BOTTERO, Giovanni Battista
Nato a Nizza il 16 dic. 1822 da Paolo intraprendente negoziante originario di Limone Piemonte, e dalla nizzarda Teresa Broc di Torretta, fece i primi studi nella città natale (tranne qualche anno delle scuole elementari a Tenda) e frequentò poi i corsi di retorica e di filosofia nel locale collegio dei gesuiti.
Non ancora ventenne pubblicò a Nizza un volumetto in versi, Frammenti estratti da un poema inedito di Giovanni Battista Bottero da Nizza Marittima, grondante di retorica esaltazione di Napoleone, in cui agli echi foscoliani e pariniani si sovrappongono reminiscenze dal Monti della Bassvilliana:e della Mascheroniana.
Vinto per concorso il posto gratuito che era riservato a Nizza nel Collegio delle provincie in Torino per la facoltà di medicina e chirurgia, il B. si laureò il 2 luglio 1847, sotto la guida del Riberi, con una tesi De scorbuto. La brillante conclusione degli studi gli valse la nomina a ripetitore aggiunto nel collegio stesso; ma il B. lasciò presto sia l'insegnamento sia la medicina. Attratto invece dalla politica, già durante gli anni dell'università aveva partecipato attivamente a dimostrazioni, a riunioni o adunanze giovanili, come quella efficacemente descritta dal Bersezio nei suoi Trent'anni di vita italiana, nella quale il giovane B. si era imposto per energia di fede e per concretezza d'argomentazioni o quelle - con C. Nigra, D. Carbone, B. Casalis e Q. Sella - evocate con acuta nostalgia da quest'ultimo in una lettera scritta al B. da Roma nel 1871. Verso la fine del 1847 fu tra quelli che, al seguito di Nicolò Vineis e di Andrea Maraigo, intendevano dar vita ad un giornale dal titolo La Riforma italiana, poiuscito sotto il titolo di Opinione. Ma dissociatosi da tale iniziativa e intervenuto nella primavera del 1848, auspice Michele Lessona, un accordo tra il B., F. Govean, già autore di racconti popolari e di opere teatrali, e il canavesano A. Borella, il 16 giugno 1848 nacque L'Italiano - Gazzetta del Popolo.
A differenza dei giornali sorti fino allora, che si rivolgevano ad una ristretta cerchia di lettori colti e preparati, il nuovo quotidiano s'indirizzava invece "a quella buona parte di buonissimo popolo a servizio ed a comodo del quale nessuno ha ancora pensato di farne uso". Era quindi di piccolo formato (4 pagine 18 per 24), di facile lettura, di stile semplice e chiaro e di prezzo modico (5 centesimi la copia). Poiché nessuno stampatore era disposto ad assumersene in proprio l'edizione, il B. e Govean fecero stampare il giornale dalla tipografia Arnaldi, mantenendone personalmente la gerenza e la responsabilità.
La Gazzetta non enunciava alcun programma, tuttavia nella richiesta di autorizzazione rivolta alla segreteria per gli Interni il 25 maggio e firmata dal solo Govean si attribuiva al giornale, per il quale era previsto il titolo di L'Italiano - Giornale per il Popolo, il fine di combattere "le idee del comunismo" e "quelle repubblicane", nonché quello di diffondere "la morale sociale" e "l'istruzione popolare". Nel primo numero si affermava: "partito non abbiamo nessuno, opinioni quelle dei galantuomini". In realtà, quell'Italiano sovrastante il titolo indicava - come la parola Popolo un qualche programma di emancipazione sociale - un chiaro e non equivoco programma politico: la liberazione della penisola dallo straniero e l'unificazione. In una cornice di patriottismo vibrante ed eroico trovarono poi posto, accanto alla fondamentale ispirazione democratico-popolare, l'ispirazione laica e la fede monarchica. La Gazzetta, intorno alla quale si riunirono N. Rosa, C. Nigra, A. Depretis e B. Casalis, si privò nel 1861 della condirezione dello stesso Govean, come ancora più tardi di quella di valenti giornalisti, come C. Pisani, venuti in dissenso sulla linea politica, ma non cessò mai, per cinquant'anni, di essere l'alta ed efficacissima tribuna del B. "giornalista del Risorgimento". Anche se questi non lasciò firmato alcuno scritto (ed anzi si dichiarò esplicitamente contrario all'eventualità della pubblicazione, pur dopo morte, di una raccolta di suoi articoli), le sue migliaia di articoli, cronache e note erano immediatamente riconoscibili per il personale stile concitato, essenziale e concreto.Il B., che allo scoppio delle ostilità si era presentato volontario, ma era stato rifiutato per una grave miopia, centrò la battaglia della Gazzetta su tre temi fondamentali: difesa dello Statuto, proclamazione della necessità della guerra, creazione di consenso intorno al Parlamento. Persuaso che "la parola stampata può avere lo stesso effetto che la mitraglia sul campo" e che "il trattare la penna" può presentare "lo stesso pericolo che il trattare il fucile e la spada", egli - mentre Govean andava a impugnare il fucile - combatté allora con la prosa ardente e infuocata del giornale, non solo incitando i timidi e sferzando gli imbelli, ma anche denunziando (28 luglio) l'inerzia e il verbalismo del Parlamento e del governo, ammonendo deputati e ministri. Dopo l'armistizio invitò (15 agosto) "popolo ed amici del popolo" a vigilare per la salvaguardia delle libere istituzioni additando in Carlo Alberto, "re del popolo", il più sicuro presidio delle stesse. Il B., che aveva appoggiato esplicitamente il ministero Balbo-Pareto per scongiurare una crisi pericolosa, quando, dopo la sconfitta, il partito municipalista piemontese si fece più ardito con il ministero detto dei due programmi, lo abbandonò, divenendo vivace promotore del movimento che portò alla formazione del ministero democratico del dicembre '48. Egli si oppose al progetto giobertiano di una spedizione in Toscana, ma lamentò poi l'uscita di Gioberti dal ministero, anche se continuò a sostenere i ministri che restarono. Ripresa la guerra, tornò a far squillare la diana, incitando alla guerra il popolo, e dopo Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto proclamò: "La sfiducia nella causa nostra ci è sconosciuta" (27 marzo). Il B., che nel settembre '48 aveva salutato in Gioberti il "vero iniziatore della redenzione italiana", vedendo in lui - in quel mese di scoramento - il nuovo O' Connell destinato ad allontanare la "grande fatalità" che pesa sulla "patria di Carlo Alberto" e a condurre gli Italiani "alla meta sospirata", vedeva ora nel concittadino Garibaldi, eroe della difesa di Roma (le cui vicende il giornale aveva seguito con viva partecipazione ribadendo in varie occasioni la sua opposizione di principio al potere temporale, v., per es., 1 nn. del 1º sett. 1848 e dell'11 dic. 1848), il condottiero di cui la patria avrebbe avuto presto bisogno. E quando Garibaldi, dopo la vana difesa di Roma, braccato attraverso gli Appennini, arrivò in patria convinto di essere salvo e invece venne arrestato a Chiavari, la Gazzetta insorse in sua difesa. Il 10 sett. '49, in un proclama agli elettori di Bobbio, il B. ne propose l'elezione a deputato per "salvare il paese da un'infamia" e rendere "la persona di Garibaldi inviolabile". La campagna condotta dal giornale per la liberazione del generale ebbe successo: Garibaldi, scarcerato ma costretto all'esilio, trovò ospitalità a Tangeri presso il console sardo. Per testimoniargli l'affetto degli Italiani memori, il 14 genn. 1850 il giornale lanciò una sottoscrizione per una spada.
La ratifica del trattato di pace con l'Austria fu un amaro boccone da trangugiare, mentre le forze reazionarie tendevano a riprendere fiato in Piemonte. Il B. fu allora in prima linea con la sua Gazzetta nella lotta che s'ingaggiò per l'abolizione del foro ecclesiastico.
L'ispirazione laica, e anzi l'anticlericalismo furono caratteristica costante del giornale ed ebbero proprio nel B. il campione più caustico e più agguerrito. Erano manifestati sul quotidiano - come ha ricordato il Ratti - da uno stillicidio di articoli, elzeviri, stelloncini aspramente polemici nei confronti della Curia romana e del clero piemontese e dalla famosa rubrica "Sacco nero" (spesso redatta dal B.), che, come l'"Omnibus" di LaStrega di Genova, non disdegnava lazzi pesanti e perfino volgari all'indirizzo dei "mercanti del tempio" e dei preti politicanti. La Gazzetta, che nel febbraio era giunta a proporre il sequestro dei beni ecclesiastici per far fronte alle esigenze di guerra, quando nell'estate 1849 si delineò la battaglia per l'abolizione del foro ecclesiastico, resa più aspra dall'assenza dell'arcivescovo di Torino e del vescovo di Asti dalle loro diocesi, mostrò il suo carattere violentemente, radicale e giacobino. Dopo la famosa seduta del 22 agosto il giornale attaccò aspramente i due vescovi, presentandoli come "seminatori di discordia civile" per la loro opposizione alle istituzioni liberali. Poi, sviluppando il discorso avviato in Parlamento il giorno prima, invocò apertamente una revisione integrale in senso nettamente laico dei rapporti tra potere civile e potere ecclesiastico.
Dopo l'approvazione della legge Siccardi di abolizione del foro, nel successivo periodo di gravi tensioni la Gazzetta fu tra i protagonisti più battaglieri. Alla proposta del giornale clericale L'Armonia di una sottoscrizione per un pastorale all'arcivescovo rispose immediatamente con l'apertura di una sottoscrizione (18 agosto 1850) per l'erezione di un obelisco alla legge Siccardi, eretto in piazza Savoia il 4 marzo 1853, mentre ricorreva il primo lustro dalla promulgazione dello Statuto e mentre mons. Franzoni, nuovamente arrestato, veniva deportato a Fenestrelle e poi costretto all'esilio a Lione. Alla base del monumento vennero murati, per decisione del Municipio, i numeri 141 e 142 con i quali il giornale aveva dato inizio nel 1850 alla sottoscrizione.
Culminò così in questa iniziativa l'anticlericalismo della Gazzetta e del Bottero. Anzi le famose irruenti e implacabili polemiche del B. contro don Margotti e L'Armonia (materiate di citazioni dalle Sacre Scritture e di riferimenti alle vicende della storia della Chiesa), per non parlare dell'abito scuro indossato per tutta la vita, severo come quello di un "ministro della chiesa protestante", e di quel non so che di chiesastico riconosciutogli dal Bersezio, fecero correre la voce, alimentata dagli avversari, rinforzata dalle caricature del Fischietto e recepita perfino da qualche frettoloso biografo, che il B. fosse stato prete e che proprio nell'ambiente clericale avesse arricchito l'armamentario utilizzato nelle sue impetuose invettive anticlericali. In verità l'intransigenza anticlericale del B. (definito da Petruccelli della Gattina, nei suoi Moribondi di Palazzo Carignano, "figura di canonico, ma canonico come Swift e Rabelais"), credente in Dio, ex allievo dei gesuiti e in rapporti cordiali con due antichi insegnanti, padre Muzulimer e padre Felckiersam, fervidi fautori dell'indipendenza polacca, traeva il principale alimento dall'amore per l'autonomia dello Stato, minacciata appunto dai privilegi ecclesiastici, e per l'indipendenza e l'unificazione italiana, ostacolata gravemente dall'esistenza del potere temporale della Chiesa. Più che radici ideologiche, sembrò avere - come del resto molta parte dell'anticlericalismo ottocentesco - radici pratico-politiche. Si potrebbe dire che fosse subordinato al patriottismo, nella cui cornice si situava, in ultima istanza, anche l'ispirazione democratico-popolare della Gazzetta, con le iniziative pedagogico-paternalistiche che ne derivavano.
Il giornale del B. fin dai primissimi numeri caldeggiò - sotto la protezione dell'art. 32 dello Statuto - la costituzione in Torino di una Società di mutuo soccorso. Il 22 febbr. 1849 - fallito il tentativo di accaparramento del pubblico operaio esperito concorrenzialmente dal mediocre e qualunquistico Giornale degli Operai di S. Sampol - poté pubblicare l'ammonimento: "Signori giornali nascituri, la Gazzetta del Popolo è quella degli operai: siavi di norma". Dopo che nel 1848 (come ricordava l'articolo rievocativo del 5 genn. 1861 intitolato Le Società degli operai)proprio il suo direttore aveva tenuto a battesimo, nella sua abitazione, il progetto di costituzione della società degli operai di Torino, il 17 genn. 1850 il giornale diede l'annuncio ufficiale della nascita in Torino di una Associazione degli operai, dalle cui finalità (unione e fratellanza, mutuo soccorso e istruzione reciproca) era bandita ogni caratterizzazione politica. Non fare politica per le società operaie significava sostanzialmente non fare politica antigovernativa, non minacciare l'assetto sociale e non mettere in discussione l'istituto monarchico.
Al proposito di salvaguardare la classe operaia dalla suggestione della predicazione mazziniana, già largamente penetrata nelle associazioni operaie liguri, s'ispirarono i continui attacchi della Gazzetta al Mazzini. La fede monarchica della Gazzetta, riconfermata dall'invito rivolto agli elettori nell'imminenza delle elezioni del '61, non vacillò neppure di fronte al mito garibaldino, quando Garibaldi, marciando nell'estate 1862 verso Roma al grido di "o Roma o morte", sembrò diventare strumento inconscio del Mazzini contro la monarchia. "Né Roma, né morte; non Roma da Garibaldi, non morte per Garibaldi" - scrisse, arrivando addirittura a sentenziare: "Garibaldi è morto. È morto al Volturno. Fin là Garibaldi fu grande, fu puro, fu degno di epopea". Nei giorni successivi furono poi pubblicati ordini del giorno di associazioni operaie dichiaranti il proprio lealismo monarchico e la propria autonomia nei confronti della ormai sospetta Associazione Emancipatrice, presieduta da Garibaldi.
Ma proprio questo sovrapporsi di interessi d'ordine politico-ideologico su quelli economico-sociali angustamente limitati al mutuo soccorso fu alla radice del progressivo distacco del B. e del suo giornale (che pure agli inizi del 1861 registrò quasi "con paterno orgoglio" il rilevante incremento dei membri della società operaia torinese passati da 500 nel 1850 a 7.900) dal concreto mondo operaio. Anzi, quando con l'espandersi del processo d'industrializzazione negli ultimi decenni del secolo, il movimento operaio, superando associazionismo e mutualismo, trovò nell'organizzazione sindacale e nel partito politico di massa le strutture adeguate alle nuove esigenze, il distacco scadde addirittura in incomprensione e l'allora venerando direttore del giornale torinese ebbe proprio da quella parte, come ha notato lo Zucaro, "qualche amarezza".
Nel disegno botteriano della "Italia una con la monarchia costituzionale" s'inquadrò invece perfettamente la politica cavouriana, che il B. sostenne con convinzione e lungimiranza. Si dovette alla sua pressione su colleghi e collaboratori, seguaci dell'opposizione del Brofferio, se la Gazzetta, dopo aver osteggiato fieramente l'adesione piemontese all'alleanza franco-inglese ("I nostri soldati non devono essere gli alleati degli alleati dell'Austria"), pervenne a dare pieno appoggio alla spedizione di Crimea. Nel successo della Cernaia il B. vide la rinascita del prestigio militare del Piemonte e il completo dileguarsi dell'incubo di Novara; "Passo immenso della diplomazia" fu definita la partecipazione piemontese al congresso di Parigi, dove "il Piemonte ha parlato non come Piemonte, ma come Italia, in nome dell'Italia". Con l'iniziativa proposta da N. Rosa, e subito accolta dal B. e dal Govean, di una sottoscrizione "veramente nazionale" (vi aderirono infatti D. Manin da Parigi, Garibaldi da Nizza, Cavour e altri ministri da Torino, Capponi da Firenze e altri patrioti da ogni parte d'Italia) per donare cento cannoni alla fortezza di Alessandria, fu lanciata una chiara sfida all'Austria, alla quale si volle fare intendere "che tutti gli italiani convengono nello intendimento di essere tutti contro di lei". In seguito il B. sostenne il lavorio diplomatico dello statista per preparare la guerra all'Austria in, alleanza con la Francia. E poiché, in vista di quella, accorrevano i volontari, la Gazzetta del Popolo costituì un Comitato di soccorso, presieduto dal B. e dal Casalis, per sovvenire ai loro bisogni e provvedere, d'accordo con Cavour e con Lamarmora, al loro inquadramento nei reggimenti sardi o nel corpo in formazione dei volontari garibaldini.
L'armistizio di Villafranca venne accolto dal giornale con scoramento, ma già il 22 agosto vi si affermava che "il paradosso della pace di Villafranca ha troncato la serie delle nostre vittorie materiali, non ha troncato quella delle vittorie morali". La Gazzetta, dopo una breve tregua, attaccò ad oltranza il ministero di transizione e nell'editoriale del 18 luglio, intitolato Un timone alla barca ed occhio alla bussola, invocò decisamente il ritorno di Cavour, l'unico "pilota" capace di "giovarsi della marea". Sensibile osservatore degli aspetti internazionali del processo annessionistico in atto nell'Italia centrale, salvaguardabile non tanto con l'accelerato riarmo (pur pressantemente invocato dalla Gazzetta del Popolo), quanto, appunto, con una accorta azione sul piano diplomatico, il B. dimostrò comprensione per la ragion di Stato - che aveva spinto Cavour alla cessione di Nizza e Savoia in cambio del consenso napoleonico -, ma non soffrì meno nel vedersi trasformato in straniero proprio nel momento in cui il suo ardente ideale patriottico-unitario s'avviava alla realizzazione. Legatissimo alla città natale, i cui interessi aveva patrocinato nei preliminari della riforma doganale e da cui era stato eletto deputato una prima volta il 27 giugno 1855 (in sostituzione del De Foresta nominato senatore) e una seconda volta nel novembre '57, egli dedicò proprio a Nizza, nei discorsi del 12 aprile e del 27 maggio 1860 contro la cessione, la pagina più bella della sua attività parlamentare. E sulla Gazzetta del Popolo, il giorno in cui il Senato approvò il trattato, scrisse: "Il sacrificio, che oggi fu sancito, non può concepirsi se non come un pegno della liberazione definitiva d'Italia". Persa Nizza (dove non volle più tornare per non sentirsi straniero, ma per la quale patrocinò dopo il '70 la revisione del plebiscito), il B., che aveva già pubblicato e appoggiato il proclama di Garibaldi per "un milione di fucili", sostenne la spedizione dei Mille. Tuttavia, se il sentimento era con Garibaldi, la sua ragione restava - nonostante tutto - con Cavour. Il che non era una prova di quello che qualcuno ha definito quasi velleitario ondeggiamento tra "l'esasperato, talora piazzaiolo garibaldinismo" e "l'incondizionata dedizione filocavouriana" della Gazzetta del Popolo, ma soltanto una riconferma del costante orientamento politico-pratico del B. tendente alla valorizzazione e al coordinamento dell'iniziativa democratico-popolare e dell'iniziativa politico-diplomatica nel quadro del disegno unitario e monarchico costituzionale. Il filocavourismo del B., in altre parole, era senza riserve, mentre - semmai - ondeggiava il suo garibaldinismo nella misura in cui questo gli pareva muoversi dentro o fuori quel disegno.
Per questa posizione, per così dire mediatrice, e per i buoni rapporti anche personali con Garibaldi e con Cavour, nell'estate del '60 il B. (la cui Gazzetta aveva sostenuto la candidatura di Depretis, chiamato da Garibaldi al posto di Valerio - preferito da Cavour - come prodittatore del generale) venne incaricato dallo stesso Cavour di una delicata missione in Sicilia. Doveva portare a Depretis, insieme ad una lettera nella quale Cavour sollecitava una pronta annessione, un primo soccorso di 500.000 franchi e una squadra di cavalleggeri di Sardegna come nucleo di forza pubblica. Ma la sua presenza nel palazzo del prodittatore generò presto irritazione tra gli anticavouriani e agitazione tra gli stessi cavouriani, cosicché il B. fu costretto a salire terra temporaneamente a bordo del "Monzambano", ancorato in rada, tornando però subito a Palermo, donde informò Cavour.
Purtroppo, se sono note le vicende esterne, e le motivazioni ufficiali (cfr. i nn. del 18, 22, 23, 24, 26 e 30 maggio della Gazzetta del popolo) di questa missione, poco si sa sui retroscena e soprattutto sui reali intendimenti ad essa attribuiti da Cavour. Del resto lo stesso B. non fece molto per dissipare le forse infondate supposizioni formulate sulle sue missioni del '60-'61. Invitato da Casalis e da altri amici - in anni più tardi - a fornire particolari su di esse, egli rifiutò affermando che molti documenti aveva dato alle fiamme e che, compiuto il destino d'Italia, non era il caso di ritornare sul passato. L'unica presa di posizione ufficiale è costituita dalla smentita fatta in Parlamento nel corso della discussione del 5 e 6 giugno 1862 cui parteciparono Crispi, Sineo e Depretis. Secondo Sineo, il B. sarebbe stato inviato in Sicilia per "promuovere una prematura, intempestiva e veramente inopportuna annessione, con la quale si voleva impedire al Generale Garibaldi di passare lo Stretto". "Io non ho accettato dal conte di Cavour l'onorevole incarico di recarmi in Sicilia - si difese il B. -, se non quando sentii che lo Stretto era passato e quando la liberazione dei nostri fratelli napoletani era assicurata". Tuttavia da una più tarda lettera di Casalis (Cesena, 2 giugno 1862) sideduce che la politica d'allora in Sicilia era stata per entrambi (Casalis proseguì la missione di B.) "quella di portar via Depretis dalla politica garibaldina, facendolo autore dell'annessione immediata e facendogli dare le sue dimissioni per questo". Benché da quell'epoca avessero con Depretis rotto tutte le relazioni, ora che, come ministro dei Lavori Pubblici Depretis era oggetto di attacchi da parte di giornali governativi, Casalis auspicava che il B., "per le antiche relazioni che passavano tra Depretis e la Gazzetta", facesse "la nobile vendetta di sostenerlo".
Miglior fortuna ebbe la missione del B. negli Abruzzi, dove peraltro si trattava, come si esprimeva il testo del decreto luogotenenziale, di "prendere cognizione delle condizioni politiche ed economiche di quelle popolazioni", di organizzare la guardia nazionale e di ripristinare l'ordine pubblico turbato da soldati borbonici sbandati e da mene reazionarie. Cavour seguiva fiducioso l'opera del B., "R. Commissario del Governo" ad Aquila (Abruzzo ulteriore 2º), e il 17 genn. 1861, preannunciandogli per il 20 l'attacco di Gaeta "da terra e dal mare", lo invitava ad "ispirare risoluzione ed ardire alla popolazione". Grazie a "la décision et le courage sous la placidité de son visage sympathique", ricordati nel libro L'Italie des Italiens della scrittrice francese Louise Colet (parte 3, Paris 1863, p. 278; ma sul B. tutto il cap. XXXV), che lo incontrò a Napoli al suo ritorno dagli Abruzzi, il B. raggiunse i risultati voluti.
Esploso intanto nel settembre il contrasto tra Garibaldi e Cavour, il B. che già aveva svolto, dopo Villafranca, azione conciliatrice tra Vittorio Emanuele e il suo primo ministro, si adoperò ad invocare sul suo giornale il superamento del dissidio "fatale per l'Italia" appellandosi alla "voce dell'Europa", che riteneva Cavour e Garibaldi "entrambi necessari". Ma sciolta la Camera in vista della formazione del primo Parlamento nazionale, non presentò la sua candidatura (e ne ebbe rampogna da Cavour) e quindi non fu presente alla "grande battaglia parlamentare" culminata nella tornata del 18 aprile, nel corso della quale Garibaldi accusò il ministro di aver provocato la guerra fratricida.
La morte di Cavour gettò il B. nello sconforto. La Gazzetta del Popolo uscì listata a lutto per più giorni, definendo l'avvenimento "una irreparabile sventura"; invitava tuttavia alla fiducia additando nella tomba di Cavour il tempio della concordia nazionale. Per questa fedeltà alla memoria del grande statista, gli elettori del prestigioso primo collegio di Torino, il 3 agosto, preferendolo a Della Rovere, elessero deputato al posto di Cavour proprio il B., che per la VII legislatura aveva lasciato libero il campo nel collegio di Nizza al grande concittadino Garibaldi per non essere causa "di una divisione di voti, che, innocua in tutt'altro collegio, a Nizza, dove la questione della nazionalità suddivide i partiti, potrebbe riuscire fatale". Il binomio "Cavour-Garibaldi" o, meglio, "politica cavouriana-azionismo garibaldino" continuò ad influenzare il comportamento del B. e l'indirizzo della Gazzetta del Popolo anche dopo la morte dello statista, allorquando il B., ormai entrato - come ha rilevato Castronovo - nell'agiografia risorgimentale, godeva di un prestigio eccezionale ("re di Torino" fu la battuta di Vittorio Emanuele) e dirigeva il principale quotidiano piemontese e nazionale (20.000 copie di tiratura, solida situazione finanziaria, "rispettata potenza"), determinandone - specie dopo l'uscita polemica di Govean, del resto già praticamente emarginato - l'orientamento con pesante autoritarismo.
Nell'estate del '62, fedele al programma cavouriano dell'Italia una con Roma capitale sotto la monarchia sabauda, attaccò con molta asprezza il colpo di mano garibaldino, a monte del quale egli additava intrighi mazziniani, e, indignatissimo per la debolezza del governo verso i ribelli in Sicilia e i tentennamenti dei capi militari di fronte all'odiosità di combattere l'eroe dei Mille, invocò risolutamente misure estreme. Ma quando, con la Convenzione di settembre, gli parve ignominiosamente sancita la rinuncia a Roma e quindi l'abdicazione a quel "programma del conte di Cavour" che egli voleva "compìto fino alla sua ultima sillaba", non solo si scagliò con furore contro Minghetti e Peruzzi, autori della Convenzione, e Lamarmora, esecutore della stessa, ma, con Villa, Boggio, Berti, Brofferio, Carutti, Coppino, Rorà, Sclopis, Ponza di San Martino, Ferraris ed altri diede vita all'associazione detta la "Permanente", che prese a divisa proprio quel grido garibaldino di "Roma o morte" che nel '62 la Gazzetta aveva schernito duramente. Inoltre, ripresa, dopo l'unione di Venezia all'Italia, la campagna per la conquista di Roma, sostenne generosamente e infaticabilmente in stretto collegamento con il Comitato centrale per l'insurrezione romana costituito a Firenze la spedizione di Mentana avente il suo fulcro proprio in Garibaldi salutato come "l'incarnazione del destino" (20 ott. '67) e riconosciuto, pur sopraffatto a Mentana dai chassepots francesi, "più sublime che mai al cuore ed alla mente d'Italia" (7 nov. '67).
Ma l'incoerenza era solo apparente. In realtà la linea politica del B. continuò a ispirarsi al pensiero di Cavour, mentre rimase essenzialmente strumentale (cavouriano anche in questo) la concezione dell'iniziativa democratico-garibaldina. Certo la situazione era cambiata e non si poteva parlare d'incoerenza. Nondimeno l'aspra condanna del tentativo d'Aspromonte (Pisani firmò gli articoli, ma il B. ne avallò certamente la sostanza) e il fervido ed efficace sostegno alla spedizione di Mentana, rispettivamente prima e dopo il declassamento di Torino a capoluogo regionale a vantaggio di una città che non era Roma, e la conseguente furibonda polemica contro la "antinazionale" e "nefanda" politica dei "convenzionalisti" e della "consorteria", richiamante l'infuocato clima del 1850, nonché il patrocinio indiscriminato che si era assunto di tutti i malcontenti e di tutti gli interessi lesi offrirono qualche fondamento alle accuse, rivoltegli non solo da avversari ma perfino da amici e collaboratori, di vieto municipalismo, di furente demagogia e di "sgretolamento" del tradizionale programma del giornale.
Tuttavia in cima ai pensieri del B. era sempre il bene d'Italia. La Gazzetta del popolo, il 14 febbr. '66, si fece "iniziatrice (cfr. l'articolo Consorzio nazionale del 16 febbraio) del solo modo di distruggere ogni rancore di municipio", dando "fuoco alla polveriera", destinata a far "saltare, in aria tutte le discordie municipali". Il 22 gennaio il ministro Scialoja, confermando la diagnosi del predecessore Sella, aveva sottolineato in Parlamento il pericolo del disastro finanziario incombente sullo Stato. Il B., cogliendo occasione dall'asta pubblica di beneficenza promossa dalla Società Gianduia, lanciò l'idea di un Consorzio nazionale per pagare il debito pubblico e risollevare le finanze del paese. La proposta, caduta in un clima di generale sfiducia e depressione, elettrizzò l'Italia. Le adesioni piovvero da ogni parte e da ogni ceto. Aderirono gli stessi avversari del B., i "convenzionisti" ed i più bei nomi della Destra storica da Capponi a Ricasoli, da Peruzzi a Minghetti, da Sella a Visconti-Venosta. Vittorio Emanuele II inviò al principe Eugenio di Carignano, che il B. aveva voluto presidente del Consorzio, l'offerta di un milione di lire. In pochi giorni furono sottoscritti 300 milioni.
Nonostante l'indubbio successo (il Consorzio durò fino al 1930, quando confluì nella Cassa di ammortamento del debito pubblico interno), l'iniziativa non portò, né poteva portare, al risanamento del debito pubblico (cfr. le considerazioni scettiche del Ferrara nella sua rubrica Finanze, in Nuova antologia, febbraio e marzo 1866, pp. 328-331 e 537-541, e soprattutto l'articolo di G. Baseggio, Il Consorzio nazionale,ibid., febbraio 1873, pp. 449-466).Essa ebbe tuttavia un notevole valore morale. Sensibilizzò l'opinione pubblica a un tema di vivo interesse generale, liberò il Piemonte da un po' di crosta municipale, additandolo come "l'ancora di salvezza" nel momento del pericolo, e, naturalmente, consolidò la popolarità del Bottero.
Con la conquista di Roma (dopo Mentana non si era stancato di ricordare agli uomini di governo l'idea cavouriana della patria inconcepibile senza Roma capitale) il B. vide realizzarsi "la parte principale e più popolare" del suo programma, "compiersi il vaticinio" dell'unità nazionale. Per la coerente e ardente lotta sostenuta per Roma capitale si sarebbe potuto attendere un successo alle elezioni generali del novembre 1870 e invece fu sconfitto in ballottaggio dal ministro Sella, sostenuto da quel monopolio di banchieri contro il quale aveva combattuto respingendo ogni compromesso. Dopo quindici anni di attività parlamentare il B. tornò quindi ad essere soltanto giornalista ("La nostra tribuna è nella stampa e questa non ci manca"), ricusando non solo di ripresentare la propria candidatura alla Camera, ma rifiutando recisamente anche il laticlavio offertogli da Depretis nel 1878 e 1883, da B. Cairoli nel 1880 e da Crispi nel 1887, persuaso "di essere più utile alla causa comune restando fuori del Senato e d'ogni posizione ufficiale" e desideroso soprattutto di non compromettere in alcun modo la propria autonomia politica.
Del resto la sua partecipazione alla vita parlamentare non era stata molto intensa. A parte la difesa dell'italianità di Nizza e di alcuni interessi locali e particolari, per non parlare dei tre interventi per fatto personale, tra cui quello relativo alla sua missione in Sicilia, gli interventi più significativi del B. furono quelli per le forze armate e gli ex combattenti, il clero e il culto, le tasse (di patente, scolastiche, per titoli di nobiltà), la cittadinanza e i soccorsi agli emigrati, l'istituzione della guardia nazionale, la redazione del codice civile, la riforma postale, il servizio sanitario, quello a favore del prestito dei 40 milioni, quello contrario all'istituzione del ministero, d'Agricoltura, quello per l'abolizione della pena di morte, ecc.
Secondo A. Colombo, si chiude a questo punto (anzi già dopo Mentana) la vita politica del B., "quello cioè che egli soleva chiamare il decennio del suo apostolato politico". Ma non si può sottovalutare l'importanza anche politica del successivo trentennio di milizia giornalistica del Bottero. Del resto, neppure prima del '70 l'impegno del B. e della Gazzetta era stato limitato al tema dell'unificazione nazionale nella cornice laica, monarchica e popolare. Si possono ricordare, tra l'altro, l'ardore posto nel propugnare e facilitare la realizzazione del progetto Sommeiller-Grattoni per prendere acqua dalla Stura, che suscitava l'entusiamo del Sella; le prese di posizione, suscitatrici di altro motivo di polemiche con i collaboratori Pisani e Mellino, circa l'articolazione amministrativa del nuovo Stato; i commenti favorevoli al corso forzoso nel '67. Dopo il '70 rimase dominante - dati i rapporti con il Vaticano - il motivo dell'intransigenza anticlericale (cfr. l'articolo del 26 maggio 1871), ma si andarono allargando, come accadeva per gli altri quotidiani, le istanze della Gazzetta del Popolo (riforma elettorale, diffusione e obbligatorietà dell'insegnamento elementare, modernizzazione dell'istruzione tecnica e superiore in genere con la creazione di grandi laboratori scientifici, estensione della pubblica beneficenza, sviluppo agricolo commerciale e industriale, protezionismo in favore delle piccole industrie meccaniche - in polemica con l'Opinione -, difesa delle banche di emissione minori e della loro facoltà di emettere biglietti a corso legale, questioni ospedaliere, miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione). In campo sanitario il B. condusse quasi da solo un'epica battaglia contro i diffusi pregiudizi e contro la politica sanitaria delle quarantene, sostenuta dai suoi stessi amici di governo, non disarmando se non dopo raggiunta la vittoria sanzionata dalla riforma sanitaria del 1888.
Sul terreno più strettamente politico si possono ricordare l'atteggiamento verso la Comune (condanna dell'estremismo, ma attribuzione di gran parte della responsabilità dell'insurrezione parigina agli "errori commessi dalla destra reazionaria"), la presa di posizione per una più decisa svolta a sinistra (marzo '76), l'appoggio alla tesi ministeriale favorevole alle alleanze singole e contraria ad una vera e propria fusione tra moderati e progressisti contro i candidati radicali (autunno 1882), l'azione svolta per comporre la frattura tra i deputati "frondisti" piemontesi e il governo Depretis (1885-'86).
Un grave dolore colpì il B. all'inizio del '75, quando Giuseppe Luciani, trentenne, volontario garibaldino del '66 e corrispondente della Gazzetta del Popolo da Roma, fu accusato di essere il mandante dell'assassinio - materialmente perpetrato da alcuni popolani di Trastevere - di Raffaele Sonzogno, deputato e direttore della Capitale. Al processo, che rappresentò uno degli avvenimenti politico-giudiziari più clamorosi dei primi anni di Roma capitale (vi furono chiamati a testimoniare, soprattutto per i risvolti politici, nomi illustri come Cavallotti, Zanardelli, Macchi, Minghetti, De Sanctis, Duprè: cfr. Resoconto del dibattito per l'assassinio di Raffaele Sonzogno - Cenni biografici degli accusati e sentenza della Camera di Consiglio del Tribunale di Roma, Roma 1875; A. L. Ferreri, Dai ricordi di un vecchio avvocato romano, Roma 1942, pp. 27-44), il B. testimoniò calorosamente a favore del Luciani, alla cui innocenza continuò a credere anche dopo la condanna dell'imputato all'ergastolo, non potendo ammettere che il giovane, da lui trattato come figlio (nonostante la propria "doppia famiglia di nipoti orfani" a cui provvedere, continuò a soccorrere la famiglia del Luciani per lunghi anni), si fosse potuto macchiare di un turpe delitto e avesse osato mentirgli.
Il B. in quegli anni avversava i governi della Destra. Ma neppure quando salirono al potere i suoi amici della Sinistra offrì loro un appoggio incondizionato, abbondando in incitamenti, ma non lesinando le critiche. Il fatto è che il B. riconobbe soltanto in Crispi, dopo Cavour, un'autentica natura di statista (sui rapporti di amicizia e di stima reciproca, nati al tempo della spedizione di Mentana cfr. il carteggio nell'Archivio storico della Gazzetta del Popolo).
Per Crispi il B. combatté l'ultima sua battaglia. Favorevole ad una grande politica coloniale, quando l'Italia fosse in grado di farla - ha scritto l'Amicucci -, contrario ad una politica coloniale "necessariamente inferiore", egli previde con precisione difficoltà e pericoli (coscienza nazionale impreparata, condotta militare incerta, pericolo di "eccitare le gelosie inglesi" nel Mar Rosso, rischio di guerre logoranti con le tribù africane). Tuttavia "il prestigio delle armi italiane" e "gli interessi creati in Africa sopra la fede dell'Italia" dovevano essere tutelati. Il B. quindi esaltò l'eroismo del maggiore Toselli ed aderì alla proposta dell'Italia militare di non più chiamare disastro il sacrificio della colonna di Amba-Alagi. Caduto, dopo Adua, Crispi, il B. fu coinvolto, la sera del 7 marzo 1896, in una dimostrazione ostile. Ma la fedeltà a Crispi, come del resto la fedeltà a Cavour, non fu mai partigianeria o servilismo. In effetti egli rivendicò sempre, come suo più ambito titolo di vanto, l'autonomia di giudizio e l'indipendenza dell'azione politica. Lo stesso Cavallotti, quando alla Camera accusò Crispi di asservire parecchi giornali con i fondi segreti, sentì il bisogno di liberare da ogni sospetto la "indipendente" Gazzetta del Popolo. Nel B. l'indipendenza poté infatti coesistere con la passione politica, che non fu, di norma, partito preso o cieco pregiudizio. Per questo l'onestà intellettuale e la buona fede gli furono riconosciute dagli stessi avversari.
Il B. morì a Torino il 16 novembre del 1897.
Fonti eBibl.: Torino, Museo del Risorgimento: Archivio storico della Gazzetta del Popolo, particolarmente le cartelle: B. deputato e uomo politico; Missioni politiche; "Lettere varie"; B. giornalista; Documenti per una biografia (due); Documenti familiari,testamento,documenti personali,albero genealogico; Corrispondenza con B. Cerri,B. Casalis ed altri; Processo Luciani; Partite cavalleresche; Sottoscrizione pei centocannoni di Alessandria; Spedizione dei Mille; Consorzio nazionale, ecc., oltre a quelli contenenti lettere di personaggi vari raggruppate secondo le rispettive iniziali; Ibid., Fondo Casalis, cartella 182, nn. 2-26 (il B. a Casalis), n. 52 (C. Pisani al B.), ma anche quasi tutte le altre riguardano il B. e la Gazzetta;Ibid., Arch. Museo,Carteggio B. 157/26 (Bertani al B., 2 nov. 1867; lettere di adesione al Consorzio nazionale); ibid., 157/146 (il B. a B. Cerri, 17 ott. 1875: gli affida l'archivio personale con facoltà di usarne a tempo e luogo); ibid.,Carteggio C, 158/39 e 40 (G. B. Cassinis al B.: questione romana, trasferimento della capitale, Francesi a Roma); Arch. Carutti, 59/29 (il B. a D. Carutti, 12 febbr. 1892); Arch. Govone, 7/5 n. 10 (G. Govone al B., 18 ag. 1886); Arch. Levi, 27/43 (il B. a D. Levi, 4 genn. 1893); Arch. di Stato di Torino, sez. I, Gabinetto Min. Interni, fasc. Giornali in cartelle varie; Istruz. pubblica, Revisione libri e stampe, n. 7 (giornali); Torino, Archivio della Gazzetta del Popolo, varie, busta IV, n. 1089; Archivio di Stato di Palermo, Carte Crispi, fasc. 114, n. XLIII (Crispi al B., Genova, 20 luglio 1861; chiede smentita alle accuse rivolte ai deputati meridionali) e fasc. 146, n. XXXII (Crispi al B., Torino 25-29 ott. 1867); Roma, Arch. Centr. d. Stato, Carte Depretis, s. I, busta 27, fasc. 99; Ibid., Carte Giolitti, busta 8, fasc. 119; Roma, Museo Centrale del Risorgimento, 305/62 (il B. a D. Farini, 5 nov. 1882: invito a mantenere la candidatura a Torino). C. Arrighi, G. B. B. e P. C. Boggio, in I 450 deputati del presente e i deputati dell'avvenire, II, Milano 1864, pp. 85-93; C. Pisani, La Gazzetta del Popolo di Torino e la situazione politica, Torino 1866, passim; Discorsi pronunziati per l'occasione delle onoranze al dottor B.,29 dic. 1889, Torino 1890; V. Bersezio, G. B. B. e Casimiro Teja, in Nuova antologia, 16 dic. 1897, pp. 710-719; In memoria di G. B. B. nel giorno anniversario della sua morte - 16 nov. 1898, Torino 1898; G. Faldella, Tribuni e Tribune, Torino 1911, pp. 223-231; T. Palamenghi-Crispi, Carteggi politici inediti di F. Crispi (1860-1900), Roma 1912 (lettere del B. o al B. alle pp. 283, 290, 304, 312, 316, 522); F. Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano, Bari 1913, pp. 146, 175; P. L. Caire, Per il centenario della nascita di G. B. B. - Cenni storico-biografici, in Fert, dic. 1922, n. 11, pp. 5-27; G. 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B. giornalista del Risorgimento, Torino 1935 (fondamentale, ma con significative lacune ed altrettanto significative insistenze dato "l'ardente autunno guerriero" e il clima di celebrazione fascista in cui apparve - su certi atteggiamenti - presentati quasi come precursori - del B. verso, per es., talune disfunzioni dell'istituto parlamentare, verso l'esercito forte, la politica coloniale e il movimento socialista); Le carte di Giovanni Lanza, III, Torino 1936, passim;V, ibid. 1937, pp. 12, 31; X, ibid. 1941, pp. 97, 107-110, 137, 293; M. Sobrero, Un giornalista del Risorgimento a Torino: G. B. B., in Nuova antologia, 1º genn. 1936, pp. 112-115; G. Alberti, La storia medica dello scorbuto e il dottor G. B. B., in Sapere, 15 apr. 1937; D. C. Eula, La Gazzetta del Popolo nel suo novantesimo anno (16 giugno 1848-16 giugno 1938), Torino 1938 (particolarmente il capitolo "Commemorazione di G. B. B. giornalista del Risorgimento", alle pp. 63-71); F. Meda, Figure dell'800. G. 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