CAPUANI, Giovanni Battista
Nacque a Vallata nella diocesi di Bisaccia, ora in provincia di Avellino, il 20 maggio 1669 da Giovanni Pietro e da Lavinia Ciufrà. Avviato alla vita ecclesiastica, il C. fu ordinato sacerdote il 16 giugno 1696 e andò a completare gli studi a Roma, ove ottenne la laurea in utroqueiure presso l'archiginnasio della Sapienza il 19 febbr. 1700. Ritornato nel Regno di Napoli, come era consuetudine per molti ecclesiastici che miravano ad una vita agiata, cercò di ottenere un vicariato vescovile, primo passo per il raggiungimento dell'episcopato. Nel 1704 fu finalmente scelto da mons. P. P. Mastrilli, vescovo di Mottola, come vicario, ricoprendo questa carica per quasi dieci anni, fino al 1713, e dimostrandosi, particolarmente quando dovette reggere per diciotto mesi la diocesi in assenza del titolare - come attestavano i canonici nel 1713 (Proc. Dat. 106, f. 551) -, "nella amministrazione della Giustizia... zelantissimo, ed incorrotto non declinando neque ad dexteram neque ad sinistram..., propugnatore acerrimo dell'immunità ecclesiastica" e dotato di "semplicità di vita".
Ritornò, quindi, a Roma, dal 1714 al 1718, nella speranza di stringere più importanti relazioni, utili per la sua carriera: divenne protonotario apostolico e il 12 marzo 1718 ottenne l'elezione a vicario generale dell'arcidiocesi di Bari, ove non dovette rimanere a lungo. Infatti, in un documento del 26 ott. 1722 figura esaminatore e giudice sinodale della diocesi di Sant'Angelo dei Lombardi e, subito dopo, vicario generale del vescovo di Terracina, Sezze e Priverno, ultima tappa verso l'agognata promozione vescovile.
Fu destinato, infine, a reggere la diocesi di Belcastro, il 23 dic. 1729, e venne consacrato a Roma il 31 dicembre dal cardinale A. M. Querini. Effettuata la sua prima e unica visita ad limina nel gennaio 1730, raggiunse la propria residenza, ove intendeva trascorrere in quiete gli ultimi anni. Ma Belcastro non era certo il luogo più adatto per la realizzazione delle aspirazioni del C.; ormai anziano e in precarie condizioni di salute, in una diocesi povera e turbolenta, non aveva né la fede né l'energia sufficiente per compiere una fruttuosa azione pastorale.
Testimonianza di un'assoluta mancanza di volontà operativa e di carità cristiana è la relazione del 6 dic. 1735. In essa non solo è lamentata l'incapacità dei collaboratori, ma gravi accuse sono mosse anche al Popolo, il quale "non solum in religione, et pietate non proficit, sed potius deficit, et impietate crescit: nam primo est proditor, et raptor in primo capite, et adeo indevotus, ut nec Ecclesias, et maxime Cathedralem, nec sacra frequentat, nec dies festos observat, falsa testimonia profert, censuras contemnit, usuras committit, indulgentias non curat, fidem, non servat, bona ecclesiastica rapit, et devastat, et Episcopo debitum obsequium non praestat, …ob eius naturam incultam, sylvaticam, et ferinam ab eius facie fugit, tanquam a facie colubri" (Arch. Segr. Vat., Relat. ad limina). Il C. ripeteva le stesse lamentele nella relazione ad limina del 25 giugno 1739, che si scusò di non poter portare personalmente a Roma per l'età avanzata e e la grave infermità contratta dall'aria insalubre della città di Belcastro". In essa aggiungeva che il teologo non voleva tenere le lezioni di morale, ma si limitava a percepire i frutti della prebenda teologale; i canonici ricusavano di versare la mezza annata di rendita per le riparazioni della cattedrale, come ordinava il concilio romano; il seminario non poteva esser compiuto per mancanza di rendite sufficienti; l'autorità laica violava l'immunità ecclesiastica. Mentre alla Congregazione del Concilio si deploravano le reiterate querele del vescovo, questi continuava a denunciare "la tenuità delle rendite di quella Chiesa" e a vantare la propria abnegazione nel risiedere ancora nella diocesi "quamvis in pessimo, et corrupto aëre, in adversa valetudine cum periculo vitae, in assiduis tribulationibus, insidiis et coniurationibus", soprattutto dopoché dall'8 dic. 1744 la zona era squassata da frequenti scosse di terremoto che costringevano la popolazione a vivere in capanne (relazione del 25 febbraio del 1745).
Ma a Roma non si sarebbe presa alcuna iniziativa per sincerarsi sullo stato della diocesi, se il 23 novembre 1745 il primo ministro napoletano, José Joaquin de Montealegre duca di Salas, non avesse incaricato il proprio ambasciatore a Roma cardinale Acquaviva di protestare presso il papa per l'abbandono in cui era il seminario di Belcastro e per le numerose ordinazioni sacre, fatte dal C. in violazione del concordato del 1741, di soggetti ignoranti, di cattivi costumi, privi dei requisiti canonici e del patrimonio prescritto. Benedetto XIV dette immediatamente mandato al nunzio a Napoli di indagare sul caso (10 dic. 1745), cosicché questi il 18 dicembre scrisse al C. rimproverandogli le scarse cure rivolte alla istruzione della gioventù e al seminario "lasciando così avvanzarsi una totale ignoranza per cui ne' tempi futuri la ignoranza colla indivisibile compagna della malizia" sarebbero andate "in trionfo in dispersione delle anime", (Papa, p. 393).
Il C. esitò a rispondere e, quando lo fece (18 genn. 1746), affermò che le accuse erano in realtà delle calunnie, che il seminario non era stato mai aperto per la mancanza dei fondi necessari, mentre gli ordinati erano soltanto sette e provvisti di tutti i requisiti. Il nunzio frattanto aveva chiesto informazioni ai vescovi vicini.
Quello di Catanzaro, mons. O. da Pozzo, fu molto cauto, riportando soltanto alcune voci che accusavano il C. di "avarizia eccessiva" causa di "sorditezze troppo indecenti". Più circostanziata fu la risposta del vescovo di Crotone, Gaetano da Costa de Porto, secondo cui tutti gli ordinati erano dei soggetti indegni, uno dei quali aveva lasciato da molti anni l'abito clericale per vivere "in pubblico concubinato colla quandam Rosa Calogero, colla quale avea procreato cinque figli tra maschi e femmine"; egli denunciava anche la mancanza di disciplina ecclesiastica, gli scandali e i concubinati, e affermava che le energie del C. si esaurivano nell'esigere le rendite della mensa che ascendevano a duemila ducati annui "senza averne speso un quattrino a benefizio della Chiesa, e favore dei poveri". Il vescovo di Santa Severina, mons. Nicola C. Falcone, svelava infine la ragione delle ordinazioni sospette: il C. aveva. voluto provvedersi di "sudditi", di difensori contro il bandito Giovan Battista Lo Greco che infestava la zona, tanto è vero che aveva concesso ai neosacerdoti la facoltà di portare le armi.
A questo punto Benedetto XIV nominò il 16 giugno 1746 un visitatore apostolico nella persona del vescovo di Squillace, mons. Nicola Micheli, con amplissimi poteri (cfr. Capialbi, p. 113). Alla morte di questo, un breve del 27 sett. 1748 creò vicario apostolico di Belcastro Francesco Saverio de Queralt y Aragona, nuovo vescovo di Squillace. Essendo state provate gran parte delle accuse, il C. rimase nella diocesi privato di ogni potere e vi morì l'8 sett. 1752.
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vat., Proc. Dat. 106, ff. 540-63; Ibid., Arch. della Congr. del Concilio, Relationes ad limina,Bellicastr. 1730-1745; G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia..., XXI, Venezia 1870, p. 254; V. Capialbi, La continuazione dell'Italia sacra dell'Ughelli per i vescovadi della Calabria dal1750 al 1850 con Appendice, Napoli 1191-13, pp. 113, 281, s.; E. Papa, Sacre ordinazioni a Belcastro nel1745, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XII (1958), pp. 391-404; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor. eccl., LXV, p. 9; Dict. de Hist. et de Géogr. Ecclés., VII, col. 506, ad vocem Belcastro; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., V, Patavii 1952, p. 116.