CAMPEGGI, Giovanni Battista
Nacque a Bologna nel 1507 da Lorenzo - poi cardinale - e da Francesca Guastavillani. Ebbe una prima formazione di tipo umanistico nella casa paterna, sotto la guida dei precettori scelti dal padre per lui e i suoi fratelli; fu particolarmente legato a Lazzaro Bonamico col quale lo troviamo in rapporto a Padova negli anni dei suoi studi di diritto, conclusi nel 1532 presso quella università con la laurea in utroque iure. Con l'ambiente universitario padovano il C. restò in contatto anche negli anni successivi, seguendo con particolare interesse le vicende di professori famosi, tra i quali lo stesso Bonamico e Romolo Amaseo, e facendosi informare regolarmente di quanto vi avveniva da Marco Antonio Passero Genoa, sicché la corrispondenza di questo col C. (Archivio Malvezzi-Campeggi, s. III, f. 7/531 e 9/533) è una fonte importante per la vita dell'università di Padova intorno alla metà del sec. XVI.
Esplicite e ripetute dichiarazioni del C. danno prova della sua scelta a favore di interessi umanistici e letterari, a discapito di quelli giuridici ed ecclesiastici che caratterizzavano la tradizione della famiglia. Il 20 sett. 1533, per esempio, scriveva al padre lamentando di vedersi costretto a rinunciare, in conseguenza delle decisioni paterne, ai suoi studi ed ai rapporti con Lazzaro Bonamico, poiché - concludeva - "ex eo tempore quo aliquid de rebus humanis iudicare potui, nihil umquam studiis literarum duxi praeclarius" (ibid., s. II, f. 60/297).
A quella data il C. era già stato eletto vescovo di Maiorca e una tale dichiarazione corrispondeva ad un proposito di disimpegno nei confronti della propria diocesi che fu costantemente mantenuto. La diocesi di Maiorca gli fu concessa dietro presentazione di Carlo V, il quale volle così premiare l'operato del padre Lorenzo, a cui fu riservata da Clemente VII la collazione dei benefici. Dopo l'elezione, avvenuta il 25 sett. 1532, il C. nominò proprio vicario e procuratore lo zio Marco Antonio Campeggi, il quale gli rese regolarmente conto della propria amministrazione. Il C. limitò i suoi rapporti con la diocesi alla riscossione delle rendite e alla distribuzione dei benefici, con una linea di condotta in cui, accanto alla cura degli interessi familiari, è possibile identificare un atteggiamento di tipo mecenatesco verso letterati e scrittori: figure, infatti, come quella di Lilio Gregorio Giraldi trovarono presso di lui ascolto e protezione.
Il C. invece fu del tutto indifferente ai reiterati appelli che gli giungevano dal clero e dal popolo di Maiorca perché si decidesse a recarsi in diocesi per visitarla e risiedervi. Ancora nel 1541chiese ed ottenne un rinvio per ricevere la consacrazione episcopale. Il 19 febbr. 1549 il capitolo dei canonici della cattedrale gli inviò una lettera nella quale si augurava di vederlo finalmente "visitare questa sua sposa, la quale passano cinquanta anni che non ha visto sposo; et però suplicamo - continuavano i canonici - molto humilmente a V.S. si voglia dignare visitare questa sua diocesi quanto più presto sia possibile perqué tutto lo suo grege gusti dil frutto il quale di la presentia de V.S. espetta, la quale satisfarà molto ala reformatione de cose necessarie, le quale en altra maniera no retrovaranno remedio" (ibid., s. III, f. 9/533). Appelli di questo tenore ed ancor più espliciti vennero accumulandosi fra le carte del C. e costituiscono una parte non secondaria del suo archivio privato: il tipo di risposta che ad essi fu dato emerge chiaramente dal fitto carteggio col quale i vicari e procuratori del C. a Maiorca lo tennero informato sull'ammontare delle rendite e sui vari sistemi sperimentali per ottenere il pagamento di decime esose.Gli interventi che il C. tentò di effettuare da lontano nella vita della sua diocesi furono scarsi e di esito infelice. Nel 1545, per esempio, promosse un inizio di riforma dei monasteri femminili consistente nel rinnovare ogni anno i confessori; ma la resistenza delle monache di S. Margherita dimostrò la difficoltà di raggiungere obiettivi pur così limitati senza risiedere in diocesi. Non si può dire, comunque, che la morte del card. Lorenzo e il passaggio della direzione effettiva della diocesi nelle mani del C. comportassero un qualche cambiamento nelle strutture ecclesiastiche e nella vita religiosa maiorchina; i documenti ufficiali della diocesi continuarono a registrare la concessione di benefici e prebende ad una folla di personaggi appartenenti alla famiglia Campeggi o ad essa in vario modo collegati. Cominciò invece a farsi più viva e continua la reazione contro quel tipo di gestione dell'autorità episcopale.
Il comportamento dei numerosi amministratori e procuratori inviati dal C. fu spesso causa di dissapori con le autorità politiche e religiose di Maiorca. Uno di essi in particolare, Gian Paolo Varo, fu al centro di un lungo conflitto col viceré; quest'ultimo nel 1551, durante uno dei periodici lavori di riparazione delle mura per difendere l'isola dalle scorrerie dei corsari, aveva requisito d'autorità gli schiavi dei canonici della cattedrale. La reazione fu immediata: il viceré si vide intimare un monitorio per la restituzione degli schiavi e, dopo solo un giorno, fu colpito dalla scomunica in quanto colpevole di aver occupato i beni temporali della mensa episcopale. Il conflitto raggiunse rapidamente toni aspri poiché il viceré si appellò all'imperatore, mentre il C. faceva intervenire il card. Madruzzo e tutta la rete della sua potente parentela.
Il Varo attizzò i motivi del dissenso, facendo mostra di zelo religioso nell'addossare ogni colpa al viceré: "le cose di questa isola - egli scriveva al C. - pigliano qualche sinistroso camino tra questi popoli grossi et ignoranti sì per conto delli affari ecclesiastici sì ancho secolari, il qual camin poi con difficultà si possa ridrizzare verso la man destra, che non vi sie incorso qualche scandalo d'heresia, o di germania" (lettera datata 15 giugno 1551, ibid., s. III, f. 10/534). Ma i motivi reali delle preoccupazioni del C. e di tutti i suoi familiari erano piuttosto legati alla sorte delle rendite: c'era il rischio, cioè, che l'indebolimento dell'autorità ecclesiastica da parte di quella politica fornisse un buon motivo ai contadini per non pagare le decime. Il Varo lo riconosceva in una lettera ben altrimenti chiara ed esplicita: "la qual giurisdicion venendo al manco, le rende ancho se anichileranno, perché la giurisdicion è che mantiene in riputation tutto il rimanente" (a Giovanni Campeggi, da Maiorca, 5 luglio 1551, ibid.). Un altro scontro di notevole asprezza si ebbe nel 1554, quando lo stesso Varo fu ricompensato dal C. con un beneficio canonicale, del quale prese possesso nonostante l'opposizione del viceré e di alcuni canonici, contro i quali fece comminare la scomunica.
Questi e analoghi problemi erano aggravati dalla lontananza del C. dalla sua diocesi. Per sfuggire all'obbligo della residenza, che gli veniva ricordato da più parti, egli ricorse a tutti i mezzi possibili; al viceré di Maiorca che gli aveva rivolto un appello in questo senso il C. scrisse: "quanto all'esshortatione ch'ella mi fa circa il venire mio a Maiorica... al presente con molto mio dispiacere ripugna il carico ch'io tengo di qua di trovarmi a questo concilio" (lettera datata Bologna 19 dic. '45. ibid., s. II, f. 60/297). All'alibi del concilio dovette ricorrere anche in seguito; per esempio, nel 1552 fece inviare a Maiorca un attestato di Angelo Massarelli nel quale si faceva fede della sua presenza a Trento. Ma si trattava di un alibi fragile, poiché all'imperatore era nota la sua repugnanza a impegnarsi nelle attività conciliari, tanto che già nel 1546 se ne era lamentato col nunzio Verallo (Nuntiaturberichte aus Deutschland..., p. 174) e nel 1550 lo aveva invitato a risiedere in diocesi (Concilium Tridentinum, XI, p. 604).
Pressioni così autorevoli non potevano essere ignorate del tutto: fu così che per qualche tempo il C. fece credere di essersi rassegnato alla sgradita incombenza. Di un suo progetto di recarsi a Maiorca parlano sia una lettera del fratello Alessandro (del 2 apr. 1550, Arch. Malvezzi-Campeggi, s. III, f. 10/534), sia un breve di Giulio III (datato 9 apr. '50, ibid., s. II, f. 60/297, fasc. 2) col quale gli furono conferiti i poteri di legato apostolico. Contemporaneamente, però, egli si adoperava per cedere la propria diocesi a buon prezzo ("per li 4 mila ducati di pensione", scriveva Giovanni Campeggi il 3 sett. '50, ibid., s. III, f. 10/534) o per farne permuta con altra più comoda e non soggetta a Carlo V, sempre più attento alle lamentele del clero e del viceré di Maiorca.Nella ricerca della persona più indicata per un simile affare il C. si mosse ignorando la tradizionale politica familiare che tendeva a far ruotare i benefici più importanti nell'ambito della parentela, e ciò gli fu rimproverato dal fratello Alessandro. Anche Gabriele Paleotti fu tra le persone che vennero raccomandate da lui come eventuali successori. Le trattative in questo senso si fecero più intense con l'aumentare delle lamentele degli abitanti di Maiorca, che indirizzarono a Carlo V, il 20 febbr. '55, una richiesta formale di obbligare il vescovo alla residenza.
L'invio nel 1556 di un ennesimo vicario nella persona del francescano F. Salazar si rivelò un pessimo rimedio: "questo vescovo - scriveva G. P. Varo l'8 genn. '57 - è così buono per governo come l'asino per volare; donde il grege duole che doppo tanto aspettare il pastore glie sia gionto un tal mercenario" (ibid., s. III, f. 12/536). Le malefatte del Salazar furono tali e tante che il C. dovette intervenire drasticamente e destituirlo.
La liberazione da tutti questi problemi giunse il 4 nov. '58 con la rinuncia alla diocesi in cambio di una pensione annua di 5.000 ducati. Da questo momento però il nome di Maiorca non scomparve dalle carte del C., anzi vi tornò con frequenza ancor maggiore che per il passato, date le difficoltà di riscuotere regolarmente la pensione e di ottenere altri compensi da Filippo II. Numerose lettere, indirizzate di volta in volta a Pio IV, Pio V, Filippo II, al Consiglio d'Italia, al Granvelle, documentano l'interesse del C. per la chiesa di Maiorca, "chiesa molto honorata - come egli stesso scriveva - et che s'affitta ottomila scudi l'anno" (lettera del maggio '69, senza destinatario, ibid., s. II, f. 60/297, fasc. 4).
Anche nei confronti del concilio di Trento il C. tese costantemente a evitare ogni impegno. Solo il periodo bolognese del concilio lo vide completamente a suo agio nelle vesti di padrone di casa. Fino all'apertura del concilio il C. aveva trascorso la sua vita tra Padova, sede dei suoi studi, Pavia (dove insegnò diritto canonico) e Bologna, dove curava gli interessi familiari (vi ricevette, a nome del padre, il card. Pole nel 1537). Le sue maggiori preoccupazioni erano state dedicate all'accaparramento di benefici ecclesiastici (per uno di questi, l'abbazia dei SS. Fabiano e Sebastiano di Val di Lavino, era entrato in conflitto con Marcantonio Flaminio). Il primo avviso delle complicazioni che il futuro concilio era destinato a portare in un'esistenza così ordinata venne al C. da una lettera del fratello Rodolfo nella quale si accennava - dietro informazioni dello zio Tommaso, vescovo di Feltre - all'inclusione del suo nome nella lista dei prelati la cui presenza era ritenuta necessaria fin dall'inizio dei lavori a Trento (lettera datata Bologna, 8 febbr. '43 ibid., s. III, f. 7/531). La cosa, per il momento, non ebbe seguito; ma nel 1545 il problema si ripropose più concretamente.
Il 4 aprile di quell'anno lo zio Tommaso gli scrisse invitandolo a recarsi senz'altro a Trento, dove la presenza sua e di altri come lui avrebbe scongiurato il pericolo che il concilio "si rendesse inobediente et contumace" nei confronti del papa (ibid.). Si poteva, a suo avviso, "comodamente... ritardare sino ala fine de aprile o principio de magio", ma la consapevolezza della posta in gioco e l'invito a non mostrarsi pigri in un tal momento erano sottolineati nelle lettere successive di mons. Tommaso nelle quali, oltre a dargli istruzioni minuziose sull'apparato col quale mettersi in viaggio, lo invitava ad alloggiare seco per farsi meglio guidare nei lavori conciliari (lettera del 9 apr. '45, ibid.).
Cedendo alle ripetute insistenze, il C. si recò a Trento, dove giunse il 24 aprile. Ma fu subito chiaro quanto poco condividesse le idee dello zio e come diversamente intendesse utilizzare la potente rete familiare. Adducendo un'indisposizione - una gotta che lo tormentò particolarmente in concomitanza con le varie sessioni conciliari - fece fare "gagliardo ufficio" al fratello Alessandro per ottenere "licentia di ritornare a Padova" (lettera di Alessandro Campeggi del 13 giugno, ibid.). Il fratello chiese ed ottenne l'intervento del card. Farnese presso i legati al concilio, ma poiché la cosa sembrava andar per le lunghe, il C. partì per Abano senza attenderne l'esito.
Questa tendenza del C. ad evitare ogni tipo di impegno nei lavori conciliari era incoraggiata dall'atteggiamento dominante in Curia, del quale i prelati suoi parenti si facevano interpreti presso di lui con un fitto carteggio. Giovanni Campeggi gli scriveva da Roma il 9 dic. '45: "Si tiene pur che domenica s'habbi d'aprire il concilio ancora che siino molti che non lo credino" (ibid.). Tra quei molti c'era anche suo fratello Alessandro, che lo incoraggiava a non prendere sul serio gli inviti ufficiali a recarsi a Trento. Una volta ripresi i lavori conciliari, il C. dovette (sia pure in ritardo e di malavoglia) decidersi a prendervi parte, il che avvenne a partire dal 7 marzo '46. Ma i suoi corrispondenti romani, che lo avevano consigliato fino ad allora a temporeggiare, continuarono a lasciar trapelare senza mezzi termini la loro sfiducia; e, poiché il contenuto di queste lettere non rimase segreto, furono in molti a Trento a considerare la potente famiglia Campeggi come uno specchio fedele degli orientamenti della Curia romana ed a giungere all'ovvia conclusione "che il Concilio non piacesse a Nostro Signore", del che ebbero a lamentarsi i legati (lettera al card. Farnese del 21 marzo '46, in Concilium Tridentinum, X., p. 426).
Il contributo del C. ai dibattiti tridentini non brillò certo, né allora né in seguito, per la sua originalità; il partito curiale ebbe in lui un fedele e verboso ma scolorito partigiano, preoccupato solo di evitare che si imponessero ai vescovi carichi troppo gravosi (come l'obbligo di predicare). Una sua accusa di eresia al generale dei serviti nella congregazione generale del 4 giugno lo rivela non troppo esperto in materie teologiche. L'ultimo suo intervento prima di lasciare la città fu dedicato a prospettare i pericoli incombenti sui membri dell'assemblea a causa delle guerre in corso. Non si trattava di un avvertimento generico, ma di un vero e proprio senso di paura per la propria vita; subito dopo lasciò infatti Trento per Bologna, suscitando le ire congiunte dell'imperatore e del papa. Mentre Carlo V minacciava di rivalersi sulle rendite della diocesi di Maiorca, da Roma venivano messi in moto tutti gli strumenti per costringerlo a tornare al concilio.
Il 21 agosto un richiamo agli ordini di scuderia gli venne dal cardinal camerlengo e dal nunzio a Venezia, che gli scrisse facendogli presente "quanto Nostro Signore desidera che nel decreto della iustificatione et residentia intervenghino tutti i prelati per essere articulo di tanta importanza; et perché io - continuava il nunzio - son servitore di V.S. come ella sa, pigliarò ardire di ricordarle che le occasioni di servire i patroni vengano rade volte, et però non è da lasciarle" (Arch. Malvezzi-Campeggi, s. III, f. 8/532).
Il C. si vide perciò costretto a rinunciare alle scuse ed ai pretesti fino ad allora usati ed a parlar chiaro; incaricò quindi il fratello Alessandro di trasmettere al cardinal camerlengo una sua lunga lettera dalla quale traspariva lo smarrimento.
In essa, dopo aver ricordato che c'era una guerra in corso, scriveva: "Applicar l'animo a cose importanti, come sono le cose della fede et della riformatione, con timore di perdere la vita et la robba, è cosa impossibile... La complessione et natura mia è di tal qualità, né in poter mio è di mutarla, "onde, essendo così, non posso vergognarmi di dire d'esser partito per paura da Trento et per paura non potervi ritornare" (lettera datata 28 agosto, ibid.).
La lettera non giunse mai a destinazione: Alessandro, che doveva esserne il latore, era più accorto del fratello, e ritenendo "non honorevole" una simile giustificazione, gliene suggerì una diversa e più accettabile, per chi aveva del concilio una visione esclusivamente politica: dati i contrasti tra partito imperiale e partito curiale e poiché il C. apparteneva sì al secondo ma aveva un vescovato in Spagna (e come tale era soggetto all'imperatore), poteva scusare la sua assenza da Trento col "non poter satisfare a tutti" i suoi padroni (lettera del 4 settembre, ibid.). Questa fu la soluzione adottata, anche se lo zio Tommaso disapprovò un simile comportamento e cercò di toccare nel C. la corda più sensibile, quella degli interessi e della "robba", ricordandogli che "se ben la dice ch'il Concilio non ha bisogno di lei, essa però ha bisogno del concilio" (lettera del 10 novembre, ibid.).
Dopo la parentesi bolognese del concilio, che si svolse letteralmente in casa sua, il C. tornò a Trento il 16 maggio 1551. Partecipò attivamente ai lavori, sia pure senza contributi di particolare interesse e riempendo le sue lettere di lamentele sulla propria salute e sulla gravosità degli impegni.
Documento singolare ed a suo modo rivelatore delle qualità umane e del bagaglio culturale con cui il C. contribuì ai lavori conciliari è il discorso solenne da lui pronunziato il 25 genn. 1552 e subito richiestogli da Venezia per esser dato alle stampe (lettera di fra' Lorenzo da Venezia, datata "carnevale 1553", ibid., s. III, f. 11/535: il discorso è riprodotto in Concilium Tridentinum, VII, pp. 500-504). Esso è tutto una lode del coraggio dei padri conciliari per i rischi che hanno consapevolmente affrontato recandosi a Trento in tempi così pericolosi; di fronte a tali meriti, tanto più assurda appare al C. l'accusa che si muove ai vescovi di comportarsi da mercenari nelle loro diocesi e di mirare solo alle rendite trascurando tutto il resto: si tratta di una voce diffusa, "nobis vero admodum periculosa" concludeva il C., avvertendo implicitamente i padri conciliari dell'inopportunità di insistere troppo su questioni come l'obbligo della residenza e i relativi abusi. Coerentemente con quest'assunto, il concilio - accostato, con immagine che doveva avere ben altra fortuna, alla guerra di Troia - veniva visto come finalizzato unicamente alla lotta contro gli eretici.
Abbandonata la diocesi di Maiorca, niente venne più a disturbare gli ozi umanistici dei suoi ultimi anni, trascorsi tra Bologna e la villa fuori città, pomposamente chiamata "Tusculano". Qui, assieme al teologo fra' Giulio Serena, si raccoglievano eminenti rappresentanti della cultura e della nobiltà bolognese, da Carlo Sigonio al senatore Francesco Bolognetti, al quale il C. dedicò l'epistola De Tusculana villa sua (edita a Bologna, nel 1567 e qui ristampata nel 1571). Dispensò parte delle sue molte ricchezze in donazioni a conventi ed opere pie ed in sovvenzioni a studiosi e letterati. Una generosa donazione di 1.000 scudi all'anno fu da lui destinata alle spese della guerra contro i Turchi. Il 9 febbr. 1571 fu istituita, grazie a una sua dotazione di 200 scudi annui, la nuova dignità capitolare del primiceriato nella cattedrale di Bologna, col patto che venisse conferita a Giacomo Zanchi, suo figlio naturale e che restasse di giuspatronato della famiglia Campeggi.
Morì a Bologna il 7 apr. 1583.
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