ANGIOLETTI, Giovanni Battista
Nacque a Milano il 27 nov. 1896 da Emilio e da Giannina Camola, da una famiglia della media borghesia cittadina; dopo "un'infanzia spaventosamente malinconica", come racconta nel profilo autobiografico (Ritratti sumisura…, pp. 16-18), si iscrisse al politecnico frequentando i corsi di ingegneria, che abbandonò tuttavia ben presto, quando fu richiamato nel 1915 come ufficiale di artiglieria; a soli diciassette anni, nel 194, aveva fondato il suo primo settimanale La TerzaItalia, di deciso orientamento interventista e nazionalista. Durante la guerra fu ferito due volte e fu decorato con una medaglia di bronzo; congedatosi, riprese l'attività pubblicistica, fondando e dirigendo la sua prima rivista letteraria, Il Trifalco (1920-22), collaborando al periodico La Scure di Piacenza, di cui divenne anche per un breve periodo condirettore nel 1923; e ancora collaborò a L'Esame diretto da Enrico Somaré (una rivista che si collocava sulla scia della Ronda), al Convegno, e ad altre riviste ancora. Sono di questi anni i suoi primi libri: La terra e l'avvenire (Piacenza 1923) che contiene per la maggior parte scritti già apparsi su riviste e giornali, descrizioni e notazioni di ambienti, paesi e costumi europei e lombardi, a cui seguì nel 1927 Il giorno delgiudizio (Torino) che, come indica chiaramente il sottotitolo, Miti e fantasie, contiene racconti, divagazioni, ricordi, tesi ad esprimere quella "aura poetica" o "prosa evocativa" che l'A. in quegli anni propugnava, anche con forte carica polemica nei confronti della letteratura corrente. Per questo libro l'A. ricevette il premio Bagutta del 1927, come riconoscimento immediato di un orientamento di gusto e di tendenza che si apprezzava sopratutto per la sua novità e modernità.
Si tratta di sette prose, di cui una fu particolarmente apprezzata, La fuga del leone, come esempio di una scrittura severa e impegnata, sostanziata di una forte tensione evocativa, allegorica che rende tuttavia, a volte, la pagina eccessivamente carica. Ma l'elemento distintivo di questo libro era senza dubbio la scelta di una prosa "evocativa", anziché narrativa, nonché di una scrittura risolta interamente nella ricerca stilistica intelligente e raffinata.
Nella prefazione all'antologia di E. Falqui ed E. Vittorini, Scrittori nuovi (Lanciano 1930), che si presentava come il manifesto della letteratura nuova, l'A. scriveva: "Gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione che, per essere stata silenziosa, non sarà meno memorabile, intendono essere soprattutto artisti laddove i loro predecessori si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologi, edonisti …" (p. V).
Questa idea della scrittura come fatto di "puro stile", affermata con forza in questi anni, sia sul terreno critico sia su quello artistico, rimase una costante della sua concezione della letteratura, accanto alla intonazione europeista. La stagione della prosa d'arte, che segnò alcuni decenni della nostra letteratura novecentesca, era iniziata pienamente con questa affermazione e rivendicazione della prosa, innanzitutto come genere che non si identifica e non si risolve nella narrativa e anzi si colloca accanto e assieme alla produzione in versi, concorrendo con analoghi strumenti alla "poesia"; è lo stile, infatti, che avvicina i due generi tradizionalmente distinti, come qualificazione per eccellenza di un esercizio di scrittura che è allo stesso tempo esercizio morale e spirituale.
Nel 1938 Falqui, costruendo un'antologia di prosatori d'arte, tra i quali incluse naturalmente l'A. (pp. 409-422), le dava il titolo di Capitoli. Per una storia della nostra prosa d'arte (Milano), intendendo raccogliere sotto questa denominazione le diverse forme di prosa apparse in quegli anni ("dal poemetto in prosa all'elzeviro, attraverso il saggio, il capriccio, lo scherzo, la fantasia, l'idillio, il sogno, la favola, eccetera", p. XIV), riconducibili tutte alla forma accomunante della "prosa d'arte", in collegamento esplicito con l'antologia Scrittori nuovi di otto anni prima. L'attività dell'A. in questi anni si concentrò su questa prospettiva, principalmente attraverso le recensioni, gli articoli e gli interventi su giornali e riviste. Anche lo stile del giornalismo culturale era improntato, del resto, a una decisa novità di scrittura, in sintonia con la prosa d'arte, identificandosi con la forma dell'elzeviro, di cui l'A. fu considerato uno dei più fecondi e felici cultori.
Tra i collaboratori della Fiera letteraria di U. Fracchia fin dal primo numero (13 dic. 1925), l'A. si occupò essenzialmente di letteratura inglese e francese contemporanea, nella direzione esplicita e consapevolmente espressa di una necessità di allargamento dell'orizzonte letterario italiano alle correnti, agli autori e alle tendenze europee più vive. Questo stesso indirizzo fu accentuato quando nel 1929, assunse insieme con Curzio Malaparte la direzione della rivista, trasformandone il titolo in L'Italia letteraria e trasferendo la redazione da Milano a Roma.
La nuova rivista divenne il punto di riferimento della battaglia che un nutrito gruppo di intellettuali conduceva, riprendendo la linea neoclassica della Ronda, per imporre un'arte nuova, intesa come "puro stile" contro i cosiddetti contenutisti. Ricordando questo periodo l'A. scrisse: "In realtà le mie battaglie si svolsero quasi tutte sul terreno letterario; specie durante la lunga contesa tra i calligrafi e i contenutisti (e io, a torto o a ragione, ero considerato come un capofila dei primi)" (Ritratti su misura…, p. 17). Tuttavia era chiaro già allora che alle ragioni letterarie si accompagnavano ragioni di altra natura, ideologiche, culturali e politiche, benché in modo tutt'altro che lineare e univoco; solo nel decennio successivo questo intreccio di motivi, di tendenze e di propositi si sarebbe decantato con il prevalere netto ed egemone del neorealismo, che tuttavia non arrivò mai a schiacciare gli eredi del "calligrafismo" degli anni Venti e Trenta.
Nella concezione artistica e morale dell'A. la battaglia per l'"aura poetica" (è il titolo di un suo importante articolo sull'Italialetteraria, 7 luglio 1929, p. 1) Si coniuga perfettamente con il convincimento che "una letteratura europea esiste e che soltanto contingenze politiche e sociali le impediscono di apparire legata ed omogenea", perché si trattava sostanzialmente di rivitalizzare "una tradizione di unità spirituale" incarnata nelle figure dei grandi scrittori e pensatori europei che l'A. riproponeva come riferimenti e modelli. Queste considerazioni sono contenute nella prefazione (pp. 7-13) dell'A. al suo terzo libro Scrittori d'Europa. Critiche e polemiche (Milano 1928), una raccolta di articoli e recensioni pubblicate tra il '22 e il '27, che è presentato dall'A. come "un libello tendenzioso sullo spirito europeo" (p. 12). Ancora più decisamente tutti i motivi dell'A. di questi anni si ritrovano nel volume Servizio di guardia (Lanciano 1932), in cui compaiono molti suoi interventi pubblicati sull'Italia letteraria, particolarmente indicativi di una intenzione e di una capacità ancora fortemente impegnata sul terreno critico e polemico. Vi si legge, ad esempio, nell'articolo Aura poetica, la recensione decisamente critica dell'Ulisse di J. Joyce considerato, negativamente, estremo punto di arrivo della letteratura naturalistica, da respingere nel nome della necessità di "introdurre la poesia nel racconto", "poesia di sentimenti, non di parole, poesia umana, non aulica" (p. 72), insomma di "una nuova aura poetica". È ugualmente una raccolta di recensioni e articoli L'Europa d'oggi (ibid. 1933), che riprende ancora i temi cari all'A. dell'unità intellettuale europea come prospettiva da proporre di nuovo, nel momento in cui diventano sempre più forti gli "elementi disgregatori" di cui nel libro si tenta di individuare l'origine e la natura.
Nel 1932 l'A. considerò concluso il suo tentativo di mantenere autonoma una rivista come L'Italia letterarta nondel tutto allineata alle richieste e alle imposizioni della cultura di regime; ne abbandonò perciò la direzione (anche se fino al 1934 il suo nome comparirà tra i membri del consiglio direttivo), allontanandosi contemporaneamente dall'Italia, dalla quale rimase assente per quattordici anni. Fu prima direttore dell'Istituto di cultura italiana di Praga (1932-35), quindi lettore nelle università di Digione e di Besançon (1935-37), dal 1937 al '40 direttore dei corsi di italiano a Parigi e dal 1940 al '45 direttore del Circolo di lettura a Lugano. In tutti questi anni aveva continuato a collaborare a giornali e riviste tra cui il Corriere della sera, L'Ambrosiano, L'Italiano, The New Criterion di T. S. Eliot, nonché a pubblicare volumi di prose che, sulla scia del Giorno del giudizio, erano modellate sui ricordi, l'infanzia, i paesaggi, le immagini: Ritratto del mio paese (Milano 1929); i racconti del Buon veliero (Lanciano 1930); Milano (Firenze 1931). In Amici di strada (Lanciano 1935) già appare il prevalere sullo stile saggistico di una vena narrativa intessuta di memorie, di divagazioni e fantasie che troverà nei racconti di Il generale in esilio (Firenze 1941) e di Eclissi di luna (ibid. 1943), come nel "romanzo" Donata (ibid. 1941), una piena e complessa esplicazione. Si tratta, in particolare nel caso degli ultimi due, di una sorta di "poemetti in prosa" (anche se questa definizione venne sempre respinta dall'A.), svolgimenti tra il lirico e il fantastico di motivi e figure simboliche e mitiche, in cui il registro stilistico attingeva a tutti i modi della possibilità evocativa e allusiva della parola e della costruzione sintattica, per rendere un'atmosfera rarefatta e sospesa, carica di echi etici, spirituali e religiosi.
Nel 1949 G. Contini curò la selezione e la raccolta di racconti scritti dall'A. tra il 1930 e il 1948 e la pubblicò con il titolo Narciso (Milano), con l'intenzione di registrare e riproporre un esemplare di prosa narrativa non realistica, attenta e compiaciuta dell'effetto evocativo, fantastico e allegorizzante di uno stile che nasceva dall'"affermarsi voluto della poeticità come valore esplicito ed urgente" (Contini, p. 179); uno stile e una scrittura che, sulla linea di un certo filone di letteratura lombarda che da Manzoni attraverso la scapigliatura arriva a C. Linati, ha rappresentato uno dei modi in cui i letterati italiani nel ventennio 1925-45 hanno tentato di aderire a un'immagine nuova, moderna del mondo, richiamando e riproponendo una tradizione privilegiata di letteratura e di cultura che alla parola, alla raffinatezza lessicale e alla ricercatezza della costruzione sintattica affidava la capacità della letteratura di essere "poesia". Nei racconti come nei "poemetti in prosa" e nei romanzi di questi anni, domina il gusto evocativo dell'A., la memoria e la nostalgia dell'infanzia e del passato, la guerra, i paesi e le figure fissati in immagini di viaggio, le impressioni e le suggestioni di luoghi e situazioni, i riferimenti simbolici e morali, venati a volte di elementi propriamente religiosi.
Il carattere tendenzioso di queste scelte narrative è confermato dalla parallela intensa attività giornalistica e pubblicistica dell'A. su La Stampa, Oggi, Il Meridianodi Roma, Prospettive, Primato, Il Mondo, Il Risorgimento liberale, ecc. Nel 1946 riprese la direzione della Fiera letteraria che mantenne per tre anni. Dal 1949 cominciò a collaborare ai programmi culturali della RAI, dirigendo il settimanale radiofonico L'Approdo di attualità culturale e letteraria, al quale affiancò nel 1952 il periodico L'Approdo letterario che diresse fino alla morte; per la RAI promosse inchieste e servizi su vari temi, tra cui Inchiesta in Occidente (maggio-luglio 1951) riportata nel libro Un europeo d'Italia (Torino 1951); scrisse in collaborazione con S. Zavoli i testi di diversi documentari radiofonici (Notturno a Cnosso, 1953; Sinai, 1954; ecc.) con i quali vinse per diversi anni il premio Italia; divenne, infine, direttore dei programmi culturali della RAI. Documentano ancora il suo lavoro di scrittore di testi per trasmissioni radiofoniche, i volumi Testimone in Grecia (Torino 1954); Testimone in Egitto (Firenze 1959) ambedue in collaborazione con P. Bigongiari e altri ancora. Vanno ricordate inoltre le traduzioni e la cura di testi di autori francesi che gli erano particolarmente cari, come G. Flaubert (Corrispondenza, Lanciano 1931) e Voltaire (Romanzi e racconti filosofici, Roma 1955).
In tutte queste attività rimane costante, accanto all'impegno europeistico, la convinzione che per lo scrittore sia indispensabile l'autonomia dal potere, dalle ideologie, dai partiti; una posizione questa che, in sintonia con altri intellettuali e scrittori, aveva difeso negli anni del fascismo e che continuò a difendere tenacemente in un periodo come il quindicennio del secondo dopoguerra che vedeva in campo tensioni e propensioni forti e attive nella direzione di un sempre più marcato ed esplicito impegno degli scrittori e dei letterati nella vita sociale, politica e culturale. La rivendicazione della libertà, dell'autonomia dello scrittore, del resto, era per l'A. strettamente connessa con la sua concezione della pratica letteraria tesa a caricare la letteratura dei valori etici, spirituali ed esistenziali che non trovano riscontro in epoche e fasi storicamente determinate della vita sociale, ma pretendono di suggerire le linee delle istanze più profonde dell'uomo. A una concezione dunque che, assolutizzando il ruolo e il peso della letteratura nella vita, ne isola necessariamente i caratteri e le funzioni da ogni fenomeno contingente, sia esso di ordine sociale, politico o ideologico, finendo per approdare, benché per il tramite di percorsi accidentati e complessi, a un'idea di letteratura e di arte come strumento per eccellenza di evasione dal mondo. L'A. perseguì queste convinzioni, come del resto il suo mestiere di letterato, nel modo più serio, più impegnato e perfino severo; fu proprio per questo suo modo di concepire il mestiere che accettò nel 1957 di ricoprire la carica di segretario nazionale del Sindacato scrittori; e fu sempre con tale spirito che fondò nel 1960 la Comunità europea degli scrittori, di cui fu anche il primo presidente.
Nel dopoguerra era iniziata anche una nuova stagione narrativa per l'A. che pubblicò in questo periodo le opere più impegnative, anche se la critica non fu concorde nel ritenerle il suo frutto più riuscito e maturo; del 1949 è infatti La memoria (Milano) per il quale vinse il premio Strega.
È una sorta di romanzo autobiografico in cui tornano più strutturati e compatti i motivi evocativi ed elegiaci delle prose precedenti; dominano qui i toni lirici e moraleggianti, accanto all'esercizio delicato e intelligente di una sensibilità acuta per situazioni, figure e condizioni esistenziali, sempre riferite essenzialmente a una traccia autobiografica che impedisce ai personaggi di contorno di stagliarsi tanto da raggiungere un sufficiente spessore narrativo; ai critici che rimproverarono a questo libro una certa monotonia, risposero altri critici che proprio nella modulazione monocorde riscontravano il risultato stilistico migliore.
Nel 1955 pubblicò un libro di impianto decisamente diverso, Giobbe uomo solo (Milano) che rinunciava ad ogni elemento della struttura romanzesca per una costruzione dialogica (ma non teatrale), intrecciata a didascalie e brevi descrizioni, concepita come lo strumento espressivo più adatto a quella severa meditazione sull'umanità, sul destino e la funzione dell'uomo che traspariva già in molti scritti precedenti e che qui domina interamente l'invenzione dell'A., riprendendo l'allegorismo che era sempre stato una forte componente della sua scrittura, caricato ora di una intonazione drammatica e perfino tragica che rappresenta una nota nuova nella sua produzione.
L'A. aveva continuato ad affiancare al mestiere di scrittore quella intensa attività giornalistica e pubblicistica di cui si è già detto, continuando anche a raccogliere molti suoi articoli e saggi in volumi quali Le carte parlanti (Firenze 1941) dove venivano riproposti alcuni dei suoi interventi più significativamente polemici a favore di un "nuovo romanticismo", in connessione con meditate e argomentate considerazioni sulla "sterminata potenza della parola" rispetto ai "fatti", come propaganda, educazione, cultura. A una galleria, per così dire, di indicazioni sul saper leggere buoni libri, scrivere con misura, parlare con garbo, nel nome appunto del "nuovo romanticismo" cui è dedicato un intero capitolo, in polemica netta e ribadita con la letteratura naturalistica e realistica. A questa linea si richiama esplicitamente pure una raccolta successiva di pezzi giornalistici: L'uso della parola. Nuove carte parlanti (Caltanissetta 1958), dove ancora una volta viene sottolineata la funzione della parola come suprema espressione della spiritualità, nel momento in cui più forte viene avvertito il conflitto tra la "civiltà meccanica" e la "civiltà umana".
Si affiancano a questi interventi altre raccolte di prose, giornalistiche e non, meno legate all'attualità, sulla linea dei libri di memoria e di viaggio precedenti. Sono L'Italia felice (Roma 1947), che comprende la ristampa di Ritratto del mio paese con l'aggiunta di altri scritti ("questi capitoli siano dunque accolti come la memoria, non precisa, non oggettivata, anzi irrimediabilmente patetica, di città e campagne in cui parve bello vivere. Come la testimonianza di un tempo di contemplazioni che si è interrotto", p. 9); Inchiesta segreta (ibid. 1953), che contiene prose di viaggi in Italia e nei paesi europei, brani di diario, osservazioni, impressioni, "favolette e storielle", "divertimenti"; L'anatra alla normanna (Milano 1957), raccolta di saggi sui "paesaggi più cari" della letteratura francese e ginevrina, su scrittori contemporanei, su Parigi e la provincia francese, costruiti su impressioni, associazioni d'immagini e fantasie, itinerari di viaggio; Igrandi ospiti (Firenze 1960), divagazioni su scrittori, poeti, personaggi storici antichi e moderni, italiani ed europei: sono ritratti, aspetti e riflessioni su squarci biografici, notazioni di stile, ecc.; Tutta l'Europa (Roma 1961) con prefazione di C. Bo e postfazione di G. Picon, che comprende scritti apparsi sulla Stampa e sull'Europa letteraria; e infine Gli italiani sono onesti (Milano) pubblicato nel 1968, postumo, con una prefazione di C. Bo e per la cura di Lina Angioletti alla quale è dovuta la scelta degli inediti selezionati dall'archivio dell'A. che compongono il volume.
L'A. morì a Napoli il 3 ag. 1961.
Nel 1958 fu assegnato all'A. il premio Tor Margana e nel 1960 il premio Viareggio, a riconoscimento di questa intensa attività letteraria che lo vide costantemente schierato con le ragioni e i valori più tradizionali della funzione del letterato, nella difesa di un'idea di ordine, di equilibrio e di misura che per essere efficaci anche e sopratutto come valori pratici, dovevano passare per un esercizio serio e impegnativo che l'A. rivendicava, anche qui con forte carica polemica, come "mestiere", nel significato più decisamente apprezzabile sul terreno etico, civile e culturale.
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