CORTESI, Giovanni Battista
Nacque a Bologna nel 1553 o 1554, da famiglia umile e povera di origine cittadina. Tra i suoi antenati troviamo Giovanni, uno degli anziani del Comune bolognese, e Niccolò, dottore in legge nel 1462. Fin dall'età di 16 anni, a causa delle sue difficili condizioni economiche, esercitò la professione di barbiere e di stufaiolo, addetto ai servizi di bagni caldi. Appunto in qualità di barbiere entrò allo ospedale di S. Maria della Morte, dove rivelò presto un'intelligenza eccezionale e una gran passione per lo studio. Incominciò a studiare grammatica, filosofia e medicina, con l'aiuto di alcuni religiosi che avevano preso a ben volerlo e dei giovani praticanti di chirurgia. Poté così vincere il concorso di assistente nell'ospedale; lavorando e studiando, attento alle operazioni dei medici che assisteva, giunse a conseguire la laurea in medicina il 21 apr. 1583. Tra i suoi maestri ebbero su di lui maggiore influenza Gian Ludovico Cartari e Gaspare Tagliacozzo, con cui i rapporti di amicizia e di collaborazione si intensificarono dopo che, nello stesso 1583, il C. ottenne la lettura mattutina di chirurgia nell'ateneo bolognese, conservata per quindici anni. Dal 1586, come lettore straordinario, si occupò dei tumori, delle ferite, delle piaghe, soggetti ripresi nelle opere maggiori; il suo primo scritto, edito in quegli anni, è una Epistola, qua in simplici sede teli calvariae os ipsius, nec abradendum, nec perforandum esse demonstratur, Bononiae 1590.
Il Tagliacozzo dovette avere non poca influenza nell'indirizzare i suoi studi anatomici nel campo della chirurgia plastica e in particolare della rinoplastica; oltre a lui, ebbe come colleghi Flaminio Rota, A. M. Sacchi, G. C. Aranzio (a quest'ultimo successe nel 1589 come titolare della cattedra di anatomia); nella dissezione anatomica si esercitò con l'Aldrovandi, col quale rimase in corrispondenza fino alla sua partenza da Bologna. Il suo onorario, di 800 scudi, pur essendo segno di un certo prestigio, non consentiva aumenti successivi, per cui fu spinto dalla necessità a chiedere nel 1589 un sussidio di 200 scudi e a dedicarsi anche all'insegnamento privato. Nel 1591 fu al seguito delle truppe inviate in Romagna dalla Toscana e dall'Emilia per ripulire la regione da briganti e banditi; la sua opera di medico e chirurgo gli fruttò, oltre a 900 scudi con cui poté sopperire alle esigenze sue e della numerosa famiglia, una preziosa esperienza sulle ferite al capo, fondamentale per alcune opere successive.
Nel 1592 gli fu prorogato l'incarico bolognese per nove anni, che tuttavia non porterà a termine. Frattanto la sua fama di chirurgo era giunta anche all'estero; nello stesso anno dalla Francia gli giunse l'invito a recarsi a curare il cardinal legato Filippo Sega, per cui si trattenne colà alcuni mesi. Frequenti i consulti che gli venivano richiesti, anche da medici di altre città; la sua scuola risulta aver avuto lusinghieri apprezzamenti. Si ignorano quindi i motivi, forse economici, per cui nel 1599 decise di abbandonare la città natale per trasferirsi a Messina, tanto più che nel 1603 risulta aggregato, a titolo onorifico, al Collegio medico bolognese, allo scopo probabile di richiamarlo in patria (e in effetti nel 1620 il Senato bolognese gli offrì, senza esito, incarichi vantaggiosi; qualche biografo afferma erroneamente che sarebbe tornato a Bologna e che qui sarebbe morto).
Nella università messinese, da poco fondata, il C. resse la cattedra di anatomia e di medicina pratica, ma non dovettero essere poche le sue difficoltà, se egli stesso, in una sua opera, si lamenta di non aver avuto a disposizione cadaveri da sezionare ed inoltre di non aver potuto continuare, per mancanza di mezzi, le sue ricerche anatomiche. Certamente insegnò anche botanica, ma il suo interesse per i semplici dovette essere piuttosto generico, dato che nelle sue opere si riscontrano imperfezioni e sviste, soprattutto in Pharmacopea, seu Antidotarium Messanense, Messanae 1619, 1629. Tuttavia, come premio per la sua attività ed operosità, nel 1622 fu creato conte palatino. Nel 1604, perché potesse essere incluso fra i professori ordinari, il numero dei dottori del Collegio era stato portato da sedici a diciassette. Godeva dell'amicizia di medici illustri come L. Crisafulli, G. Columba, T. Bartholin.
Le sue maggiori opere, tutte pubblicate a Messina tra il 1619 e il 1635, costituiscono un organico tentativo di sistemazione medica e chirurgica, variamente giudicato dagli storici. Una rara opera, piuttosto ampia, è Miscellaneorum medicinalium decades, Messanae 1625 (ma scritta probabilmente a Bologna), divisa in dieci decadi.
Il C. vi tratta rispettivamente dell'anatomia attiva e contemplativa, della plastica facciale, delle cose naturali e non naturali, delle urine, delle febbri, di diversi medicamenti naturali, delle cauterizzazioni al sincipite, infine di purghe e salassi. Nella terza decade, la più interessante, parla della chirurgia plastica nasale, labiale e dell'orecchio secondo i metodi di Tagliacozzo, con precise osservazioni e illustrazioni, oltre alla descrizione degli strumenti chirurgici da adoperare.
Il Tractatus de vulneribus capitis, ibid. 1632, riporta il testo greco dell'omonima opera di Ippocrate, con la relativa traduzione latina e il commento del C., basato sulle dottrine di G. Fabrizi d'Acquapendente, particolarmente interessante dove studia le lesioni del capo per cause esterne. Vi sono, inoltre, sei tavole anatomiche delle ossa del capo ed uno schema delle prominenze di esso. Vi sono aggiunti due brevi trattati, sulle contusioni del capo nei fanciulli e sull'idrocefalo infantile. Un grosso trattato di chirurgia è In universam chirurgiam absoluta institutio, ibid. 1633.
Nella prima parte il C., definito l'ambito di indagine, distingue la chirurgia teorica da quella pratica e fornisce le condizioni necessarie per un buon esercizio di essa, trattando soprattutto dei vari tipi di tumori, delle loro cause e rimedi; nella seconda parte si occupa delle ulcere; nella terza delle ferite; nella quarta delle fratture, con molte nozioni anatomiche e utilizzando ampiamente l'autorità di medici antichi, greci e arabi, e moderni (fra cui Falloppia, Fabrizi d'Acquapendente, Vesalio, Realdo Colombo). Per un'immediata consultazione, dato lo scopo pratico dell'opera, segue un vasto indice degli argomenti trattati.
Un'opera ancor più vasta a scopo didattico, organica e pratica, ma poco originale, è Practica medicinae, ibid. 1635, suddivisa in tre parti, dedicate alle affezioni interne ed esterne del capo, alla nutrizione e alla generazione. Segue una precisa disamina dei vari tipi di febbri.
Tali opere, giudicate ora meri lavori di compilazione, ora utili manuali per l'insegnamento e la chirurgia pratica, sono tuttavia ricche di precise descrizioni e illustrazioni anatomiche, come quelle sul cervelletto (il cui albero, già conosciuto da Aranzio e Varolio, non fu dal C. scoperto ma solo studiato) e sul cervello, che non si distaccano sostanzialmente dalle indicazioni del Varolio; di questo ultimo utilizzò pure gli studi sul nervo ottico, mentre si guadagnò gli elogi del Morgagni per le sue ricerche sull'arteria carotide.
Il C. si occupò anche di anatomia comparata, ma al suo tempo godette di ampia rinomanza soprattutto per la chirurgia plastica: infatti rifece il naso a diversi personaggi illustri. Durante un viaggio per mare a Reggio Calabria per curare uno di essi, morì all'età di ottant'anni, nel 1633 o 1634.
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