SUMMONTE, Giovanni Antonio
– Nacque a Napoli forse nel 1538 o nel 1542, stando a due diverse dichiarazioni processuali (Di Franco, 2012, pp. 20 s.). Sulla paternità e le parentele illustri sono state avanzate ipotesi suggestive non corroborate da prove sufficienti (un Gianvincenzo collaboratore dell’umanista Pietro Summonte; un omonimo notaio napoletano). I due fratelli, il notaio Gian Giacomo e il mercante Gian Marino, vissero tra il quartiere del Sedile di Porto e quello di Portanova.
Summonte sposò Giulia De Vito ed ebbero almeno cinque figli: Luca Lorenzo, Giuseppe, Giustina, Angela, Francesco. Angela andò in sposa al notaio Scipione Castaldo, famoso per essere il curatore dei banchieri genovesi Spinola. Francesco sposò in seconde nozze Angela Montanaro e fu mercante di seta. Dei quattro figli di quest’ultimo, Giannantonio, omonimo del nonno storico, entrò nella Compagnia di Gesù all’età di 17 anni, ma prima si dedicò alla revisione dell’opera dell’avo.
Il biografo settecentesco Scipione Di Cristoforo, che curò l’introduzione dell’ultima edizione dell’opera di Summonte, lo considerò un procuratore, sebbene non fosse laureato; sarebbe stato un esperto nelle controversie del tribunale della Grassa o Annona, arricchendosi con i proventi di questa attività. Nuove acquisizioni archivistiche ci informano invece che fu mercante di seta, iscritto nel libro delle matricole dell’Arte il 24 luglio 1561 (Archivio di Stato di Napoli, Seta, Libro delle Matricole, 1, c. 74r) e svolse questa attività per tutta la vita insieme a quella di ricercatore, storico e politico. Visse vicino ai fratelli, nella strada dei calzettai, dove nel 1569 acquistò una casa di proprietà del monastero dei Ss. Pietro e Sebastiano; altri immobili costituirono il suo patrimonio assieme all’eredità del fratello notaio.
L’attività di mercante lo avvicinò alla realtà delle compagnie e congregazioni laiche, aggregandosi alle quali gli artigiani partecipavano a un sodalizio religioso e allo stesso tempo cercavano di rafforzare la loro posizione sociale. Egli profuse il suo impegno civile nella gestione del conservatorio napoletano dei Ss. Filippo e Giacomo, che ospitava le giovani povere delle famiglie di mercanti di seta. Entrò a far parte di alcune confraternite e ne fondò altre, come quella dello Spirito Santo e dei Bianchi dello Spirito Santo, esercitando le funzioni di governatore e mastro economo dei lasciti ereditari dei confratelli che, accumulandosi negli anni, permisero la costituzione del Banco dello Spirito Santo nel 1591. Il Banco assieme a quello del Monte di pietà (1539) e ad altri cinque, costituirono le nuove istituzioni finanziarie del Regno.
Il governo di alcune delle prestigiose confraternite risentì dell’indirizzo accentratore della politica spagnola. I vertici dei maggiori tribunali furono sottratti alla nobiltà di spada ostile e riottosa (che continuò a conservare però ampi poteri in provincia) e affidati a soggetti di diversa estrazione sociale di provata fedeltà e dotati di competenze giuridiche. Nel 1587 il Consiglio collaterale sancì che il primo governatore della compagnia dello Spirito Santo sarebbe stato sempre un nobile e il secondo sempre un dottore in legge, al fine di garantire, oltre al prestigio, la competenza al governo della compagnia, che non sempre era assicurata dal solo governatore nobile (Archivio di Stato di Napoli, Delegazione della Real Giurisdizione, I, 324).
L’esperienza maturata in queste associazioni offrì a Summonte la possibilità di entrare nel sistema politico della capitale. Nel 1585 e nel 1598 fu eletto capitano della piazza di Porta Caputo, una delle 29 piazze o ottine in cui erano divisi il territorio e l’amministrazione di Napoli. I capitani, di nomina viceregia, potevano considerarsi ufficiali del re con compiti precisi e importanti (dall’ordine pubblico alla custodia delle porte cittadine, dal vettovagliamento nei periodi di carestia al controllo annonario, dalle cause di cittadinanza all’espulsione dalle piazze, dalla vigilanza sulla peste all’elezione dei governatori della Ss. Casa dell’Annunziata (dal 1617).
Nel 1597 ricevette l’incarico di tesoriere del seggio del Popolo. L’impegno politico-istituzionale lo avvicinò a illustri personaggi del seggio e della cultura giuridica napoletana, come Francesco Imperato, giurista, capitano e consultore del seggio medesimo, Giulio Cesare Capaccio, segretario, e i più giovani giuristi Bartolomeo Chioccarello e Francesco De Pietri, futuro segretario dell’Accademia degli Oziosi.
Il 1° luglio 1585 Summonte convocò la sua piazza per eleggere i due deputati che, assieme agli altri delegati, avrebbero scelto per votazione i sei candidati alla carica di eletto del Popolo, il rappresentante politico degli interessi della piazza nel governo cittadino, nominato dal viceré (Archivio di Stato di Napoli, Archivio notarile, Notai del XVI sec., scheda 73, protocollo 13, c. 230v). Il futuro eletto avrebbe preso il posto di Giovan Vincenzo Starace che, accusato di non aver impedito l’aumento del prezzo del pane e l’esportazione del grano dal Regno, era stato nel maggio di quello stesso anno trucidato dalla plebe e il suo cadavere fatto oggetto di macabri rituali.
La fama di Summonte è legata alla Historia della città e regno di Napoli, i cui primi volumi furono editi a Napoli nel 1601 e 1602, opera che costituì il punto di partenza del dibattito politico-storiografico che si sviluppò negli ambienti giuridici e culturali napoletani sulle prerogative del popolo nel governo politico, sulle riforme istituzionali e sulla questione giurisdizionale.
Secondo la lezione di Aristotele, Summonte credeva che l’uomo si completasse nello Stato, nella vita associativa, educandosi alla giustizia e rispettando le leggi. I monarchi passati e presenti, la nobiltà, i vertici del seggio del Popolo – a eccezione dei plebei o «dissutili», desiderosi di «potersi staccar fuora da queste leggi, e buscar la vita col danno altrui» (IV, p. 460) – figurano nella Historia come i responsabili, sebbene con gradi diversi, dello scarso sentimento dello Stato delle popolazioni del Regno. Egli definì lo spirito di coesione sociale con l’espressione «amore per la patria» e interpretò i cambiamenti costituzionali, politici, economici e sociali avvenuti nel Regno attraverso questa chiave di lettura.
Per sostenere la sua idea difese non solo le origini greche, libere e nobilissime di Napoli ma, utilizzando fonti narrative, antiquarie e numismatiche, volle dimostrare che Partenope non fosse un mito, bensì discendesse da «nobilissima, e generosissima prosapia [...], tutti i suoi progenitori ebbero quest’alto pensiero di fondar Città, e mantener Regni» (I, pp. 13 s.). Dopo la fine dell’impero bizantino e il governo ducale e con l’istituzione del Regno normanno (1139), i dominatori avevano impedito ai napoletani, ai migliori fra questi, di poter amministrare autonomamente la patria. In effetti, le riforme in materia di governo cittadino, a partire dai normanni e soprattutto sotto gli Angioini – che avevano distrutto la sede del governo municipale e moltiplicato i seggi nobili a svantaggio di quello popolare –, avevano generato una «natural inuidia ed odio tra la nobiltà, e la plebe; l’vna gonfia della superbia, [...] volendo che colei sia sua serua; e l’altra stando in continua suspizione di essere soprafatta» (Ferrari, 1707, p. 518).
Più in generale tutta la classe dirigente napoletana nelle sue componenti nobiliari e popolari, secondo Summonte, non era educata al sentimento della coesione sociale. L’aristocrazia era un ceto molto stratificato, composta di baronaggio feudale, nobiltà di seggio e nobiltà fuori seggio o fuori piazza. Il giudizio di Summonte sulla feudalità era chiaro e severo. Dal tempo dei Normanni quel ceto privilegiato (detentore di poteri giurisdizionali su terre e persone) e parassitario possedeva «l’util dominio dell’uno, e l’altro Regno» e continuava a «suggere il sangue de’ poveri popoli» (Historia, II, p. 36). Questa sua posizione antifeudale innescò una polemica con Tommaso Costo – segretario presso molte famiglie illustri del Regno (Carafa, d’Avalos, Pignatelli, Orsini) –, il quale biasimò Summonte per aver rivelato con «così fatto veleno [...] cose occulte e preiudiciarie [...] a famiglie pregiatissime e grandi» (Costo, 1613, c. a3rv).
Summonte riconobbe il primato storico e istituzionale dell’aristocrazia napoletana; riteneva tuttavia che essa si fosse arroccata nelle sue prerogative, soprattutto quando era prevalsa da parte della Corona una politica di accentramento che la esautorò dai vertici dell’amministrazione. Era una posizione condivisa con lo storico e nobile Angelo Di Costanzo ed entrambi riconobbero l’importanza del Regno angioino sia per l’affermazione dell’aristocrazia napoletana sia per la presenza del popolo nel governo cittadino.
Summonte esortava i nobili fuori piazza, privi di rappresentanza politica nell’amministrazione della capitale, a unirsi al popolo per rafforzarlo rispetto alla nobiltà di seggio: «non è tanto mala cosa, quanto altri pensano [ovvero Marino Freccia] essere connumerato tra il Popolo di Napoli, ma perché con effetto vedemo che [...] alcuno è asceso a primi gradi di Nobiltà civile [... e] subito desiderano accoppiarnosi con i nobili di piazze, o Seggi» (Historia, I, p. 126).
Il popolo, quindi, avrebbe dovuto proseguire nella sua storica funzione di governo, unendosi alle migliori forze del ceto aristocratico, com’era accaduto in occasione della resistenza vittoriosa contro i tentativi di introdurre l’Inquisizione spagnola nel 1510 e nel 1547: «Ma li peccati del Popolo son stati causa che s’è persa la stampa vera di quei buoni Cittadini zelosi dell’honor d’Iddio, pietosi della Patria, intrepidi al gouerno del Publico» (IV, p. 216).
A seguito di queste accuse rivolte sia al gruppo dirigente popolare, sia alla nobiltà feudale, sia alla monarchia aragonese della quale Filippo II celebrava invece la memoria, Summonte preferì non pubblicare l’ultima parte dell’opera piuttosto che autocensurarsi: «Le leggi della buona amicitia vogliono che alle volte facciamo contra il proprio volere, e desiderio; la onde se bene haueuo proposto di mandar fuori l’Historia Napoletana del tutto perfetta [...]; nulladimeno m’è stata forza a richiesta di amici, a’ quali non posso, né voglio venir meno di cacciare la prima, e seconda Parte, restando la terza, che contiene l’Historia de’ re Aragonesi fin a tempi presenti» (I, L’Avtore ai lettori).
Scriveva il suo biografo settecentesco che «Summonte, con la sua Storia a gravissima persecuzione si vide soggetto» per aver parlato «sinceramente» «delle antiche, e recenti gabelle» e per aver «assaissimo favoreggiata la cospicua, e distinta Assemblea popolare» (Di Cristoforo, 1748, pp. 26 s.). Per questi motivi fu accusato di aver istigato il popolo alla ribellione, arrestato subito dopo la pubblicazione del primo tomo, sottoposto a torture e costretto a riscriverlo. In effetti, la prima e la seconda parte dell’Historia furono pubblicate dal tipografo Giovan Giacomo Carlino, ma alcuni esemplari della stessa edizione del tomo I presentano una dedica e una data di pubblicazione diverse: Al Serenissimo principe il duca di Baviera, 1° aprile 1602; alla Nobilissima e Fedelissima città di Napoli e Signori Eletti di quella, 21 dicembre 1601. Quest’ultima rinvia per omogeneità di data e di idee a quella del tomo II dedicato a Giovan Francesco De Ponte, Marchese di Morcone, del Consiglio Supremo d’Italia di sua Maestà Cattolica e del Collaterale Stato del Regno di Napoli. La terza parte uscì postuma, quarant’anni dopo (nel 1640 il tomo III; nel 1643 il tomo IV). Tuttavia, non si ha riscontro della persecuzione patita dallo storico nei documenti indagati. Gli unici indizi sono costituiti dalle dediche anomale, dagli elementi deducibili dall’analisi testuale dell’opera e dall’epigrafe aggiunta sulla tomba del fratello notaio nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio quando vi furono deposte le spoglie di Summonte. Dal testo, in carattere minore rispetto a quello voluto per sé dal notaio, si evince che la vita dello storico era stata almeno poco serena: «Miser principio sine luce fvi / postea sine pace nvnc avtem / sine bello». La vicenda editoriale di tutta l’opera fu tormentata fin dal suo nascere.
In realtà la fortuna dell’Historia fu turbolenta anche dopo la seconda edizione del 1675 a opera dell’editore francese Antonio Bulifon. Essa fu inserita nell’Indice dei libri proibiti con l’accusa di monarcomachia il 21 aprile 1693 (Villari, 2000, p. 386). La terza e ultima edizione dell’opera fu pubblicata da Raffaele Gessari in sei volumi accompagnata dalla biografia nel 1748-1750.
Oltre alla Historia restano di Summonte un Manuale divinorum officiorum, quae juxta ritum Sacrosanctae Romanae Ecclesiae recitantur in omnibus solemnitatibus..., apud Io. Iacobum Carlinum, & Antonium Pace 1596, e un inedito Sommario et breve relatione delli Vescovi et Arcivescovi di Napoli, che sino a questo tempo et anno del 1598 et mese d’Aprile s’è possuto aver notitia. Raccolto dal molto virtuoso, et divoto Gio: Antonio Summonte Cittadino Napoletano, custodito nella Biblioteca nazionale di Napoli.
Morì a Napoli il 29 marzo 1602.
Opere. Edizioni dell’Historia: Historia della città e regno di Napoli, di Gio. Antonio Summonte Napolitano…, appresso Gio. Iacomo Carlino, Napoli 1601; Parte terza ove si descrivono le vite, e fatti de’ suoi re Aragonesi dall’anno 1442 fino all’anno 1500..., appresso Francesco Savio, Napoli 1640; Parte quarta ove si descrivono le vite, et i fatti del re Cattolico, dell’imperador Carlo V e del re Filippo II…, per Giacomo Gaffaro, Napoli 1643; Historia della città e regno di Napoli, I-IV, Napoli 1675 (2a ed. con varie aggiunte, a spese di Antonio Bulifon); Dell’Historia della città e regno di Napoli, II, Napoli 1693 (a spese di Giacomo Raillard per Novello de Bonis stampatore arcivescovile); Historia della città e regno di Napoli, I-VI, Napoli 1748-1750 (3a ed. con la vita dello storico scritta da Scipione Di Cristoforo, a spese di Raffaello Gessari nella stamperia di Domenico Vivenzio).
Fonti e Bibl.: Per le fonti v. l’indice contenuto in S. Di Franco, Alla ricerca di un’identità politica. G. A. S. e la patria napoletana, Milano 2012, http:// www.ledonline.it/ledonline/513-Summonte-patria-napoletana/513-Summonte-patria-napoletana.pdf (15 febbraio 2019).
T. Costo, Compendio dell’Istoria del Regno di Napoli, Venetia 1613; C. Celano, Notitie del bello, dell’antico, del curioso della città di Napoli, divise dall’autore in dieci giornate per guida e comodo de’ viaggiatori (1692), a cura di A. Mozzillo - A. Profeta - F.P. Macchia, III, Napoli 1970, pp. 1241 ss.; I.A. Ferrari, Apologia paradossica, Lecce 1707, ad ind.; S. Di Cristoforo, Vita di Giannantonio Summonte, Napoli 1748; M. Schipa, Contese sociali a Napoli nel Medio Evo, in Archivio storico per le province napoletane, XXXI (1906), pp. 395-427, 572-622, XXXII (1907), pp. 68-123, 314-377, 513-585, 757-797, XXXIII (1908), pp. 81-127; Id., Il popolo di Napoli dal 1495 al 1522, ibid., XXXIV (1909), pp. 292-318, 461-497, 672-706; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, poi a cura di G. Galasso, Milano 2005, ad ind.; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli 1585-1647, Roma-Bari 1967, 1980, pp. 108 ss.; G. Giarrizzo, Erudizione storiografica e conoscenza storica, in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso - R. Romeo, IX, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’Età Moderna, Napoli 1991, pp. 509-600; R. Ajello, Benedetto Croce e la storia ‘ideale’ nel regno di Napoli, in Archivio storico per le province napoletane, CX (1992), pp. 351-440; F. Divenuto, La Cronaca di Giovan Francesco Araldo e le ‘carte’ di G.A. S., in Centri e periferie del Barocco, II, Barocco napoletano. Atti del Convegno..., Napoli... 1987, a cura di G. Cantone, Roma 1992, pp. 89-113; R. Ajello, Il Problema storico del Mezzogiorno, l’anomalia socio-istituzionale napoletana dal Cinquecento al Settecento, Napoli 1994, ad ind.; G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino 1994, ad ind.; R. Ajello, Una società anomala, Napoli 1996, ad ind.; F. Divenuto, Napoli l’Europa e la Compagnia di Gesù nella «Cronica» di Giovan Francesco Araldo, Napoli 1998, ad ind.; G. Galasso, Napoli capitale. Identità politica e identità cittadina. Studi e ricerche 1266-1860, Napoli 1998, ad ind.; R. Villari, in L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto. Tavola rotonda nell’ambito della conferenza annuale della ricerca (Roma, 24-25 giugno 1999), Roma 2000, pp. 385-388; A. Musi, Forme della storiografia barocca, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno, Lecce... 2000, Roma 2002, pp. 457-478; R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari 2003, ad ind.; S. Di Franco, G. A. S., linee per una biografia, in Archivio storico per le province napoletane, CXXII (2004), pp. 67-165; S. Di Franco, G. A. S.: modelli dell’antico nei sistemi di classificazione sociale, in Uso e reinvenzione dell’antico nella politica di età moderna (secoli XVI-XIX), Manduria-Roma-Bari 2006, pp. 163-180; Id., La monarchia, il popolo e la morte dell’eletto Starace (1585), in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche, CXXVII (2006), pp. 183-206; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, II, Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), Torino 2006, ad ind.; S. Di Franco, Da Collenuccio a Summonte: la nobiltà del Regno di Napoli nella pubblicistica del Cinquecento, in Baroni e vassalli. Storie moderne, Milano 2011, pp. 291-310; R. Villari, Un sogno di libertà, Milano 2012, ad indicem.