PANTUSA, Giovanni Antonio
– Nacque a Cosenza nel 1500 o nei primi mesi del 1501 da Giovanni; il nome della madre è sconosciuto.
Proveniva da una famiglia di notabili originaria della vicina Pandosia degli Enotrii (l’attuale Rosario), donde le varianti del nome Pandosi, De Pantusa e Panthusa riscontrabili nei documenti. Il padre ricoprì varie cariche pubbliche, tra cui quella di sindaco di Cosenza nel 1535, e in tale veste poté personalmente omaggiare Carlo V in visita alla città.
Compì probabilmente studi di filosofia e teologia in patria, ma le notizie sulla formazione sono scarne. Alcune fonti lo indicano tra i frequentatori dell’Accademia cosentina, fondata all’inizio del secolo da Aulo Giano Parrasio (Gian Pietro Parisio), poi rinnovata negli indirizzi culturali dal filosofo Bernardino Telesio dopo il 1532. Oltre a quest’ultimo, con il quale Pantusa mantenne un forte legame fino alla morte, è molto probabile che in gioventù egli abbia intessuto rapporti anche con altri umanisti meridionali, come Gaspare Del Fosso e Francesco Franchini.
Nel 1523 si trasferì a Roma, al servizio del cardinale Niccolò Ridolfi, grazie al quale entrò in contatto con l’ambiente curiale e con intellettuali destinati a incidere sulla sua formazione, quali Niccolò Ardinghelli, Coriolano e Bernardino Martirano, Antonio e Paolo Telesio, rispettivamente zio e fratello di Bernardino. Con il sostegno finanziario di Ardinghelli, nel 1525 pubblicò a Roma per Antonio Blado le Quaestiones super XII libros Metaphisicae Aristotelis. Dedicata al cardinale Ridolfi, l’opera contiene una serrata critica delle interpretazioni dell’aristotelismo tomista sostenute da Tommaso de Vio e Agostino Nifo.
L’anno seguente gli fu affidata la diocesi di Forlì per conto di Ridolfi, divenutone amministratore apostolico. Ricoprì l’incarico anche per la diocesi di Viterbo, assegnata al medesimo cardinale nel novembre 1532. Due anni più tardi, nel 1534, diede alle stampe il primo scritto teologico, il De coena Domini (Roma, A. Blado), dedicato a Pietro Antonio di San Severino, principe di Bisignano. Pantusa vi confuta gli errori dei protestanti, riaffermando la tesi della transustanziazione, come espresse più compiutamente nel De vera Christi carne et vero eius sanguine (Roma, A. Blado, 1545).
All’indomani dell’elezione di Paolo III ottenne alcuni benefici che gli permisero di attendere ai suoi studi: nel maggio 1536 fu nominato tesoriere della cattedrale di Cosenza, che affidò all’amico Paolo Telesio, suo procuratore fino al 2 luglio 1541, quando gli subentrò il fratello Bernardino. Il 1° aprile fu invece quest’ultimo a resignare il beneficio di S. Giovanni di Cerisano a favore di Pantusa.
Nel 1545, in concomitanza con l’apertura del Concilio tridentino, uscirono per i torchi di Blado altri due opuscoli, il De praedestinatione et gratia e il De libero arbitrio et operibus, poi riuniti nella silloge postuma del 1596 (Opuscola omnia, Venezia, D. Zenaro), che comprende altri testi inediti, tra cui il De primatu Petri, inventariato tra i documenti processuali raccolti dal cardinale Giovanni Morone per la sua difesa.
Questi scritti, dedicati ai temi fondamentali della controversia con i protestanti – la giustificazione, il libero arbitrio, il primato di Pietro, il peccato originale, il rapporto tra fede e opere –, rivelano una solida preparazione teologica e un impianto narrativo molto articolato, corredato di citazioni e di glosse esplicative.
Durante le sessioni conciliari dedicate al decreto sulla giustificazione nell’autunno del 1546, Pantusa ricoprì un ruolo di spicco in qualità di teologo pontificio, segno di una fiducia ormai consolidata ai vertici della Curia, probabilmente mediata dal cardinale Marcello Cervini. A quest’ultimo dedicò l’opuscolo De praedestinatione et gratia, giunto nelle mani del cardinale per il tramite di Bernardino Maffei nel gennaio 1546.
L’8 novembre 1546 il cardinale Alessandro Sforza di Santa Fiora recapitò ai legati le correzioni approntate dai teologi romani alla bozza del decreto inviata al pontefice. Oltre alle osservazioni del maestro del Sacro Palazzo, il domenicano Bartolomeo Spina, e del sacrista, l’agostiniano Giovanni Giacomo Barba, la missiva recava anche le postille di Pantusa, il quale, al pari di Spina, confutò energicamente la tesi a favore della certezza dello stato di grazia sostenuta in concilio dagli agostiniani, e in particolare dal loro generale Girolamo Seripando. A dispetto delle divergenze su tale questione, Pantusa mantenne tuttavia ottimi rapporti con Barba e con Seripando.
Su sollecitazione di Ardinghelli, il 17 febbraio 1547 fu eletto vescovo di Lettere, nel Regno di Napoli, diocesi che resse fino alla morte.
Le fonti non consentono di approfondire il quindicennio di governo episcopale, ma è noto che acquistò alcune proprietà nella vicina Gragnano. Lì egli portò a termine i Commentaria in epistolam ad Romanos, di cui conosciamo soltanto l’edizione del 1596 (Venezia, D. Zenaro).
Dal 1547 alternò l’impegno episcopale con lunghi soggiorni a Roma. Scomparso Ardinghelli, si avvicinò al cardinale Marco Antonio Colonna, al cui servizio sarebbe entrato anche il nipote Cesare, che dedicò al cardinale l’edizione del 1596 delle opere dello zio.
Alla vigilia della riapertura del Tridentino sotto Pio IV, il cardinale Seripando invitò Pantusa a raggiungerlo, ma il 10 febbraio 1561 questi gli rispose dichiarando di non potersi muovere per ragioni di salute. Nonostante i solleciti – cui si unì il cardinale Carlo Borromeo in una missiva indirizzata al nunzio a Napoli Niccolò Fieschi in novembre – Pantusa non si mosse prima della fine di febbraio 1562. Accompagnato dal discepolo Vincenzo Bombini e dal chierico di lettere Tommaso Antonio De Marini, arrivò a Trento il 7 marzo 1562 e fu alloggiato nel convento agostiniano di S. Marco.
Nelle animate discussioni sulle questioni di riforma ancora in sospeso, in primo luogo quella riguardante l’obbligo di residenza dei vescovi, egli cercò la via della mediazione tra le istanze riformatrici sostenute dall’episcopato spagnolo e francese, tese a rivendicare il diritto divino di residenza, e le posizioni più conservatrici della maggior parte dei vescovi italiani. In particolare, il 9 aprile 1562, propose di lasciare in secondo piano tale controversia, per concentrarsi sugli impedimenti alla residenza provenienti dal potere secolare. Durante la votazione del 20 aprile, contrariamente alle timide aperture delle settimane precedenti, forse anche in ragione dei delicati equilibri tra i diversi schieramenti politici, diede infine parere negativo sulla proposta di dichiarare lo ius divinum per la residenza episcopale.
Le cronache conciliari attestano un’identica volontà di mediazione sui dibattiti in merito all’eucarestia. L’8 luglio Pantusa sostenne la necessità di non esplicitare nel decreto se la grazia fosse maggiore qualora il sacramento fosse stato assunto sotto entrambe le specie. Nelle settimane seguenti partecipò alla commissione deputata alla stesura del decreto sul sacrificio della messa. A fianco del gesuita Alfonso Salmerón confutò energicamente le tesi volte a interpretare la messa come ricordo del sacrifico di Cristo, e nella seduta del 13 agosto affermò che la messa era stata istituita da Cristo sia come sacramento sia come sacrificio, scontrandosi duramente con l’arcivescovo di Granada Pedro Guerrero e con lo stesso Seripando. Nel corso dei dibattiti sulla concessione del calice ai laici mostrò una maggiore propensione ad accogliere le richieste di alcuni vescovi imperiali, riconoscendo alcune specifiche condizioni per ammettere tale prassi. Durante la votazione del decreto, il 15 settembre, preferì tuttavia rimettere al pontefice la decisione finale.
Nel frattempo, il 20 maggio, aveva dettato il suo testamento, nominando suoi procuratori Bernardino Telesio e Vincenzo Bombino per la divisione dei beni nel territorio cosentino, e Salvatore Marino e Roberto Marchesi per le proprietà nella diocesi di Lettere. Unico beneficiario fu il nipote Cesare.
Intorno alla metà di ottobre le sue condizioni di salute peggiorarono improvvisamente. Il 26 Pantusa ricevette l’estrema unzione e il giorno seguente morì a Trento. Fu sepolto nella chiesa del monastero di S. Marco.
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