sett. 1738, 8 zecchini - segno, per altro, di un certo miglioramento nel trattamento economico. Ugualmente notabili sono le tre copie, pagate tra 1738 e 1739, desunte rispettivamente dal S. Giovanni Battista di Tiziano alle veneziane Gallerie dell'Accademia (Dublino, National Gallery of Ireland) - che il G. poteva ancora vedere nella chiesa di S. Maria Maggiore - e dalle tele di scuola tintorettesca della Madonna dell'Orto con le personificazioni della Fortezza e della Temperanza (ubicazione ignota). Si tratta di opere eloquenti, tanto per il fatto che manifestano la libertà di interpretazione ed esecuzione con cui il G. si accostava al dettato del modello originale, quanto poiché rivelano come l'interesse per le copie da parte del committente fosse improntato a un criterio prevalentemente e sommariamente iconografico, piuttosto che compiutamente stilistico. Non meno istruttivo è il confronto quando si consideri un'opera come l'Alessandro davanti al corpo di Dario del Museo Puškin di Mosca, cronologicamente poco più avanzata, che attesta gli esiti originali dell'idioma guardesco nella trascrizione dei modi da "tenebroso" di Giovan Battista Langetti, da cui il soggetto è desunto.
Tra il 1741 e il 1743 Schulenburg commissionò al G. un notevole numero di piccoli quadri: le cosiddette "turcherie", scene di vita e costumi turchi derivate da una raccolta di stampe, pubblicata a Parigi nel 1714 e nota come Recueil Ferriol, a loro volta tratte dai dipinti del pittore franco-fiammingo Jean-Baptiste Vanmour.
Nel giro di tre anni, e forse con la collaborazione del più giovane fratello Francesco, il G. fornì al maresciallo ben quarantasette tele, servendosi come modello non solo delle stampe Ferriol, ma - come è stato recentemente segnalato (Gopin, p. 160) - potendo eventualmente copiare direttamente un certo numero dei dipinti stessi di Vanmour e della sua bottega, allora posseduti dalla famiglia Donà. Tale circostanza conforterebbe per altro l'ipotesi che il G., intorno a questa data, avesse lavorato temporaneamente per la nobile famiglia veneziana, ipotesi già avanzata a suo tempo dalla Binion (pp. 93, 330) sulla scorta di una nota dei libri di cassa Schulenburg, che, in data 1° febbr. 1742, registrano un pagamento a favore di un "Ant(oni)o pittor di Ca' Dona per 2 quadri Turchi".
Con la morte del maresciallo von der Schulenburg, nel 1747, l'artista non più giovanissimo si trovò di nuovo nella necessità di trovare degli appoggi onde supplire alla mancanza di collegamenti e di titoli che gli dessero accesso al circuito delle commissioni pubbliche ed ecclesiastiche veneziane. È in questo momento che il G. entrò in contatto con l'influente famiglia Savorgnan; contatto fortunato, procuratogli verosimilmente dall'interessamento dei parenti dei suoi vecchi protettori e committenti: i fratelli Giovanelli. La nipote di questi ultimi, Maria Lucrezia Morosini, figlia di Fior Teresa Giovanelli, nel 1690 era andata in sposa al marchese Francesco Savorgnan. Plausibilmente fu la stessa Maria Lucrezia, che doveva aver conosciuto il G. nella casa dei propri zii, a far da tramite affinché, quando il 24 maggio del 1749 venne consacrata la nuova chiesa di S. Antonio Abate a Belvedere di Aquileia - dopo una completa riedificazione patrocinata e finanziata da Francesco Savorgnan - il G. venisse chiamato a fornire la pala con cui decorare l'altare di famiglia. Il dipinto, oggi custodito in palazzo Attems-Petzenstein (Gorizia), raffigura la Madonna del Rosario con i ss. Domenico, Giovanni Nepomuceno, Antonio Abate, Sebastiano e Marco, ed è stato coinvolto, come le altre opere maggiori, nell'annosa querelle attributiva circa la paternità dei dipinti di figura dei fratelli Guardi. Per l'odierna maggioranza dei critici esso costituisce comunque uno dei più alti e sicuri raggiungimenti dell'arte del G. nel pieno della sua maturità, poco prima delle tele dell'Angelo Raffaele.
Come sempre incline a mutuare da altri autori elementi locali da far rifluire nella propria traccia compositiva - in questo caso guardando alla pala che Sebastiano Ricci realizzò nel 1708 per la chiesa veneziana di S. Giorgio Maggiore - il G. concentra qui la sua attenzione principalmente sulla resa pittorica. Assumendo tranquillamente una sigla iconografica tanto classica quanto tradizionale - scelta persino ovvia in una chiesa di un piccolo centro di provincia - egli ne trasforma la trama e la consistenza visiva, con quell'uso spregiudicato della pennellata che smangia i contorni e lampeggia nei lumi.
Frutto di questa medesima, feconda temperie stilistica sono poi alcune altre opere licenziate tra la fine del quinto decennio e l'inizio del successivo, ugualmente riconducibili, per quanto attiene alla committenza, all'area di influenza della famiglia Savorgnan.
Dal palazzo Savorgnan di Brazzà a Udine provengono infatti i due pendants con la Magnanimità di Scipione e il Trionfo di un condottiero romano, oggi in collezione Cella a Broni (Pavia: Morassi, 1973, fig. 119). Pure non lontano da Udine è la piccola cittadina di Pinzano al Tagliamento, per la quale il G. dipinse, tra 1747 e 1748, la Gloria di s. Antonio da Padova, ancora presente nella parrocchiale di S. Martino. Di poco posteriore è invece la Visione di s. Giovanni di Matha della parrocchiale di Pasiano di Pordenone. Il dipinto era destinato all'altare della Confraternita della Ss. Trinità, che coltivava una speciale devozione per s. Giovanni di Matha, fondatore dell'Ordine dei trinitari de redemptione captivorum, dedito in origine appunto al riscatto degli schiavi cristiani in potere dei musulmani, missione cui allude la guizzante scenetta che balena sullo sfondo della composizione. "Ss. Trinità redentrice de li schiavi" è infatti denominata la pala nel documento reso noto da Querini, in cui, nell'ottobre del 1750, l'arciprete di Pasiano, don Francesco Locatelli, annotava il pagamento di 50 ducati ad "Antonio Guardi di Venezia". L'opera, certamente autografa dunque, resta un punto saldo nell'ossatura del corpus del G., verso l'ultimo decennio, e testimonia di nuovo, anche per ubicazione geografica, i possibili legami con un alveo di committenze variamente sorvegliate dai Savorgnan.
I legami con i Savorgnan sono direttamente documentabili nel caso dei quattro affreschi di soggetto mitologico pervenuti a Ca' Rezzonico da casa Barbarigo Dabalà all'Angelo Raffaele. Recuperati dopo essere stati scialbati nell'Ottocento, essi decoravano in origine con le figure delle divinità olimpiche Diana, Venere, Minerva e Apollo una sala del palazzetto di proprietà della famiglia Barbarigo del ramo dell'Angelo Raffaele.
A quel ramo apparteneva il Marcantonio Barbarigo che nel 1712 aveva sposato Maria Savorgnan, figlia di quel Francesco Savorgnan e di quella Maria Lucrezia Morosini che avevano guadagnato al G. la commissione della pala di Belvedere d'Aquileia. Ciò spiegherebbe come l'artista possa essersi procurato un incarico per una famiglia così importante, e per di più a Venezia, dove, come s'è visto, non doveva godere di molta notorietà e di grande reputazione.
Gli affreschi, pur molto rovinati - forse anche a causa della tecnica, poco idonea ai modi dello "svelto" e dell'"improvviso" tipici del G. - dovrebbero potersi ritenere una sua opera, all'inizio degli anni Cinquanta, anche in forza di un disegno preparatorio per la figura di Minerva, in collezione Spector a New York (ibid., figg. 30-31), che porta sul verso uno studio per il gruppo dell'Aurora, ritenuto oggi da molti uno fra i capolavori del maggiore dei fratelli Guardi.
L'Aurora fa parte di un ciclo di quattro tele - dal 1963 nella collezione Cini in palazzo Loredan a S. Vio - che costituivano il complesso decorativo di un soffitto del veneziano palazzo Suppiei, e come i coevi dipinti di Ca' Rezzonico raffigurano soggetti mitologici (oltre all'Aurora nello scomparto maggiore, Nettuno, Vulcano e Cibele), ma a differenza di quelli mostrano una notevole qualità, un carattere di aerea levità e grazia tipicamente rococò, specialmente evidente nell'Aurora, che pure deve la sua ispirazione a un modello di Giannantonio Pellegrini. Di questa grazia raffinata e un po' civettuola sono tipica espressione pure le tele con il Trionfo di Venere già in palazzo Mocenigo a S. Samuele, a Venezia, poi divise tra l'ambasciata italiana a Parigi e una collezione privata di Ginevra (ibid., figg. 100-101), tele che il Fiocco (p. 29) riteneva degne, pur assegnandole a Francesco, di "un vero e più grande Boucher italiano".
Intorno agli inizi del sesto decennio dovrebbe collocarsi anche la commissione dei celeberrimi e disputatissimi dipinti per la cantoria dell'organo della chiesa veneziana dell'Angelo Raffaele, commissione alla quale, ancora una volta, potrebbero non essere stati estranei i buoni uffici della nobildonna Maria Barbarigo Savorgnan, che abitava del resto nei pressi della chiesa.
Dopo essere stato tratto dal suo secolare oblio dalla corsiva menzione che ne fece Fogolari nel 1916, il ciclo guardesco è sempre stato giudicato dalla critica, quasi senza eccezioni, un capolavoro assoluto della pittura settecentesca veneziana ed europea, ma tutt'altro che unanimi sono stati i pareri intorno alla paternità e alla datazione dell'opera. Dopo un primo momento in cui sembrò prevalere, anche sulla scorta dell'autorità di Fiocco, la posizione di quanti negavano al G. qualsiasi partecipazione alla realizzazione dei dipinti per rivendicarli integralmente a Francesco, nel corso del tempo, parallelamente al definirsi di un più affidabile catalogo di entrambi i fratelli, l'ipotesi di una piena attribuzione al maggiore dei due guadagnò consensi, soprattutto dopo gli studi di Arslan, di F. De Maffei, di Rasmo, di Morassi. Oggi l'autografia del G. delle pitture dell'Angelo Raffaele è sostenuta dalla larghissima maggioranza della critica. Altrettanto vexata è stata poi la questione della datazione - per molti strumentale all'inclusione o esclusione di uno dei due artisti - con oscillazioni comprese tra il 1749, data di costruzione dell'organo ricordata da un'epigrafe, e la metà degli anni Ottanta. La collocazione cronologica dovrebbe inoltre accordarsi e se possibile render conto dei dati forniti dai pochi documenti ritrovati concernenti la decorazione dell'organo.
Nel 1749, infatti, il capitolo della chiesa deliberò di utilizzare due offerte, di 100 e di 70 ducati, per far dipingere e indorare l'organo nelle parti mancanti. Nel dicembre dell'anno successivo, quattro sacerdoti, Angelo Celsi, Francesco Ferri, Giacomo Berini e Giacomo Daponte, presentarono una supplica onde essere autorizzati a raccogliere elemosine con cui condurre a termine i lavori iniziati, essendo "compiti da qualche tempo i laterali dell'organo con dipintura a tempera" (Montecuccoli degli Erri, 1992, p. 47), nonché avviare altri interventi di restauro sulla controfacciata e sul tetto della chiesa. A tali documenti sono state date le più diverse interpretazioni, finanche d'ordine lessicale, così da inferirne varie ipotesi sulle fasi di lavorazione del ciclo guardesco. Sembra comunque plausibile la ricostruzione proposta da ultimo da Montecuccoli degli Erri (1992), per il quale entrambi i documenti si riferirebbero a lavori di verniciatura, indoratura e finitura della struttura lignea dell'organo, perciò preliminari all'esecuzione e messa in opera delle tele del G., le quali pertanto andrebbero collocate tra la fine del 1750 e gli inizi del 1752, quando le carte successive della chiesa non citano più gli interventi sull'organo. L'ipotesi potrebbe essere inoltre corroborata da un documento - prodotto dallo stesso studioso - che attesta come in data 27 febbr. 1752 il G., rilasciando una procura per l'amministrazione dei suoi interessi in Val di Sole, chiamasse a testimoniare all'atto notarile i due sacerdoti, Angelo Celsi e Francesco Ferri, firmatari della supplica del 1750, segno di un rapporto abbastanza stretto proprio in quel torno di tempo.
Il ciclo dell'Angelo Raffaele si compone di una serie di sette tele, disposte sul parapetto dell'organo, che illustrano - tranne i due scomparti più piccoli con Angeli musicanti - episodi della storia di Tobiolo, o Tobia, e dell'angelo custode, tratti appunto dal libro biblico di Tobia.
La sequenza delle scene si dispone da sinistra a destra: nella prima, La partenza di Tobia, il giovane si accomiata dai genitori accompagnato dall'angelo (Tobia, 5, 18-19); segue La pesca di Tobia, in cui l'angelo ingiunge al compagno di pescare un pesce ed estrarne le viscere (6, 4-6). La tela centrale, la più ampia del gruppo, sempre titolata, per comodità ma impropriamente, Nozze di Tobiolo, rappresenta invece, più precisamente, La preghiera di Tobia e Sara, episodio che esalta - come è ovvio - piuttosto il ruolo centrale e salvifico del messo divino Raffaele, inviato a liberare i giovani sposi dal demonio che li minacciava (8, 1-4). La composizione viola comunque l'unità di tempo e luogo per combinare una serie di allusioni allo sviluppo narrativo della scena, ciò che è notevole, anche rispetto al sempre presunto disinteresse del pittore per questioni compositive e iconografiche. Chiudono la serie Tobia ridona la vista al padre (11, 11-12), episodio figurativamente più consueto, e il finale Raffaele si rivela e scompare (12, 20-22).
Con le Storie di Tobia la parabola artistica del G. raggiunge il suo culmine, portando all'estremo quel processo di smaterializzazione del disegno e riduzione compendiaria nella resa delle superfici già sperimentato nelle opere immediatamente precedenti.
Ma negli ultimi anni della sua carriera il pittore licenziò ancora opere di impegno, anzi le più impegnative dal punto di vista quantitativo. Nel 1754, grazie certamente al rapporto stabilito con don Francesco Ferri, il G. compì la pala per l'altare che la famiglia del sacerdote patrocinava nella chiesa parrocchiale di S. Vincenzo Martire a Cerete Basso, nella bergamasca Valseriana. La tela - come tutte quelle destinate a piccole chiese di provincia - riprende l'impostazione canonica della Sacra Conversazione cinquecentesca, qui in particolare esemplata sul modello della pala di S. Zaccaria di Paolo Veronese (Venezia, Gallerie dell'Accademia), che il pittore ben conosceva per averla copiata vent'anni addietro a istanza del maresciallo von der Schulenburg.
Ma la dipendenza è limitata da obblighi di decorum iconografico, visto che il postergale doveva celebrare i santi eponimi dei committenti, Silvestro, Antonio e Caterina, e soprattutto rivendicare, con araldica evidenza, il privilegio di giuspatronato che dopo lunga vertenza il ramo veneziano della famiglia Ferri aveva riacquisito e al quale alludeva anche l'epigrafe dedicatoria posta in capo all'altare: "Silvestro Antonio et Catharinae presb(iter) Fran(cis)cus Ferri e Veneta familia posuit anno MDCCLIV". Anche in questo caso, dunque, il G. sembrerebbe meno dimentico dei problemi di "contenuto" di quanto potrebbe far pensare l'immagine un po' stereotipa che dell'artista ha spesso fornito la letteratura.
Prossime alla pala di Cerete Basso, per qualità e cronologia, sono le Storie romane scoperte da Sinding-Larsen nel 1959 nel cosiddetto giardino d'inverno della villa di Bogstad, presso Oslo.
Si tratta di quattro importanti tele, uguali due a due nelle dimensioni, che ornavano verosimilmente un salone di qualche residenza patrizia con episodi tratti dalla storia di Roma antica; temi allora di gran moda, in pittura come al teatro e in letteratura, che illustravano il contegno esemplare di famosi prigionieri di fronte ai loro altrettanto famosi vincitori: Muzio Scevola davanti a Porsenna e La continenza di Scipione, Sofonisba che accetta il veleno di Massinissa e Il trionfo di un condottiero. Quanto al soggetto di quest'ultimo dipinto, giova forse precisare che l'identificazione di Sinding-Larsen - che vi riconosce Il trionfo di Aurelianosu Zenobia e Cassio Longino - sembra restare problematica, sia per la posizione assai defilata della figura femminile, sia perché secondo lo storico Zosimo, che lo studioso norvegese considera la fonte dell'immagine, la regina palmirese e il suo consigliere non giunsero mai a Roma per il trionfo (Zosimo, I, 56-59). Se di Aureliano si tratta, allora il vecchio barbuto che spicca a scapito di una modesta Zenobia dovrebbe piuttosto identificarsi nell'usurpatore Tetrico, pure sconfitto da Aureliano (Historia Augusta, Aurelianus, 34, 2-3); oppure la scena potrebbe riferirsi ad altro episodio, quale, per esempio, Il trionfo di Emilio Paolo sul re Perseo ed i suoi figli. Il G. stesso aveva già trattato, nei dipinti per il palazzo Savorgnan di Udine, il motivo del Trionfo, con soluzioni iconografiche analoghe che par logico riferire a un identico soggetto.
Più ampio e articolato è invece il ciclo di sei quadri raffiguranti le Storie di Giuseppe Ebreo, oggi in collezione Lutomirski a Milano (figg. 2-5), ma provenienti dalla foresteria della villa Bombardini a Bassano del Grappa. Opere riferibili anch'esse alla produzione estrema del G., nonostante il cattivo stato di conservazione e le manomissioni subite nel tempo rendano difficoltoso il discernimento di un'omogenea qualità esecutiva, ciò che ha comunque suggerito l'ipotesi dell'intervento di collaboratori.
Quello della collaborazione, tra i vari fratelli e all'interno di una più ampia e frequentata bottega, è un problema che nell'ambito della letteratura specialistica si è andato sviluppando di pari passo con la progressiva affermazione e definizione della figura del G. come personalità artistica autonoma e distinta da quella di Francesco e ha condizionato in particolare la valutazione delle opere generalmente ritenute pertinenti all'attività tarda del maggiore dei due, le opere cioè che denunciano con evidenza una certa discontinuità stilistica. Oltre alle appena citate Storie romane di Bogstad, o alle tele Lutomirski, si possono ricordare, a questo riguardo, specialmente i dipinti che in origine costituivano un ciclo, non si sa di quanti elementi, liberamente derivato dalle illustrazioni di Piazzetta per l'edizione della Gerusalemme liberata pubblicata a Venezia nel 1745 da Giambattista Albrizzi. Attualmente sono noti otto quadri ritrovati nel 1956 presso un antiquario di Dublino e oggi divisi fra vari musei (Copenaghen, R. Museo delle belle arti; Kingston upon Hull, Ferens Art Gallery; Washington, National Gallery of art; Venezia, Gallerie dell'Accademia; Montreal, Museum of fine arts; Londra, collezione Neville Orgel). A questi si deve aggiungere un nono dipinto reso noto a suo tempo da Fiocco (p. 64) e oggi disperso, che lo studioso riteneva proveniente da una villa di Este, dove avrebbe in origine fatto parte di una serie di quattordici, compresi i dipinti di provenienza irlandese. Recentemente è stata però avanzata anche l'ipotesi che i Guardi avessero licenziato più di un ciclo ispirato alla Gerusalemme liberata, e che solo le otto tele già menzionate possano ascriversi a un unico gruppo, peraltro frutto di collaborazione tra i fratelli con l'intervento di altri non precisabili aiuti. Tale compresenza di diverse mani sarebbe particolarmente evidente nelle due gradi tele della National Gallery di Washington: Erminia tra i pastori e Carlo e Ubaldo resistono agli incantesimi di Armida (Merling, 1994; 2002). Ma gli argomenti fondati sull'analisi stilistica non sembrano, almeno finora, potersi comporre con le scarse evidenze documentarie, che anzi parrebbero militare contro l'ipotesi dell'esistenza di una bottega di stampo tradizionale gestita dal G. e frequentata - oltre che dai fratelli Francesco e Nicolò - anche da altri allievi.
Nell'ultimo decennio della sua vita il G. non risulta titolare di un'abitazione propria in cui tener bottega, ed è probabile che dopo aver abbandonato la casa Schulenburg alla morte del maresciallo, nel 1747, egli abbia trovato ospitalità, fino alla fine dei suoi giorni, presso il fratello Nicolò, che in contrada di Ss. Apostoli poteva permettersi di mantenere la famiglia e pagare 80 ducati di affitto. Le condizioni economiche del G. dovettero al contrario restare precarie fino alla fine, se, ancora nel 1753, egli si trovò nella necessità di vendere a un cugino del ramo di Almezzago la tomba di famiglia acquistata dal nonno nella chiesa di S. Agata in Comezzadura, in Trentino. È vero che il 13 febbr. 1756 il G. venne nominato socio dell'Accademia veneziana di pittura, ma è pur vero che il presidente dell'Accademia era allora Giambattista Tiepolo, suo cognato. Anche negli ultimi anni in cui probabilmente convisse con i fratelli nella casa di Nicolò, il G. non sembra essere stato a capo di una bottega familiare, visto che persino il misero debito di neppure 1 ducato lasciato insoluto alla sua morte presso un "bottegher da colori" non sarebbe stato onorato dai due fratelli, che evidentemente si servivano altrove, e il suo nome sarebbe rimasto alla fine nella lista dei debitori tra quelli "di niuna speranza" (Montecuccoli degli Erri, 2002, p. 70).
Il G. morì a Venezia, come risulta dal Libro dei morti di Ss. Apostoli, il 23 genn. 1760, dopo tre mesi di malattia.
Fonti e Bibl.: G.A. Simonson, Francesco Guardi, London 1904, p. 75; G. Fogolari, L'Accademia veneziana di pittura e scoltura del Settecento, in L'Arte, XVI (1913), pp. 246, 249; Id., Un dipinto settecentesco della chiesa di Belvedere presso Aquileia, in Arte cristiana, IV (1916), pp. 97 s.; G. Fiocco, Francesco Guardi, Firenze 1923, ad indicem; A. Morassi, Francesco Guardi as a figure painter, in The Burlington Magazine, LV (1929), pp. 293-299; E. Arslan, Per la definizione dell'arte di Francesco, G. A. e Nicolò Guardi, in Emporium, C (1944), pp. 1-28; F. De Maffei, G.A. G. pittore di figura, Verona 1951; N. Rasmo, Recenti contributi a G.A. G., in Cultura atesina, IX (1955), pp. 150-159; A. Morassi, A. G. ai servigi del feldmaresciallo Schulenburg, in Emporium, CXXXI (1960), pp. 147-164, 199-212; S. Sinding-Larsen, Four paintings by the Guardis in Oslo and the artistic deals of G.A. and Francesco Guardi, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia, I (1962), pp. 171-193; V. Querini, I documenti sulla pala di G.A. G. della arcipretale di Pasiano di Pordenone, in Messaggero veneto, XI (1963), 21, p. 3; F. De Maffei, La questione Guardi: precisazioni e aggiunte, in Arte in Europa. Studi di storia dell'arte in onore di W. Arslan, Milano 1966, pp. 839-867; A. Morassi, Guardi. I dipinti, Venezia 1973, pp. 19-26, 30-36, 43-127, 307-336 (con bibl.); Id. Guardi. Tutti i disegni di A., Francesco e Giacomo Guardi, Venezia 1975, pp. 17-37, 79-99; A. Binion, A. and Francesco Guardi. Their life and milieu, New York-London 1976, pp. 84-99, 159-237 e passim; L. Dania, Un inedito di G.A. G., in Prospettiva, XXX (1982), p. 78; F. Montecuccoli degli Erri, Domenico e A. Guardi e i loro patroni, in F. Pedrocco - F. Montecuccoli degli Erri, A. G., Milano 1992, pp. 9-66; M. Merling, I fratelli Guardi, in La gloria di Venezia. L'arte nel diciottesimo secolo (catal., Venezia), a cura di J. Martineau - A. Robinson, Milano 1994, pp. 293-327, 452-461; R. Pallucchini, La pittura nel Veneto. Il Settecento, II, Milano 1995, pp. 13-48; F. Pedrocco, Aggiunta ad A. G., in Pittura veneziana dal Quattrocento al Settecento. Studi in onore di E. Martini, Venezia 1999, pp. 261-263; S.A. Gopin, The influence of Jean-Baptiste Vanmour, in I Guardi. Vedute, capricci, feste, disegni e "quadri turcheschi", a cura di A. Bettagno, Venezia 2002, pp. 153-162; M. Merling, Problems in the organization of the Guardi firm. Evidence from the Tasso cycle, ibid., pp. 95-102; F. Montecuccoli degli Erri, Nuovi dettagli sull'attività dei fratelli Guardi, ibid., pp. 61-72; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XV, p. 171.