BREMBATI, Giovanni Battista
Nacque a Bergamo nel 1509 dal conte Marco Coriolano e da Maddalena Gambara. Rivoltosi, sull'esempio del padre, al mestiere delle armi, servì dapprima la Repubblica veneta: lo si ricorda nell'agosto del 1551 incaricato, assieme a Bonifacio Agliardi, di controllare che le milizie imperiali attraversando la Valcamonica, dirette dalla Germania a Milano, non arrecassero danni in territorio veneto. Ma soprattutto si distinse al servizio della Spagna, raggiungendo nel 1556 il grado di colonnello col quale militò contro i Francesi agli ordini del duca d'Alba e poi del duca di Sessa, sino alla pace di Cateau-Cambrésis. Sulla campagna in Piemonte del 1558-59 rimane una sua lettera al vescovo di Verona Agostino Lippomano (Lettere di principi,le quali si scrivono da principi,o a principi,o ragionan di principi, I, Venezia 1573, pp. 205 s.).
All'esercizio delle armi il B. accompagnava assiduamente quello delle lettere: rimane, inedito nella Biblioteca Ambrosiana, un suo trattatello sulla Milizia del mare;ma soprattutto indulse alla poesia con liriche che gli valsero, oltre all'affiliazione all'Accademia pavese degli Affidati, la considerazione di noti letterati contemporanei: da Pietro Aretino a Veronica Gambara, da Vittoria Colonna a Lodovico Dolce a Girolamo Ruscelli, che gli dedicò un'edizione del Decamerone pubblicata a Venezia nel 1552 e raccolse alcune sue rime nell'antologia Ifiori delle rime de' poeti illustri (Venetia 1558, pp. 165-169). Certo queste relazioni rappresentavano la parte più notevole delle attività letterarie del B., ché la sua produzione poetica non sembra come tale di particolare rilievo; semmai essa ha qualche interesse come testimonianza di costume e come prova delle simpatie politiche del B., per la sua insistenza sui sentimenti cavallereschi, l'esaltazione delle gesta militari spagnole e il suo civettare con la lingua dei dominatori.
Il nome del B., del resto, rimane soprattutto legato alla annosa e feroce contesa faziosa che lo oppose a Giovanni Gerolamo Albani; un contrasto che traeva origine dalla tradizionale emulazione delle due famiglie, eminenti in Bergamo, e si inaspriva ora - nella gara al prestigio ed alla preminenza politica cittadina - per le fortune e il favore che il B. e l'Albani godevano rispettivamente presso gli Spagnoli e presso la Repubblica veneta.
Come era nell'angusta logica consortile della vita provinciale, i contrasti, i risentimenti, le ambizioni della cittadinanza si andarono largamente canalizzando intorno all'animosità dei due rivali e delle loro famiglie, esasperandola e spingendola ai più gravi eccessi e ad un sistematico turbamento dell'ordine che era fonte inesauribile di preoccupazione per le autorità veneziane. A complicare le cose si aggiungevano le potenti protezioni che il B. poteva invocare presso il governatore milanese e la stessa corte di Madrid, cui l'Albani, che aveva il grado di collaterale generale nell'esercito veneto e che era intimo di Michele Ghislieri, il futuro papa Pio V, opponeva quelle, altrettanto influenti, di cui disponeva a Venezia ed a Roma.
Dopo alcune schermaglie preliminari fu l'Albani ad aprire le ostilità, accusando fonnalmente H B., con una denunzia presentata ai rettori bergamaschi nel gennaio 1557, di aver ricevuto dagli Spagnoli il grado di colonnello, in premio di "servitii grandi che detto conte aveva fatto e facea in fare avisi" (Belotti, p. 17). La gravissima accusa di spionaggio, benché sostenuta dall'alta carica pubblica dell'accusatore e sapientemente congegnata, non ottenne i risultati che si proponeva, giacché i rettori bergamaschi la lasciarono cadere senz'altro: prova, da una parte, che essa doveva essere sostanzialmente priva di fondamento, e dall'altra che il collaterale generale non era disposto a tralasciare alcun espediente per arrecare danno all'emulo. Il fallimento di questo passo dovette esasperare gli Albani: di qui il tentativo - che fa risalire a questa famiglia la responsabilità maggiore della contesa faziosa - di eliminare fisicamente l'avversario. Fu il primogenito del collaterale, Giovanni Francesco, nell'ottobre del'1560, ad organizzare con alcuni sicari l'attentato contro il B.: questi scampò in virtù della sua destrezza di schermitore e del valido aiuto di alcuni bravi, e il 26 ottobre chiese l'intervento del governatore di Milano, marchese di Pescara, presso le autorità venete, cosa che l'Avalos si affrettò a fare quattro giorni dopo, chiedendo ai rettori di Bergamo un'esemplare punizione degli aggressori di "quello servitore di Sua Maestà et a noi affettionatissimo" (ibid., p. 19). Così la Repubblica non poté evitare di intervenire e nel processo seguitone Giovanni Francesco Albani fu condannato il 10 dic. 1560 a due anni di confino a Venezia.
Evidentemente la condanna dovette sembrare (e in realtà fu: l'influenza del collaterale generale era ancora notevole) troppo mite al B., donde la sua decisione di provvedere direttamente alla vendetta. Ma un complotto per uccidere a Venezia il giovane Albani fu scoperto in tempo e il B., di cui il Consiglio dei dieci ordinò l'arresto il 20 nov. 1561, fu costretto a salvarsi con la fuga. Nel processo, celebrato contro di lui il 26 ott. 1562, fu condannato al bando perpetuo dal territorio veneto. Il B. trovò un comodo rifugio a Milano presso il Pescara e poi presso il suo successore, duca di Albuquerque, a quanto pare anche con la lontana, ma decisiva protezione di Filippo II.
Intanto però a Bergamo le due fazioni continuavano nella gara delle ingiurie, delle risse, degli attentati. Invano i rettori bergamaschi cercavano di concordare una pacificazione tra i due partiti: anzi, quando un ennesimo tentativo intrapreso dal podestà Marcantonio Morosini sembrava che dovesse ottenere qualche risultato per la minaccia di un diretto intervento del Consiglio dei dieci, e già il fratello minore del B., Achille, e Giovanni Girolamo Albani sembravano decisamente orientati a un accordo, un proditorio attacco di una schiera di sgherri al comando di un figlio del collaterale, Giovan Domenico, contro Achille Brembati, massacrato a colpi di pistola e di archibugio nella chiesa di S. Maria Maggiore, il 1º apr. 1563, diede alla contesa un corso ancora più preoccupante.
Questa volta il Consiglio dei dieci intervenne drasticamente, facendo arrestare Giovanni Girolamo Albani e i suoi figli Giovanni Francesco e Giovanni Battista (Giovan Domenico riuscì in tempo a scampare a Ferrara). Le condanne furono proporzionate alla grande riprovazione che lo scempio del Brembati aveva suscitato nell'opinione pubblica, non soltanto bergamasca, riprovazione aggravata dal carattere sacrilego del delitto: Giovan Girolamo Albani, privato della carica di collaterale generale, fu condannato per cinque anni al confino a Lesina, scaduti i quali era bandito perpetuamente dal territorio della Repubblica; condanne analoghe furono inflitte ai due figli catturati, mentre Giovan Domenico, pur condannato a morte come il maggiore responsabile del misfatto, se la cavò con il minor danno, giacché la giustizia veneta non riuscì mai a raggiungerlo.
Ma il B. cercava più completa vendetta: nel maggio del 1564 un lontano cugino degli Albani, G. B. Grumelli, fu ucciso a colpi d'archibugio da sicari, capeggiati da un noto famiglio del Brembati. La replica dei magistrati veneti, che il 26 luglio condannarono a morte il contumace B. e posero una grossa taglia su di lui, fu prontissima, ma quasi patetica nella sua inefficacia, giacché il B. fece subito valere la protezione di cui godeva a Milano: l'Albuquerque infatti ignorò la condanna e anzi concesse al B., il 17 agosto, di aumentare la propria scorta di bravi. Ancor più la condiscendenza degli Spagnoli per il B. si manifestò in occasione dei tentativi degli Albani per ottenere grazia dalla Repubblica. Essi contavano ancora potenti relazioni, non soltanto a Venezia, ma anche alla corte di Francia e persino - tramite questa - a quella di Costantinopoli. Tra l'agosto e il settembre del 1565, infatti, l'ambasciatore francese a Venezia e, per lettera, il primo pascià, richiedevano al Consiglio dei dieci la mitigazione delle pene contro gli Albani. La Repubblica seppe valorosamente resistere a queste pressioni, ma nello stesso tempo il B., che certamente non le ignorava, le bilanciava sollecitando da Filippo II (lo stesso B. si recò a Madrid in questa circostanza) il bando perpetuo degli Albani e dei loro complici da tutti i territori della corona cattolica, cosa che il sovrano concedeva con una patente in data 23 marzo 1566. Filippo II in questa medesima occasione gratificò il B. di una pensione annua di 600 scudi, ulteriore prova della benevolenza che il colonnello bergamasco godeva in quella corte.
A Bergamo la situazione nell'ordine pubblico precipitava, come avvertivano il 27 maggio 1567 i rettori, "essendo potemo dir di certo tutta la città divisa in due parti, cioè Brembata et Albana", così da temere "pericolo grande" non solo per la quiete cittadina, ma "forse ancor, che Dio non voglia, con qualche interesse di questa fortezza" (Belotti, pp. 79, 81). E allora il Consiglio dei dieci si decise a un passo decisivo: nel giugno 1567 fece pressioni tali sui principali esponenti delle due fazioni rimasti a Bergamo, che questi giudicarono più conveniente addivenire a una pubblica pacificazione.
A questa finalmente, nel 1568, si rassegnava ad aderire anche il B., il quale aveva cominciato ad avvertire qualche segno di stanchezza nei suoi protettori spagnoli, cui probabilmente non erano estranee le pressioni che sull'Albuquerque aveva cominciato a esercitare contro il B. il cardinale Carlo Borromeo, su istanza della Curia romana, dove Giovanni Girolamo Albani era più che mai influente dopo l'elezione al pontificato dell'amico Ghislieri. Il consenso del B. alla pacificazione non valse per il momento a mitigare il rigore della giustizia veneta. Ma quando la Repubblica, nel 1572, si vide costretta ad annullare la condanna contro Giovanni Girolamo Albani, divenuto nel frattempo uno dei cardinali più influenti di Curia, si apriva anche per il B. la strada a un provvedimento di clemenza che veniva caldeggiato presso i Dieci anche da don Giovanni d'Austria. In effetti il 30 genn. 1573 il B. veniva graziato, con la condizione tuttavia che non tornasse a Bergamo.
Il B. morì a Milano il 4 luglio dello stesso anno.
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, p. 2045; B. Belotti, Una sacrilega faida bergamasca del Cinquecento, in Arch. stor. lomb., LIX(1932), pp. 1-109; R. Magdaleno Redondo, Papeles de Estado. Milan y Saboya (siglos XVI y XVII). Catalogo XIII del Archivo de Simancas, Valladolid 1961, pp. 105, 117.