VENERONI, Giovanni Antonio
– Nacque a Pavia da Giovanni Battista tra il 1683 e il 1686 (Zatti, 1989, p. 120); il nome della madre risulta sconosciuto.
Dopo aver compiuto un periodo di apprendistato di sette anni presso Giuseppe Quadrio a Milano, nel 1707 superò l’esame per diventare «ingegnere ed architetto della Regia Camera di Milano» (Archivio di Stato di Milano, d’ora in poi ASMi, Uffici regi, parte antica, Ingegneri camerali, cart. 748).
Nel corso della sua carriera, che si svolse quasi interamente nella città natale, alternò l’attività di progettista a quella di perito e agrimensore, soprattutto alle dipendenze del collegio Borromeo di Pavia (Colombo, 1963, p. 189; Zatti, 1989, pp. 120 s.). Numerosi sono anche le indicazioni documentarie relative a stime, perizie, consulenze su questioni diverse, dalle rettifiche viarie alle controversie di vicinato, alle valutazioni di immobili, per privati e per enti religiosi, dai domenicani di S. Tommaso ai canonici lateranensi e agostiniani di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia. In particolare, nei lavori di riforma del coro di quest’ultima chiesa Veneroni fornì prestazioni di consulente e collaudatore dei marmi (Zatti, 1989, p. 123). Dal 1723 al 1745 egli accolse praticanti ai fini dell’ammissione alla professione di ingegnere, architetto e agrimensore; tra i numerosi aspiranti ricorre il nome del figlio Giulio Francesco, abilitato nel settembre del 1729 (Pavia, Archivio storico del Comune, d’ora in poi ASCPv, Ingegneri, cart. 463).
L’attività di Veneroni come progettista incluse nel 1716 la riqualificazione e l’ampliamento di una casa di proprietà di Giovanni Pietro Folperti in vicolo del Senatore, lavoro rimasto incompiuto (Zatti, 1989, pp. 123 s.). Al periodo compreso tra il 1726 e il 1733 risale la ricostruzione di palazzo Mezzabarba, che è l’opera più nota e studiata dell’architetto pavese, presto entrata nella storiografia dedicata all’architettura tardobarocca in Italia (Arslan, 1944, p. 87; Thoenes, 1956, pp. 185-188; Wittkower, 1958, trad. it. 1993; Colombo, 1963, pp. 191 s.; Grassi, 1966, pp. 451-455). La committenza si individua nei due fratelli Giuseppe e Girolamo Mezzabarba, mentre a Carlo Ambrogio, patriarca d’Alessandria, delegato pontificio in Cina e dal 1725 vescovo di Lodi, si deve attribuire la fondazione dell’annesso oratorio dedicato ai Ss. Quirico e Giulitta (Zatti, 1989, p. 125). Nella progettazione dell’edificio, Veneroni optò per la realizzazione di una facciata di grande impatto scenografico, con due portali, dei quali solo uno reale, rivolti su una piazza dalla forma irregolare conclusa dal prospetto della cappella, animato da due piccoli campanili gemelli. Christof Thoenes (1956) ha avanzato l’ipotesi che l’organismo planimetrico del palazzo dovesse essere originariamente impostato su due cortili simmetrici divisi da un corpo di fabbrica perpendicolare alla facciata, ospitante lo scalone e la galleria, quest’ultima ancora visibile in una stampa della fine del XVIII secolo (ASCPv, Ingegneri, cart. 592, ingegner Michele Verga, 1790), e oggi suddivisa in vani di minore cubatura.
Veneroni dimostra un aggiornamento sul dibattito architettonico del primo Settecento, dalle proposte milanesi di Giovanni Ruggeri in palazzo Cusani a quelle romane di Gabriele Valvassori in Palazzo Doria-Pamphilj, di poco posteriore, un aggiornamento leggibile sia nell’articolazione della pianta sia nell’elaborato apparato decorativo, nonché infine nella scenografica sequenza di atrio-cortile-atrio-scalone. Tutto il complesso Mezzabarba rivela nell’autore un’articolata sensibilità architettonica, che lo ha condotto dall’esuberante plasticismo della facciata della dimora alla raffinata composizione di volumi e cornici di quella della piccola chiesetta, perfettamente valutabile nella contiguità dei due prospetti.
Nello stesso torno d’anni, Veneroni progettò la facciata della chiesa di S. Marco (o S. Francesco di Paola) sulla piazza del collegio Ghislieri, su incarico dei frati minimi, dove mise in opera una rilettura della lezione delle facciate concavo-convesse borrominiane mediata dall’esperienza milanese del romano Marco Bianchi, autore della chiesa milanese dello stesso ordine religioso e collaudatore nel 1735 della facciata pavese (Tolomelli, 2017). Sul finire degli anni Venti ricevette inoltre incarichi da parte della municipalità di Pavia per sopraintendere a lavori di manutenzione della torre civica a fianco del duomo e, in quest’ultimo, della nuova lanterna con cupolino che doveva dare luce al sacello delle Sante Spine. Nello stesso periodo numerosi furono anche i progetti per cappelle e arredi sacri in chiese della città e del circondario, ora in parte dispersi (Zatti, 1989, pp. 128 s.).
Completata nel 1732 la facciata di palazzo Mezzabarba e congedati nel 1735 i disegni per il castello dei Belcredi a Montalto sulle colline dell’Oltrepò (Grassi, 1966, pp. 463 s.), nel 1738-44 Veneroni tornò a lavorare per il terzo fratello Mezzabarba, il vescovo Carlo Ambrogio, che gli commissionò l’integrale rifacimento del palazzo vescovile di Lodi, rimasto incompiuto, ma di cui sopravvivono disegni (pp. 447 s.); questi ultimi richiamano, soprattutto nell’articolazione aggraziata ma rigorosa, priva di eccessi esornativi, i progetti per le fronti esterne del collegio Ghislieri di Pavia, di poco successivi (1740-45; Angelini, 2017).
Nel palazzo lodigiano e nel collegio pavese, Veneroni rinuncia all’impiego dell’ordine architettonico, ancora utilizzato in palazzo Mezzabarba con misura gigante, a vantaggio di un sistema di incorniciature atto a raccordare su assi verticali l’allineamento delle aperture con funzione di scansione ritmica.
Il quarto decennio del secolo offrì a Veneroni occasione di cimentarsi nuovamente con il tema della pianta centralizzata in un edificio di culto, dopo l’esperienza dell’oratorio Mezzabarba, allorché intorno al 1737 elaborò un disegno per la nuova chiesa parrocchiale di S. Genesio nella località omonima (Zatti, 1989, p. 132).
Il progetto, non attuato, prevedeva un’aula quadrata con angoli scantonati e grandi conche semicircolari; il profilo delle murature descriveva linee concave e convesse senza soluzione di continuità, fluidamente collegate, cui facevano da contrappunto in facciata le linee spezzate della scalinata, che conduceva all’edicola d’ingresso su colonne libere.
La riflessione di Veneroni sull’articolazione dell’aula ecclesiale proseguì a Lodi nel progetto per la chiesa di S. Filippo Neri a partire dal 1740-41 (Beltrami, 2006), mentre è ancora in attesa di conferme l’attribuzione all’architetto della chiesa di S. Maria Maddalena nella stessa città (Grassi, 1966, pp. 469-471), caratterizzata da un’ariosità spaziale insolita nella cultura architettonica lombarda, ma in certa misura avvertita di quanto proposto prima a Torino da Guarino Guarini nella chiesa dell’Immacolata Concezione (1675-77) e poi a Milano da Marco Bianchi nella navata di S. Francesco di Paola (1728-35).
Nel 1740 Veneroni venne cooptato nei lavori di restauro del palazzo dell’università (ASMi, Studi, parte antica, cart. 443) e della basilica di S. Lanfranco a Pavia (ASMi, Religione, cart. 5347), nonché nei progetti di riformulazione della chiesa dei Ss. Nabore e Felice di Stradella (Zatti, 1989, pp. 135 s.); solo quest’ultimo venne realizzato, anche se l’edificio venne poi distrutto e ricostruito in forme neoclassiche.
Veneroni morì a Broni il 18 aprile 1749 (Forni, 1989).
Molti edifici settecenteschi gli sono stati attribuiti a Pavia sulla scorta di tradizioni non sempre suffragate da documenti o da evidenze stilistiche, come la facciata del palazzo Langosco Orlandi, l’oratorio della cascina Scala, il campanile del duomo (Grassi, 1966, p. 445; Zatti, 1989, passim).
Veneroni lasciò due figli attivi nel campo dell’arte e dell’architettura. Il primogenito Giulio Francesco, ingegnere, ereditò nel 1749 dal padre l’archivio professionale, i libri e gli strumenti matematici (Forni, 1989), e fu introdotto nell’amministrazione dei beni del collegio Borromeo di Pavia (Colombo, 1963, p. 190). L’altro figlio, Giuseppe, nato presumibilmente nel 1725, cercò carriera come decoratore e impresario edile in Russia, dove entrò nell’atelier di Bartolomeo Rastrelli, di cui sposò una figlia (Zatti, 1995); rientrato in patria, nel 1768 dipinse la finta cupola del duomo di Pavia e disegnò la serie di monumenti pavesi, incisa da Giovanni Ramis tra il 1763 e il 1780 (Forni, 2001).
Veneroni fu architetto sensibile a diverse sollecitazioni esterne, nella fattispecie romane più che piemontesi (per riprendere l’assunto ancor valido formulato da Wart Arslan nel 1944), che egli impiantò su una solida formazione lombarda, con esiti a tratti complessi ma non sempre pienamente risolti. Così ebbe a scrivere Thoenes (1956) in relazione a palazzo Mezzabarba: «la formazione interna del palazzo, malgrado l’originale tipo di pianta, dimostra una certa mancanza di propria fantasia spaziale, ed atri e scala, sebbene ampi e grandiosi, sono eseguiti con mezzi completamente tradizionali» (p. 188). Sul fronte della decorazione, a partire dai primi anni Trenta del Settecento si convertì a una misura più sobria e calibrata, soprattutto nella scelta di abbandonare l’ordine architettonico sulle fronti esterne degli edifici civili e di dare coesione alle piatte membrature che incorniciano le aperture e scandiscono i piani. Ancora indietro è l’indagine sulle architetture religiose, di cui rimangono prevalentemente disegni non attuati (S. Genesio) o attribuzioni in attesa di conferme (S. Maria Maddalena a Lodi). Per quanto attiene alla facciata di S. Marco di Pavia, Veneroni propose una versione più semplice del prototipo milanese di S. Francesco di Paola, riducendo il numero delle paraste a sottolineare gli elementi in spigolo e inquadrando il settore centrale, concavo-convesso, con ali rettilinee, così come rettilineo è il profilo del timpano superiore; ovvero, come scrisse Silvano Colombo (1963), con «movenze [...] frenate ai lati» (p. 187).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Uffici regi, parte antica, Ingegneri camerali, cart. 748; Studi, parte antica, cart. 443; Religione, cart. 5347; Pavia, Archivio storico del Comune. Parte antica, Ingegneri, cartt. 463 e 592.
E. Arslan, Per l’architettura lombarda del primo Settecento, in Bollettino storico pavese, VII (1944), pp. 83-94; C. Thoenes, Un architetto pavese del Settecento, in Atti dell’VIII Convegno nazionale di storia dell’architettura, Caserta... 1953, Roma 1956, pp. 179-192; R. Wittkower, Art and architecture in Italy, 1600-1750, New York 1958 (trad. it. Torino 1993, pp. 166, 319, 345); S. Colombo, Contributo per G.A. V., architetto, in Commentari, n.s., XIV (1963), pp. 186-203; L. Grassi, Province del barocco e del rococò, Milano 1966, pp. 443-477; M. Forni, Cultura e residenza aristocratica a Pavia tra ’600 e ’700, Milano 1989, p. 152; S. Zatti, Novità per G.A. V. architetto pavese del Settecento, in Bollettino della Società pavese di storia patria, n.s., XLI (1989), pp. 119-137; Ead., Considerazioni sui quadraturisti, pittori prospettici e scenografi a Pavia in età barocchetta, in Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel Settecento. Studi in onore di Rossana Bossaglia, Bergamo 1995, p. 311; M. Forni, I monumenti pavesi nelle vedute disegnate da Giuseppe Veneroni e incise da Giovanni Ramis, in Museo in rivista, 2001, n. 2, pp. 60 s.; A. Beltrami, G.A. V. e il complesso di San Filippo Neri a Lodi, in Archivio storico lodigiano, CXXV (2006), pp. 25-86; G. Angelini, Il Collegio Ghislieri di Pavia 1567-2017. Il complesso monumentale tra XVI e XXI secolo, Milano 2017, pp. 60 s., tavv. 242-244; D. Tolomelli, Marco Bianchi, G.A. V. e il tema della facciata di chiesa ad andamento concavo-convesso tra Milano e Pavia all’inizio del Settecento, in Le arti nella Lombardia asburgica durante il Settecento. Novità ed aperture, Atti del Convegno di studi... 2014, a cura di E. Bianchi - A. Rovetta - A. Squizzato, Milano 2017, pp. 197-205.