CAVAGNA, Giovanni Battista
È ignota la data di nascita di questo pittore e architetto operoso a Roma, a Napoli e nelle Marche dal 1569 al 1613.
Della sua complessa figura è stata finora studiata solo l’attività di architetto: in particolare, la sua produzione napoletana, decorosa, sebbene priva di impeti creativi, ha contribuito a introdurre nella capitale del vicereame spagnolo i moduli del tardo Cinquecento romano “richiamandosi specialmente al Vignola ed a Giacomo della Porta” (Pane, 1939).
Romano (si veda per ciò la sua firma alla Presentazione al tempio di Burgos, del 1591) dal cognome chiaramente lombardo, non si sa se (e quali) connessioni ebbe con il contemporaneo pittore Gian Paolo Cavagna.
Nel 1569 il C. era già adulto e risulta a Roma: difatti il 17 agosto di quell’anno il suo nome figura in una querela cit. da Bertolotti (1881: Arch. di Stato, di Roma, Tribunale governatore, investigazioni, 91). Dai documenti dell’Archivio dell’Accademia di S. Luca risulta presente il 28 maggio 1578 (Introiti, II, f. 76) e di nuovo nel 1581-1582: in questi anni è console insieme con S. Pulzone e Fed. Zuccari (vol. 41, Entrate, ff. 18 s.; Uscite, ff. 88-93).
Negli stessi anni (1581) lavorava con Giov. Paolo Severi da Pesaro nella vigna del card. Montalto (Bertolotti, 1876). Con lo stesso Giov. Paolo da Pesaro nel 1585 presentò conti alla Camera apostolica per stemmi dipinti sugli stendardi e sulle trombe “della guardia di N. S.” e per una grande bandiera di Castel Sant’Angelo (Archivio di Stato di Roma, Camerale, I, busta 1819, ff. 9v, 13r; Camerale, I, registro 933, f. 121; Giustificazioni tesorerie, busta 15; Bertolotti, 1881). Bertolotti riporta, anche un pagamento del 3 luglio 1586 effettuato sempre ai due “pictoribus sociis” (1876) e cita una querela del 1587 (1881). Nel 1588 il C. restaurò l’antica Madonna delle Scale in Campidoglio (C. Pietrangeli, La Madonna delle Scale..., in Strenna dei romanisti, XVII [1956], p. 244).
Non è stato possibile rintracciare un documento citato dal Bertolotti (1881) che lo dà abitante a Roma in via Ferratina nel 1590; certo è che non compare più a Roma per vari anni.
È da tener presente che nel 1581 un Giambattista Cavagna spedì da Roma in Austria alcuni ritratti per cui ricevette pagamento; è quindi possibile che il C. sia autore di qualche “ritratto” di papa che il cardinale Andrea d’Austria, figlio dell’arciduca Ferdinando, aveva ordinato a Roma per il castello di Ambras (F. Kenner, Die Porträtsamml. des Erzherzogs Ferdinand..., in Jahrb. der kunsthist. Samml. des allerhöchsten Kaiserhauses, XIV [1893], pp. 46, CLXXXVIII, docc. 10908, 10913).
Per ordine del viceré di Napoli il C. dipinse una tela del retablo dell’altar maggiore nella chiesa del monastero di Santa Maria de la Vid (Burgos), la Presentazione di Gesù al tempio, unica opera di pittura eloquentemente firmata “Joés Baptista Cavagna romanus pictor architectus Neapoli faciebat anno Dni MDXCI”. Altri documenti per attività del C. pittore nelle chiese di Napoli si riferiscono al 1594, 1595, 1596, 1598, 1599 (D’Addosio, 1919).
Nello stesso tempo il C. si dedicava all’architettura inserendosi nel quadro di rinnovamento urbanistico ed edilizio che caratterizzò Napoli in quegli anni. Sua prima opera nota è la chiesa di S. Gregorio Armeno, iniziata nel 1572 e consacrata nel 1579.
Essa è tra le prime chiese di Napoli a proporre il tipico modello controriformistico, già fissato dal Gesù di Roma e destinato ad essere replicato in numerosi esempi di fabbriche religiose dell’ultimo quarto del XVI secolo ed anche nel secolo successivo, peraltro già presente nella produzione italiana fin dal tardo Quattrocento. Nel grande complesso conventuale napoletano di S. Gregorio Armeno, i documenti limitano l’opera del C. solamente alla chiesa, assegnando all’oscuro maestro cavese Vincenzo Della Monica i lavori di rifacimento del convento, che furono compiuti dal 1572 al 1577. Poiché l’elegante modulo adottato in questo chiostro ripeteva pedissequamente quello già realizzato qualche anno prima (1567-71) in un altro monastero benedettino, quello di S. Marcellino, ove il contratto stipulato indica il Della Monica “partitario” (cioè impresario) e non progettista, è legittimo ritenere – sebbene la cosa non sia suffragata da documenti – il C. architetto di entrambi i chiostri, oltre che della chiesa di S. Gregorio Armeno, limitando il ruolo del cavese a quello di semplice esecutore.
La chiesa di S. Gregorio Armeno, detta anche popolarmente S. Liguoro, si presenta oggi secondo una veste assai ricca, che la rende uno degli esempi più singolari di decorazione barocca napoletana (Pane, 1967), per l’apporto di maestranze artigiane che le hanno conferito – secondo una vicenda frequente nell’ambiente napoletano – un carattere prezioso sebbene profano, affine a quello di un salone da feste settecentesco. Eppure, nonostante tale pregevole addobbo e l’inserto degli affreschi di Luca Giordano (1679), la struttura della chiesa è ancora quella del C., a navata unica con cappelle aperte mediante arcate a tutto sesto serrate da paraste e sormontate da semplici finestre rettangolari, conclusa da transetto con cupola a calotta su tamburo finestrato. È possibile individuare, in alcune zone prive di intonaco e di decorazione (per esempio, sotto i grandi organi barocchi in legno intagliato e dorato), la struttura in piperno a faccia vista, che doveva caratterizzare la spazialità originaria, con un ritmo rigoroso ed austero, aderente ai dettami del concilio di Trento. L’articolazione a membrature grigie e fondali ad intonaco bianco riproponeva, pur nel linguaggio del maturo Cinquecento, la bicromia di eredità toscana. L’eco classicistica è evidente anche nella soluzione di facciata della chiesa, ove il profondo pronao a pilastri, articolato con volte a crociera, era destinato a reggere superiormente il coro delle monache e si concludeva con un timpano triangolare. Intorno alla metà del Settecento il fastigio fu sostituito da un terzo ordine di paraste, corrispondente al coro d’inverno.
Il C. era di nuovo a Napoli dal 1590, “per la costruzione della Cappella della Cona (dei Muscettola) in S. Maria della Stella” (D’Addosio, 1913; Bresciano). Ma se della cappella e del relativo dipinto non sussiste più traccia, ben leggibile è invece l’opera da lui svolta l’anno seguente nella chiesa napoletana di Monteoliveto.
Chiamato a compiere il restauro della chiesa, attribuita a Giuliano da Maiano, il C. operò soprattutto nel coro, sistemando, al di sopra degli stalli lignei dei monaci, alcune tombe e monumenti sepolcrali, in un invaso a pianta rettangolare, inquadrato entro un grande arco a lacunari che replica l’arco trionfale. La ingegnosa sistemazione entro uno spazio prefissato e sostanzialmente canonico è stata talora erroneamente attribuita dalle guide locali all’ignoto architetto Gennaro Sacco. Inoltre per la chiesa degli olivetani il C. “architettò i lavori di intaglio della cappella Tolosa” (Filangieri di Satriano, II).
Altri studiosi (Catalani) hanno assegnato per errore al C. il coro di S. Pietro a Maiella, struttura angioina, mentre appare infondata l’attribuzione a lui di lavori in S. Paolo Maggiore (1590-1603).
L’opera di maggior rilievo condotta a Napoli dal C., ed anche la più integra, è certamente la costruzione del nuovo Banco (o Monte) di pietà, eretto sull’area di un primitivo palazzo Carafa.
La vasta fabbrica, con fronte sul decumanus inferior della città greco-romana, si svolge secondo un blocco compatto, ripartito in senso orizzontale da una cornice marcapiano sulla quale si impostano i balconi alla romana del piano nobile, definiti da monumentali cornici concluse da timpani alternativamente triangolari e tondi, spezzati nel fregio per accogliere l’emblema del Monte. Un severo bugnato è impiegato come pilastratura delle campate angolari e nel portale, che immette in uno splendido vestibolo suddiviso in profondità da quattro pilastri che si raccordano alle pareti perimetrali mediante archi a tutto sesto e volte a vela. Inquadrata nella prospettiva del vestibolo è la cappella, a pianta rettangolare, che rinnova soluzioni classicistiche del primo Rinascimento napoletano, con maggiore ricchezza di colore e di articolazione sculturale. Nonostante talune discontinuità nell’articolazione delle pareti del cortile e le difficoltà di lettura della facciata, nel cui disegno l’autore non sembra aver tenuto conto dell’esigua sezione stradale, il palazzo del Monte di pietà resta la più notevole opera del C. e quella che meglio di ogni altra definisce la sua impegnata partecipazione al manierismo napoletano, al quale dovevano contribuire altri maestri venuti da fuori.
I lavori per il Monte di pietà, iniziati nel 1597 (il 20 sett. 1598, secondo Morelli-Conforti), con la posa della prima pietra per la cappella, alla presenza del cardinale Gesualdo e con l’intervento del viceré conte di Olivares, videro il C. impegnato nella direzione dei lavori dal settembre 1598 al 1603 (ibid.) o al 1605 (Filangieri di Satriano, Indice, I; Tortora, 1890). Nello stesso periodo, e più precisamente nel 1598-99, egli lavorò anche alla cappella del Tesoro della SS. Annunziata, di cui concorse a definire l’architettura, con ricca decorazione (documenti del settembre 1598 e gennaio 1599: D’Addosio, 1913), attribuita talora (Celano-Chiarini; Venditti; Rotili) al Dosio, forse impegnato nell’opera di compimento e decorazione marmorea. Tra le notizie d’archivio risulta – nel 1600 – un pagamento per le spese di viaggio a Sarno e Striano, ove si era recato per rilievi e restauri murari e per i lavori di un acquedotto, con la collaborazione di suo figlio Cosimo (D’Addosio, 1913).
Nel 1600, il vicerè conte di Lemos, in vista di un viaggio di Filippo III a Napoli, ritenendo insufficiente il palazzo reale esistente, decise di creare una nuova reggia che venne realizzata, tra il 1600 e il 1602, da Domenico Fontana, il celebre architetto della Roma sistina.
Un interessante manoscritto, di recente integralmente pubblicato (Strazzullo), consente di leggere le violente critiche mosse al Fontana dal C. che si vedeva soppiantato, in un incarico così rilevante, da un collega giunto a Napoli tanto tempo dopo di lui (Pane, 1939).
Il C. osservava, con bruciante animosità, che il sito scelto dal Fontana era urbanisticamente inadatto perché troppo vicino all’arsenale ed affacciato su spazi irregolari, guastava il parco di Castelnuovo, imponeva non soltanto la demolizione della fonderia reale, ma quella del palazzo vecchio, insistendo in gran parte sullo stesso suolo. Il C., dopo aver polemizzato col Fontana anche per gli aspetti architettonici della fabbrica da lui disegnata, afferma che egli avrebbe costruito la reggia tra via Toledo e Castelnuovo (“l’haverei situato in tutta quella isola che contiene dal Palazzo vecchio sino alla strada detta di D. Francesco” (di Tovara: attuale via S. Brigida), in maniera da renderla dominante non solo sul largo del Castello, ma anche sulle strade di Toledo, della Cavallerizza Vecchia, dell’Incoronata, della piazza dell’Olmo e del Molo, e ciò “così per essere più vista, di più considerata et di più goduta dal pubblico, come anco di manco spesa e danno della Regia Corte”. In effetti, egli aveva già presentato e discusso il suo progetto (Miola; Pane, 1939).
È probabile che la delusione abbia indotto il C. ad abbandonare Napoli e la corte vicereale. Il 25 ott. 1605, infatti, successe a Muzio Oddi come architetto della S. Casa di Loreto e mantenne questa carica sino alla morte. Gianuizzi elenca le numerose opere eseguite a Loreto mentre il C. dirigeva i lavori, probabilmente su suo disegno: basti ricordare il proseguimento della fabbrica del palazzo pontificio accanto alla cattedrale e i numerosi lavori nella cappella del Tesoro, dagli armadi agli stucchi; lo stesso autore ritiene che derivi da disegno del C. “il magnifico tempietto dell’altare del Tesoro” anche se eseguito con marmi giunti a Loreto dopo la morte di lui.
Non minore rilievo ebbe l’opera del C. ad Ascoli Piceno, ove egli – nel 1610 – diede i disegni per la sistemazione del palazzo comunale e della loggia dell’Arringo, affacciati sulla massima piazza della città. Si trattava di rinnovare, secondo un disegno unitario ed aggiornato, la vasta fabbrica costituita dal palazzo dell’Arringo, eretto alla fine del XII secolo, e dal palazzo comunale, della metà del secolo successivo, divenuta poi, a metà Quattrocento, sede della Camera apostolica e fino all’anno 1564 residenza dei governatori pontifici.
Per animare il lungo fronte rettilineo, a lievi risalti nelle doppie campate estreme, il C. prevedeva un’ininterrotta successione di alte finestre a timpani alterni, triangolari e curvi, con palesi accenti manieristici. Al pianterreno il C. forava il blocco edilizio nella zona centrale, mediante cinque fornici inquadrati da paraste doriche alveolate, affini a quelle impiegate a Napoli nella facciata di S. Gregorio Armeno. L’opera, iniziata nel 1610, fu però continuata solo alla fine del secolo.
Nonostante la mutata residenza, il C. ebbe ancora rapporti con Napoli, come dimostra il fatto che nel 1607 egli fu invitato dalla Deputazione della cappella di S. Gennaro, accanto al duomo, a presentare un disegno per il Tesoro nuovo. Del resto, la sua ultima opera – la chiesa di S. Pietro ad Vallum in Fano – eretta a partire dal 1610 e finita solo nel 1696 – gli venne commissionata dai gerolomini di Napoli.
L’invaso della chiesa di Fano, a croce latina ad unica navata con cappelle, riprende temi controriformistici già sperimentati a Napoli dall’autore, ma appare oggi arricchito da decorazioni a stucco dorato, in singolare contrasto con la facciata incompiuta, tuttora a rustico.
Il C. morì a Loreto e vi fu sepolto il 19 luglio 1613 (la sua tomba non è più conservata). Come documenta Gianuizzi, già nel 1608 suo figlio Cosimo era stato sepolto nella cattedrale di Loreto; il testamento del 28 maggio 1609, scritto a Loreto, lasciava quindi erede universale la moglie Margherita Fedele (o Fedeli).
Fonti e Bibl.: Oltre alla bibl. in U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, pp. 211 s., si veda: C. D’Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1623, p. 610; T. Lazzari, Ascoli in prospettiva, Ascoli 1724, p. 23; B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, II, Napoli 1743, pp. 99-101; S. Ticozzi, Diz. degli architetti, scultori, pittori, intagliatori…, Milano 1830, I, p. 210; A. Ricci, Mem. stor. delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata 1834, pp. 185-187, 203; L. Catalani, Le chiese di Napoli, Napoli 1875, I, p. 42; G. B. Carducci, Su le memorie e i monum. di Ascoli Piceno, Fermo 1853, p. 63 e passim; C. Celano, Notizie del bello, ... della città di Napoli [1692]con aggiunzioni…, a cura di G. B. Chiarini, Napoli 1856-60, IV, p. 627; C. N. Sasso, Storia de’ monumenti di Napoli e degli architetti che li edificarono, I, Napoli 1856, pp. 224 s.; A. Bertolotti, F. Zuccari, in Giorn. di erudiz. artistica, V (1876), pp. 131 s.; Id., Artisti urbinati a Roma..., Urbino 1881, pp. 24 s.; G. Filangieri di Satriano, Docc. per la storia, le arti e le industrie delle prov. napol., II, Napoli 1884, pp. 323 s.; III, ibid. 1885, p. 133; Indice, I, p. 449; E. Tortora, Nuovi docc. per la storia del Banco di Napoli, Napoli 1890, p. 36; A. Miola, Cavagni contro Fontana a proposito della Reggia di Napoli, in Napoli nobilissima, I (1892) 3 pp. 89-91, 99-103; M. Morelli-L. Conforti, La cappella del Monte di Pietà, nell’edificio omonimo del Banco di Napoli, Napoli 1899, passim; A. Filangieri di Candida, Restauro della cappella del Monte di Pietà, in L’Arte, II (1899), pp. 412 s.; E. Calzini, Notizie delle Marche. Il palazzo comunale e l’antica Loggia…, ibid., V (1902), pp. 263-266; P. Gianuizzi, G. B. C., in Rassegna bibliografica, IX (1906), pp. 161-166; A. Filangieri di Candida, Notizie di Napoli. Restauro del Palazzo del Monte della Pietà, in L’Arte, XIII (1910), pp. 70 s.; G. B. D’Addosio, Docc. inediti di artisti napol. dei secc. XVI e XVII, dalle polizze dei Banchi, in Arch. stor. per le prov. napol., XXXVIII (1913), pp. 41 s.; n. s., V (1919), p. 384; G. Mariotti, Ascoli Piceno, Bergamo 1913, p. 13; G. Bresciano, Docc. inediti concernenti artisti napol. del Quattro e Cinquecento, in Arch. stor. per le prov. napoletane, LII (1927), pp. 369 s.; R. Pane, Architettura dell’età barocca a Napoli, Napoli 1939, pp. 29-35; F. De Filippis, Le reali delizie di una capitale, Napoli 1952, pp. 11 s.; B. Molaioli, Opere d’arte del Banco di Napoli, la cappella del Monte di Pietà, la Galleria d’Arte, Napoli 1953, pp. 11-20; L. Benevolo, Ascoli Piceno, Milano 1957, p. 47; L. Leporini, Ascoli Piceno, Ascoli 1964, pp. 130, 157; F. Da Morrovalle, Loreto nell’arte, Genova 1965, p. 31; A. E. Pérez Sánchez, Pintura ital. del s. XVII en España, Madrid 1965, ad Indicem; M. Borrelli, L’architetto Nencioni Dionisio di Bartolomeo (1559-1638), Napoli 1967, p. 119; R. Pane, Il monastero napoletano di S. Gregorio Armeno, Napoli 1967, pp. 38, 80, 84-99, e passim; F. Strazzullo, Arch. e ingegneri napoletani dal ’500 al ’700, Roma 1969, pp. 75-83; A. Venditti, Fra’ Nuvolo e l’architettura napoletana fra Cinque e Seicento, in Atti d. Congr. internaz. “Barocco europeo, barocco italiano, barocco salentino”, Lecce 1969, Roma 1971, pp. 195-248; M. Rotili, L’arte del Cinquecento nel Regno di Napoli, Napoli 1972, pp. 83 s.; F. Grimaldi, Loreto..., Bologna 1975, ad Indicem; Enc. Ital., IX, p. 513; Diz. enciclopedico di architettura e urbanistica, I, Roma 1968, p. 519.