BAGLIONE, Giovanni
Nacque a Roma intorno al 1573 da Tommaso, fiorentino, e da Tommasa Grampi, romana. Dopo due anni non individuabili passati presso il fiorentino Francesco Morelli, noto solo per essere citato dal B. nell'autobiografia, la prima educazione del pittore quindicenne si svolge nell'ambiente favorito dal mecenatismo di Sisto V. Nel 1589 egli affresca, nel salone della Biblioteca Vaticana - direttori dei lavori di decorazione Cesare Nebbia e Giovanni Guerra da Modena - Tarquinio che compra i libri sibillini, la figura allegorica della Pazienza e i due riquadri della Biblioteca di Babilonia, opere strettamente connesse al documentato Ritrovamento di Mosè dello stesso anno, alla Scala Santa, nonché ad altre scene nello stesso luogo e nel Palazzo Lateranense, di recente identificate: su un fondamento di manierismo di stampo darpinesco e roncalliano agiscono elementi di discendenza emiliana e baroccesca mediata attraverso Andrea Lilio, e i senesi Vanni e Salimbeni, il tutto espresso in una ricerca di tipizzazione delle figure, nella costruzione delle immagini mediante piani sfaccettati e vibranti di colore: caratteri che ritroviamo anche nelle rovinatissime Storie di certosini dipinte nell'atrio della chiesa di S. Martino a Napoli - dove il B. si era recato per cambiar aria dopo una malattia - del 1590 circa. Nelle Storie di Maria (1598-99) nel coro di S. Maria dell'Orto a Roma, e ancor più nel S. Filippo e nell'Offerta dei vasi d'oro fatta da Costantino a papa Silvestro (1600), nel transetto di S. Giovanni in Laterano, il B. tende a superare la cultura manieristica, i cui elementi tuttavia sono ancora evidenti, in senso incertamente naturalistico. Tale coerenza di percorso cede però alla sconvolgente influenza del Caravaggio e porta il B. a un'adesione al Merisi tanto immediata quanto, in realtà, esteriore, vera e propria infatuazione momentanea, fatto riflesso, traduzione pesante del naturalismo e del luminismo in realismo volgare e in teatrali effetti di contrasto. Fatto che tuttavia, nel breve giro di anni da circoscrivere al 1600-1603, porta il B. alle sue più felici operazioni di pittura: dai nobilissimi SS. Pietro e Paolo in S. Cecilia in Trastevere (1601), al S.Andrea della stessa chiesa (1603), scoperta desunzione dalla seconda redazione del S.Matteo diCaravaggio per la cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi, a quella clamorosa interpretazione che è L'Amor divino che abbatte il terreno, dipinto per il card. Giustiniani e noto in tre versioni: agli Staatliche Museen, Berlin Dahlem, in una replica della Galleria Nazionale di Roma (distrutta nella seconda guerra mondiale presso l'ambasciata d'Italia a Berlino) e in una tela reperita di recente in collezione privata romana. Ancora - e il B. sale a un livello né mai prima né più dopo raggiunto - di aperto caravaggismo risente il S.Francesco in estasi (1601, già Borghese, ora in collez. privata); concludeva questa fase la Resurrezione del 1603, dipinta per i gesuiti (se ne può forse avere un'idea da un bozzetto in collez. privata parigina), dipinto che provocò versi di irrisione e ingiuria nei confronti dell'artista, da cui una querela per diffamazione da lui sporta, il 28 ag. 1603, contro il Caravaggio, Orazio Gentileschi Onorio Longhi e Filippo Trisegni, un conseguente processo durato fino al 25 settembre, e, fatto determinante, il definitivo distacco dal caravaggismo e l'avvio alla "maniera propria", a una fase assai intensa quantitativamente, ma sempre più debole qualitativamente, salvo rare e sporadiche eccezioni. Di tono banalmente devozionale sono i tre quadri, della fine del 1603, nel convento di S. Cecilia in Trastevere (I cinque santi protettori della chiesa; La Madonna e s. Caterina; La Madonna e s. Agnese) e quello della Pinacoteca Vaticana con La Madonna e le sante Agnese e Cecilia, del 1604, laddove fa in certo modo eccezione, per maggiore intensità, il S.Carlo che venera la Madonna dell'Arcivescovato di Viterbo. Di gran momento nella carriera pittorica "ufficiale" del B. dovette essere la Resurrezione di Tabita in S. Pietro (che ci è nota solo attraverso una copia settecentesca in S. Maria degli Angeli), del 1607, se valse al pittore l'altissimo riconoscimento del Cavalierato di Cristo.
Col procedere del tempo, le opere del B. divengono sempre più disordinatamente eclettiche, tra ricordi manieristici, sporadici reflussi di caravaggismo e toni retorici che già sembrano avvicinare il pittore, anche qui con fraintendimenti, al barocco: di questo percorso declinante sono tappe principali, tra i molti dipinti, la Giuditta della Galleria Borghese (1608), le tele con Storie di Maria in S. Maria di Loreto a Spoleto (1608-1609), nonché gli affreschi della Cappella Paolina in S. Maria Maggiore, del 1611-1612, importante incarico affidatogli da Paolo V: nelle tre scene con Punizioni di eretici sull'arcone d'ingresso lo stile, uniformandosi all'ufficialità controriformistica dei soggetti, segna il ritorno a un manierismo aulico molto sfruttato, mentre nella volticina davanti la cappella, pur nella spartizione e negli ornati tradizionali, non manca, nei riquadri, qualche contatto con i nuovi impianti compositivi di origine carraccesca; infine un'inflessione baroccheggiante-accademica, con evidenti ricordi reniani, caratterizza la decorazione del sacello di S. Francesca Romana, a sinistra nella stessa cappella Borghese. Ed ecco ancora il B. stimolato in certo modo dal Reni, ma per cercare di risalire verso i più eletti testi del Cinquecento a ricercare una limpida classicità senza tempo, nel Rinaldo e Armida affrescato per Scipione Borghese nel palazzo di Monte Cavallo, ora Pallavicini-Rospigliosi, al principio del 1614, opera anch'essa affastellata, piena di fraintendimenti, vera trasposizione delle antiche favole pagane in brano di poesia dialettale.
Così, variamente riproponendosi gli elementi della complessa multiforme cultura del pittore, si avvicendano opere quali il S. Carlo in gloria di Todi (chiesa del Crocifisso) del 1616, i Tre santi in S. Bernardino ai Monti a Roma, del 1617, le dieci tele con Apollo e Le Muse (Museo di Arras, in dep. dal Louvre) dipinte a Mantova (1621-1623) per Ferdinando Gonzaga il quale - compiaciuto per una prima serie di analogo soggetto dipinta per lui dal B. a Roma, nel 1620 - ne volle una seconda stesura per inviarla a Maria de' Medici.
Tono più alto, in una felice ripresa degli elementi migliori, parlano le tele della prima cappella a sinistra della romana chiesa dell'Orto, già teatro della prima attività del B.: notevole sull'altare il S. Sebastiano curato dagli angeli (del 1624, come si desume da un disegno preparatorio conservato al Louvre) che porta su un impianto carraccesco generici riferimenti formali al Caravaggio ed una qualità di colore neo-veneziana, derivata probabilmente dal Feti, certo dal B. studiato durante il recente soggiorno mantovano. Ancora da citare, nella susseguente produzione, costellata di opere di assai scarso valore, qualche dipinto di maggior rilievo come quelli nella cappella della "Universitas Affidatorum" in S. Maria della Consolazione a Roma, del 1630 circa, tra i più bei saggi della tarda carriera del B., nuova testimonianza della sua cultura composita, dove in particolare si avvertono tratti di ascendenza napoletana; inoltre il S. Sebastiano ai SS. Quattro Coronati in Roma, del 1632 circa, altro ricordo involgarito dei vari momenti della attività pittorica precedente, il S.Stefano lapidato (1638 circa) del duomo di Perugia, chiaramente baglionesco nell'impostazione e nella tipologia dei personaggi, le tele e gli affreschi nella cappella gentilizia del pittore ai SS. Cosma e Damiano a Roma, del 1630-38, enfatici e retorici, ma dai quali trapela ancora un'ultima eco del caravaggismo cui il B. era - suo malgrado - ancora in qualche modo legato. Infine l'estrema involuzione del pittore può essere riscontrata, tra l'altro, nella cappella di S. Carlo alla Madonna dell'Orto (1641), ove si ripetono stancamente, in un insieme stentato, modi sfruttati e ormai esauriti. La situazione tarda del B. si pone, di fronte al gusto barocco ormai trionfante, così come si era posta nei confronti del caravaggismo al principio del secolo: tentativo di adeguamento e travisamento di valori.
Il B. morì a Roma nel 1644.
Più interessanti, in questi suoi ultimi anni, i contributi portati dal B. nel campo della storiografia artistica con i suoi scritti: Le Nove chiese di Roma... Nelle quali si contengono le historie - pitture - scolture - architetture di esse, Roma 1639; Le Vite de' pittori, scultori, et architetti. Dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, ibid. 1642.
Nel dedicare la prima al card. Francesco Barberini, il B. scrive: "Il mio pennello, Eminentissimo Principe, ho (per così dire) convertito in penna". L'opera storiografica del B. nasce infatti dallo stesso atteggiamento psicologico che informa la sua opera pittorica: atteggiamento erudito, eclettico, non propriamente critico. Egli rispecchia, in sostanza, la tendenza ufficiale ed accademica, del gusto contemporaneo, al di fuori dei fatti reali e vivi dell'arte. Al di fuori, ma perciò stesso in grado di accoglierli tutti, ponendoli tutti sullo stesso piano, onde l'accusa della mancanza di "scelta" che gli rivolge il Bellori.
Le Nove chiese è una guida di alcuni monumenti sacri, che segna un notevole passo avanti rispetto alla precedente o coeva produzione del genere: del resto già il titolo denuncia un vasto programma, volendo il B. trattare di "historie, pitture, scolture, architetture". E al compito egli assolve: infatti oltre alla grande quantità di notizie, colpisce la scrupolosa esattezza nella trattazione di ogni particolare, anche di oggetti di piccola entità, il riferimento ai vari rimaneggiamenti e ricostruzioni di ogni chiesa trattata, l'abbondanza di dati cronologici, il risalire con metodo, e talvolta cavillosamente, alle origini, alla fondazione delle chíese, citando il nome degli arcipreti preposti a ognuna di esse, o degli Ordini religiosi di esse custodi. Inoltre il B., quando non èperfettamente sicuro di notizie che non ha potuto riscontrare, o comunque incerte, restringe con un "si dice", "dicono", denotando anche in questo il suo amor di precisione. Questa èquindi la prima guida che, nella sua stessa intelaiatura, risulti veramente controllata, precisa, esauriente.
Pur volendo mantenere un'assoluta imparzialità, quale il tipo di trattazione comporta, ecco già il B., in certo qual modo, affacciare un giudizio - anche se non si può parlare di criteri qualitativi - quando accompagna con aggettivi encomíastici la descrizione delle fabbriche e delle opere d'arte. Talvolta anzi affiora, nella sua trattazione, qualche tentativo di giudizio pseudostorico, stabilendo una relazione tra l'opera d'arte e il suo tempo di esecuzione. Impostazioni di giudizio che ricollegano il B. alla tradizione vasariana, di quel Vasari del quale, con vanagloria, egli si annuncerà continuatore. Così l'"io" dell'autore traspare ovunque: dalla dedica agli accenni a una "virtù" (null'altro se non la consapevolezza del proprio valore) bramosa di protezione e di riconoscimenti ("brama la virtù come il ricovero, così l'honore").
Il libro termina peraltro senza alcuna conclusione, che pur si aspetterebbe, se non ad ogni trattazione delle singole chiese, almeno di carattere generale, relativa a tutta l'opera. Comunque, indipendentemente da ogni difetto di valore critico o letterario, per lo scrupolo con cui sono condotte, Le Nove chiese di Roma restano una fonte preziosa per l'attendibilità delle notizie.
L'altra opera letteraria del B., Le Vite dei pittori, scultori, et architetti, consente un parallelo anche più evidente con la sua opera pittorica. Infatti, come la sua pittura si riduce, dopo gli inizi piuttosto brillanti, a un centone di motivi raccozzati insieme con scarso discernimento, così la sua trattazione degli artisti è, in fondo, un repertorio di notizie e di lodi indiscriminate per tutti, senza alcuna graduazione di valori, onde ugual rilievo viene dato alle personalità veramente eminenti e alle più mediocri. Se, oltre gli elogi generici e indifferenziati, qualche spunto di giudizio sembra affiorare in alcuni passi dell'opera, essi in realtà sono per lo più dettati non da presupposti di ordine teoretico ma da ragioni pratiche: risentimenti personali, come per la svalutazione di alcuni caravaggeschi o per il deprezzamento dell'opera di Gaspare Celio suo rivale, o, al contrario, in molti casi, amicizia e convenienza. Tuttavia, nonostante la mancanza di un definito orientamento critico, anche questo scritto assume eccezionale valore documentario per la ricchezza e precisione delle notizie. Un esame obiettivo dell'opera conferma l'asserzione del Longhi (1930) che ne vedeva un embrione ne Le Nove chiese: infatti, nonostante l'intelaiatura diversa - ché qui il B. procede, come dice il tìtolo, per biografie di artisti - la concezione è la stessa e le Vite sono, in definitiva, una vera guida di Roma, nella successione cronologica degli artisti attivi nella città dai tempi di Gregorio XIII a quelli di Urbano VIII.
Proprio nell'organizzazione stessa del libro entro confini precostituiti, troppo rigidi, risiedono i limiti dell'opera: nuoce, ad esempio, per la conoscenza del percorso degli artisti, l'aver citato la loro sola produzione romana, così come troppo categorica appare la divisione cronologica - secondo la morte degli artisti, sotto i pontificati di cinque successivi papi mecenati - tradotta esteriormente in cinque "giornate".
Le fonti alle quali attinge il B. sono fonti orali, tratte o dalla tradizione viva relativa ad artisti ancora molto vicini nel tempo, o addirittura dalla frequentazione con artisti viventi: di qui la grande freschezza delle notizie, e quindi la loro attendibilità.
Interessante è già l'esordio dell'opera dedícata al cardinal Girolamo Colonna, la prefazione "al Virtuoso lettore" nella quale il B. dichiara il suo intento: continuare, completare le biografie del Vasarì e del Borghini. Se per completamento è da intendere una continuazione cronologica delle Vite vasariane (1568) e del Riposo del Borghini (1584), il B. ha pienamente assolto al suo compito, ma se si deve invece intendere tale completamento in senso qualitativo, allora - per quanto accurate - le biografie "prammatiche" del B. non reggono al confronto con le biografie "ideali" del Vasari. Comunque, data l'aderenza ai fatti e l'estrema precisione di dati, almeno alla "chiarezza di verità" enunciata nella sua dichiarazione il B. ha pienamente risposto. Inoltre, se manca nella impostazione generale dell'opera un preciso fondamento di idee, non mancano tuttavia talvolta indicazioni di preferenze di gusto, ad esempio per la pittura di paesaggio dei Brill o dei Carracci, artisti, questi ultimi, che il B. vede artefici della resurrezione della pittura, ma dei quali limita l'arte nel darne un'interpretazione puramente eclettica; o in senso opposto per la svalutazione del Caravaggio, al cui fraintendimento concorrono però soprattutto le questioni personali intercorse tra il B. e il maestro lombardo. Come, anche, egli si mostra capace di intendere l'architettura, quando per esempio loda il Vignola applicatosi alle "bellissime e felicissime regole" della prospettiva, o di apprezzare la scultura che "riduce le forme de' corpi all'Idea dell'artefice conformi". Così, egli nota il fiorire in Roma de "lo studio delle memorie di pietre, de' bassorilievi, e delle statue antiche..." e del restauro delle sculture stesse. Non mancano cognizioni tecniche, come quando cita l'innalzamento della cupola di S. Pietro rifacendosi ad esempi tratti da monumenti antichi, o quando biasima la pittura a olio su muro perché più deperibile dell'affresco.
Di contro a questi lati positivi, disturbano nell'opera del B. il suo fare sentenzioso, i frequenti sforzi di trita erudizione, la pretenziosa consapevolezza di sé che traspare soprattutto dal tono della autobiografia posta alla fine del libro.
Anche se nella sua essenza l'opera non corrisponde a pieno alla moderna esigenza di una storia di valori attenta alla "qualità" più che alla "quantità" delle manifestazioni artistiche, pure, nei particolari, il libro del B. resta una delle maggiori opere storiografiche del Seicento. Non proponendosi il B. che quello che in realtà ha dato, e cioè notizie circostanziate circa gli artisti operosi in un settantennio, il valore indubbio dell'opera risiede nell'attendibilità e nell'abbondanza delle notizie tramandate, verace specchio del farsi dell'arte nella delicata congiuntura di trapasso tra il Cinque e il Seicento, dove hanno luogo con i protagonisti anche gli artisti minori altrimenti condannati a cadere in dimenticanza, tra i quali, probabilmente, il B. stesso.
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