BEVILACQUA, Giovanni Battista
Ultimo figlio di Nicolò, nacque a Venezia nel 1565. Condotto a Torino, aveva otto anni quando il padre venne a morte, lasciandolo crede di tutte le sue sostanze: i possessi aviti in Val di Sole. l'azienda tipografica veneziana (cui partecipavano la sorella Iacopina e il cognato Francesco Ziletti) e la "tipografia ducale" in Torino, da poco più di un anno fondata dal padre, per volontà di Emanuele Filiberto di Savoia. La madre Teodosia - secondo il tenore del testamento di Nicolò - aveva facoltà di vendere e affittare la tipografiama evidentemente i membri del consiglio di tutela (il consigliere ducale e "gran gabelliere" Bernardo Castagna, -: il giureconsulto Bernardo Trotto e il cognato Francesco Ziletti) dovettero dissuaderla dall'alienare l'impianto, magistralmente disposto da Nicolò, di cui Francesco Ziletti assunse la direzione. L'azienda venne condotta con la ragione "Eredi di Nicolò Bevilaqua".
Durante gli undici anni della minorità del B. l'azienda produsse una serie di notevoli edizioni, soprattutto di testi giuridici, smerciati non solo in Piemonte e in altre regioni d'Italia, ma anche - vincendo la concorrenza veneziana e le male arti di Luc'Antonio Giunta, che non cessò mai di ostacolare lo sviluppo della tipografia torinese sui mercati esteri - nella penisola iberica. Nel 1576 il duca invitò i "caratisti" dell'accomandita - costituita per finanziare la tipografia - ad aumentare l'importo dei carati, mediante il versamento di scudi 300 per carato, onde assicurare all'azienda larghe possibilità di potenziare gli impianti e intensificare la produzione. In quegli anni (1576-78) la stamperia acquistò da Francesco Dolce tutto il fondo (o il meglio di esso) già del Torrentino, da questo portato da Mondovì a Torino.
Nel 1584 il B. divenne maggiorenne e assunse di pieno diritto il suo posto tra "i compagni della stampa". Da quell'anno le edizioni sono sottoscritte "Presso l'erede di Nicolò Bevilaqua", dato che l'usufrutto della madre cessava colla maggiorità di Giovan Battista. Le patenti di privilegio furono rinnovate (1584) dal duca Carlo Emanuele, con una sola lieve eccezione (rinnovata e sancita nel rescritto ducale del 1582) che estendeva a Cristoforo Bellone - unitamente al Pelipari - la facoltà di stampare "editti, ordini, bandi che si havranno da dar fuori in stampa"; e per questo il Bellone si fregiò del titolo di "tipografo ducale", come gli eredi del Pelipari. Non vi sono documenti che accertino se - o in qual misura, - il B. dirigesse l'azienda; certo èche negli anni successivi al 1584 molte edizioni hanno dediche sottoscritte da lui come capo della tipografia; talvolta, però, si ha la sottoscrizione "eredi di Nicolò Bevilacqua".
Poco dopo il 1584 fu liquidato il proto Francesco Zenero; al suo posto subentrò Francesco Lorenzini "maestro degli operai"; nel 1590 a lui successe Luigi Pizzamiglio, che divenne "governatore della stampa del Bevilaqua" (1590). In questi anni la tipografia lavorò anche per commissione di Giovan Battista Ratterio e dei fratelli Tarino - di origine aragonese, ma da tempo dimoranti in Torino - che erano i maggiori librai del Piemonte. Domenico Tarino, nel 1595, rilevò - non si sa da chi - azioni della società finanziaria, e in quello stesso anno il B. cedette a Luigi Pizzamiglio la stamperia (o, quanto meno, la parte che ancora di essa gli restava). Le edizioni continuavano a essere sottoscritte col nome del B. sino al 1598, quando il Pizzamiglio - continuando a usarne la marca editoriale - vi sostituì il proprio nome.
Dopo le accurate ricerche sulla stampa torinese condotte da M. Bersano Begey, è facile poter conoscere la ventennale attività della "tipografia ducale": si tratta di oltre duecento edizioni. Tra queste assumono un particolare rilievo quelle delle grandi opere giuridiche: di Bartolo da Sassoferrato, di Baldo degli Ubaldi, di Nicolò Tedeschi, di Giason del Maino, di Ripa da San Nazario. Vennero anche prodotti - sempre con accuratezza e decoro - anche libri di comune lettura, come Le venti giornate dell'agricoltura di Agostino Gallo, il Galateo del Della Casa, ed edizioni, adatte alle scuole, di Cicerone, Terenzio, Valerio Massimo, Virgilio.
Non si è rinvenuto il documento che registra la morte del B., ma da notizie indirette si può arguire che essa sia avvenuta nell'anno 1596.
Notizie d'archivio riguardanti il B., scarse, peraltro, e contrastanti fra loro, si riferiscono tutte agli anni 1601-1611, quando egli doveva essere morto da tempo. Secondo i disposti del testamento di Nicolò, ove il B. fosse morto senza discendenza, l'asse patrimoniale avrebbe dovuto essere diviso tra le sorelle (legittime e naturali) Iacopina, Margherita, Marcellina e Pasquina. Questa Pasquina era passata a nozze con un Feliciano Collosini, il quale era divenuto cessionario delle parti di eredità spettanti alle cognate e quindi unico avente diritto all'asse ereditario. Ciò risulta dagli atti di un lunghissimo processo che il Collosini intentò a certi Giovanni Calvo e Pietro Armanino trentinì, i quali avevano acquistato nel 1594 dal B. i suoi possedimenti in Val di Sole. Il Collosini sosteneva che la vendita aveva recato al venditore un danno del "plus quam dimidium", e quindi doveva essere dichiarata nulla. Furono chiamati in causa, quali testimoni, diversi librai di Venezia: Felice Valgrisi, Roberto Mieti, Giovanni Zileti, Orazio Bozzola, Giovan Battista Bertano, Barezzo Barezzi; dalle loro testimonianze e dichiarazioni risulta che fl B. era un incapace amministratore, un dissipatore, addirittura un parassita del cognato Francesco Ziletti. Ma queste testimoníanze - rese tutte a Venezia, e presentate a una corte di Trento - sono assai partigiane; quella del Barezzi è nettamente falsa, giacché egli testimonia che il B. dal 1584 - quando era entrato in possesso dell'eredità paterna - al 1594 era vissuto a Venezia in casa del cognato, sperperando prima le sostanze proprie e dilapidando 4000 scudi dello Ziletti. Nel loro complesso, le testimonianze presen!ate volevano dimostrare che il B. era un incapace, raggirato dagli acquirenti dei fondi solandri. Quale che fosse la verità, certo è che con due sentenze del 1610 e del 1611 il Colosini ebbe causa vinta, riottenne i fondi e glì interessi di essi per gli anni 1594-1611. E così tutti i beni della famiglia Bevilacqua di Termenago passarono ai Colosini.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Tesoreria duc., a. 1579, c. 182; Ibid., Tesoreria controllo, a. 1581, passim; Ibid. Consegna forestieri, 20 genn. 1590; Ibid. Commercio-stamperia, a 1579-1582, c. 252; Trento, Arch. vescov., Atti civili, N. 6; G. Fumagalli, Lexicon typographicum Italiae, Firenze 1905, pp. 107, 290, 468; F. Ascarelli, La tipografia cinquecentina in Italia, Firenze 1953, pp. 101 ss.; M. Bersano Begey, Latipografia cinquecentina piemontese, Torino 1961, passim; G. Vernazza de Freney, Diz. dei tipografi…,Torino 1859, p. 36.