GIOVANNI BATTISTA di Iacopo, detto il Rosso Fiorentino
Nacque a Firenze, nel "popolo" di S. Michele Visdomini, l'8 marzo 1494.
Dall'atto del battesimo, celebrato il giorno seguente, non risultano né il cognome, peraltro in genere annotato solo per coloro che appartenevano a famiglie di alto livello, né - come era consuetudine - il nome della madre.
Recenti ricerche (Waldman, 2000) hanno permesso di accertare che il padre Iacopo, che proveniva da Civitella in Val di Chiana, nei pressi di Arezzo, faceva parte dei "famigli" della Signoria fiorentina, e che un fratello del pittore, Filippo, era frate servita nel convento della Ss. Annunziata di Firenze già agli inizi del secondo decennio del Cinquecento; questo spiegherebbe la precoce e continua protezione di G. da parte di quest'Ordine.
L'affermazione di Vasari (V, p. 156) che G. "con pochi maestri volle stare all'arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alla maniera di quegli" segnala la diffidenza da parte del giovane pittore nei confronti del consueto tipo di addestramento, che prevedeva la formazione, stilistica e operativa, presso un artista sperimentato, all'interno della struttura professionalizzante della bottega, e insieme la sua insoddisfazione nei confronti delle scelte figurative più accreditate nella Firenze d'inizio Cinquecento: un'inquietudine che portò molti altri esordienti, a lui più o meno contemporanei, a mutare con frequenza luoghi e punti di riferimento nel corso del loro tormentato tirocinio. L'annotazione non può, però, essere interpretata come sottolineatura di una posizione di totale isolamento, del resto non consentita dalle strutture sociali dell'epoca. Il fatto che G. ebbe "pochi maestri" significa anzi che ne frequentò più di uno; tra questi indubbiamente Andrea del Sarto, punto di riferimento ineludibile per chi si avviasse a Firenze all'esercizio della pittura nel secondo decennio del Cinquecento.
La traccia offerta, sempre da Vasari (VI, p. 247) - ma, forse non casualmente, all'esterno della biografia espressamente dedicata al pittore - secondo cui G. avrebbe collaborato, insieme con un condiscepolo di eccezione, Iacopo Carucci, detto il Pontormo, a dipingere la predella, non rintracciata, dell'Annunciazione di Andrea del Sarto (1512) già nella distrutta chiesa di S. Gallo, e ora in Palazzo Pitti, esce confermata dall'esame di quelle che sono le prime testimonianze concrete pervenuteci dell'attività del pittore. È recente (Natali, 1991) l'identificazione di quel "tabernacolo [a Marignolle] lavorato a fresco per Piero Bartoli con un Cristo morto" che Vasari (V, p. 156) pone proprio all'inizio della carriera di Giovanni Battista. Quello che resta dell'affresco, che raffigura una Pietà con s. Girolamo e altri santi, mostra i segni dell'autografia, anche se è troppo poco per consentire agnizioni stilistiche definitive: ma vi si può rilevare ancora quella distribuzione compositiva pacata e solenne e quel modo di tratteggiare franco e ampio che sono tipici anche nelle opere di Andrea del secondo decennio del secolo. Questa "maniera gagliarda e di grandezza", che già Vasari aveva sottolineato nel tabernacolo di Marignolle, trova riscontro nella figura di profilo in primo piano a sinistra nel Viaggio dei magi, affrescato da Andrea del Sarto (1512) nel chiostro della Ss. Annunziata a Firenze, figura nella quale è stato persuasivamente individuato un inserto di G., giovanissimo collaboratore di colui che era allora fra i più affermati maestri fiorentini (Natali, 1991).
A G. infatti rimandano quell'eccedere del panneggio, che non asseconda, ma contrasta, la struttura corporea sottostante, il risentimento tagliente delle pieghe sul braccio e sull'omero, l'esorbitanza del copricapo, l'improvviso, inquieto volgersi del viso, l'intensità dello sguardo: definizioni linguistiche estranee ad Andrea, che segneranno invece tutto il percorso artistico di G. e che incontreremo ancora nei suoi ritratti maschili, nelle sue Madonne con Bambino e nei personaggi delle sue pale d'altare. Più recentemente è stata avanzata, sulla base di riscontri obbiettivi, l'ipotesi di una collaborazione anche per la Madonna col Bambino, s. Giovannino e s. Anna di Andrea del Sarto (1515-16), ora a Parigi, al Louvre (Bonsanti, in Pontormo e Rosso, pp. 164-168).
Queste partecipazioni, sia pure limitate, a imprese, importanti, di Andrea, se avvalorano la notizia che G. fu, per un periodo più o meno breve, suo discepolo e quindi, come di consueto, suo collaboratore, ne mettono però in evidenza il distacco e la diversità, cioè la volontà di affermare una "opinione contraria" che, comunque, prende avvio da quei modelli accreditati con i quali era inevitabile confrontarsi. È questo il caso della Madonna col Bambino (Roma, Galleria Borghese), indebitamente inserita nel catalogo del cosiddetto Maestro dei Paesaggi Kress (Zeri), oggi riconosciuto come Giovanni di Lorenzo Larciani, al quale è stata incomprensibilmente riassegnata (Waldman, 1998), in base a superficiali assonanze tipologiche. È da considerare, invece, l'emergenza compatta e corposa della figura della Vergine - nella quale l'accentuazione volumetrica del panneggio tende a travalicare il limite inferiore del dipinto - e la marcata accentuazione degli affondi spaziali nei quali sono inserite strutture architettoniche essenziali e disadorne - così diverse rispetto al garrulo decorativismo di Larciani - con scalature a differenti livelli prospettici che deformano i rapporti dimensionali tra i gruppi di figure. Proprio la definizione prospettica dello sfondo, che non connette ma segna una cesura con il primo piano, richiama l'analoga struttura dell'Annunciazione di Andrea del Sarto, alla cui predella aveva lavorato G., al punto che la figura di s. Giuseppe in lontananza, con la sua sigla rattrappita e contratta, riprende, con un'accentuazione quasi deformante, ma mantenendone l'analogo rapporto nell'economia spaziale dell'insieme, quella del nudo maschile seduto sul basamento della loggia nell'Annunciazione sartesca. Un ricordo così vivo e un confronto così diretto inducono a datare la Madonna della Galleria Borghese a un periodo immediatamente successivo alla tavola già in S. Gallo, e quindi al 1513 circa. Ma la testa della Madonna, con l'incresparsi e sommuoversi di labbra e di gote, così diverso dalla stereotipa e raggelata ripetitività che si riscontra nei volti delle Madonne e delle sante di Larciani, a sua volta richiama, nell'espressione compunta, nello sguardo, sospeso tra vivacità e reticenza, e nell'incertezza del sorriso trattenuto, il Ritratto di giovinetta della Galleria degli Uffizi, la cui datazione è stata posta intorno al 1514-15, ma per il quale sono stati anche richiamati gli innegabili rapporti che lo collegano con le fattezze giovanili e un po' effeminate del secondo apostolo a destra nell'Assunzione affrescata da G. nel chiostrino dei Voti della Ss. Annunziata a Firenze (1513-14), tracciate con la stessa chiara e distesa definizione pittorica (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 40). In ogni caso la Madonna della Galleria Borghese e il Ritratto degli Uffizi si collocano in prossimità della Madonna col Bambino, già a Roma, e ora di ignota collocazione (Briganti), per l'analoga presentazione distaccata, assorta e ritrosa dei personaggi, che diverge dalla linea di affabilità e pacatezza, o di aderenza al verosimile, anche sentimentale, che contraddistingue la coeva pittura fiorentina da cavalletto, sia sul versante sacro sia su quello profano.
Per quanto risulti difficile affermare con sicurezza l'autografia della Madonna, già a Roma, che è nota solo attraverso riproduzioni fotografiche, dalle quali per di più risulta la presenza di estesi rifacimenti, è del tutto possibile che in essa sia da riconoscere quel "quadro di una Nostra Donna con la testa di San Giovanni Evangelista, a mezza figura" dipinto da G. per il frate servita Iacopo di Battista Rubeis, probabilmente, come dice Vasari, prima dell'affresco con l'Annunciazione. La testa e il busto del s. Giovanni Evangelista sono stati nascosti sotto ridipinture, e il panneggio rimasto poggia su un cuscino che appare - e se ne comprende la ragione - di forma incongrua (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, pp. 61, 96). Ma una derivazione posteriore conservata nel Museo di Tours, ora persuasivamente attribuita a Giuliano Bugiardini (G. Dalli Regoli, Una nota per Giuliano Bugiardini, in Commentari d'arte, I [1995], 2, pp. 47-52), consente di ricostruire l'assetto compositivo originale del dipinto - i cui personaggi erano, fra l'altro, collocati in una nicchia assai simile agli inserti architettonici della Madonna della Galleria Borghese, anticipando così un tipo di impaginazione che sarà poi particolarmente caro a G. - e di comprendere le ragioni che consigliarono l'occultamento della testa dal santo, che appariva di un'icasticità quasi sgradevole: primo segno di quella metodica artistica, provocatoriamente in contrasto con gli orientamenti di gusto allora più comunemente accolti - che non di rado si risolvevano in appiattimenti stilistici e concettuali - e rivolta tenacemente a quell'affermazione di uno stile personale e alternativo rispetto alle abitudini visive consolidate, già riconosciuta da Vasari, e che segnerà tutto il percorso artistico di G. in terra italiana, determinando incomprensioni, rifiuti ed emarginazioni.
Proprio in questa Madonna col Bambino e s. Giovanni Evangelista è possibile riscontrare l'inizio di quel particolare accorgimento citazionistico, nel quale le riprese, volutamente selezionate da opere dei maestri più accreditati, vengono sottoposte a un processo di riconversione linguistica e di alterazione di tono che le rende non immediatamente riconoscibili e ne attenua o esclude il senso di acconsentimento o di adesione. Qui la figura "serpentinata" del Bambino, di straordinaria energia espressiva, impostata su un continuo replicarsi di contrapposti e chiasmi compositivi, sviluppa un modulo già presente nella Madonna dell'Impannata (Firenze, Galleria Palatina) di Raffaello, anzi riprende con precisione l'ideazione della Madonna Bridgewater (Londra, coll. Ellesmere: Il Rosso e Volterra, pp. 62 s.: si tratta di due opere del periodo fiorentino del Sanzio, cronologicamente non troppo distanti da questa di G.) nella sigla del Bambino che, seppur riportata alla stazione eretta, è identica nel "serpentinato" avvolgente delle membra, nel particolare del braccio sollevato sopra la testa, nonché nella cifra elegante delle mani della Vergine. Si tratta di soluzioni di avanguardia, che precedono quelle analoghe di Andrea del Sarto nelle Madonne col Bambinoe s. Giovannino del Louvre e della Galleria Borghese (1515-17), anch'esse a loro volta collegate, sia pure con diverso intendimento, alle esperienze raffaellesche.
Tralasciando l'intervento nella storia del Viaggio dei magi di Andrea del Sarto, che probabilmente rimase a livello di un accordo privato tra maestro e discepolo, il 5 sett. 1513 "Giovanni Battista dipintore" fu pagato per aver collaborato con Andrea di Cosimo Feltrini, il noto specialista in grottesche e ornati, ad affrescare uno stemma di Leone X e di Giuliano de' Medici, con ogni probabilità quello ricordato da Vasari (V, p. 207) nel "cortile, dove son le storie di San Filippo e della Nostra Donna fatte da Andrea del Sarto" (Franklin, pp. 12 s., 296). Il 10 dello stesso mese G. ricevette in saldo un pagamento per un'immagine in cera di Giuliano de' Medici (forse per averla semplicemente dipinta), cioè per uno di quei "voti" che un tempo gremivano il chiostro antistante la chiesa. Alla fine di settembre G. portò a termine un incarico di maggior prestigio, quello di dipingere due stemmi nell'appartamento del padre generale dei serviti, Angelo d'Arezzo; infine tra l'ottobre e il novembre del 1513 affrescò sulla porta dell'oratorio di S. Sebastiano, attiguo al chiostro antistante la Ss. Annunziata, quello stemma di Lorenzo Pucci - che era stato creato cardinale - affiancato da due figure, del quale fa ammirato ricordo anche Vasari (V, p. 157). Nessuna di queste pitture murali è più visibile, così che il giudizio sull'attività giovanile di G. come frescante può solo basarsi sull'Assunzione nel chiostro della Ss. Annunziata, che è anche la sua prima opera sicuramente datata.
I documenti che ne fissano l'esecuzione tra il 20 nov. 1513 e il 18 giugno dell'anno successivo e che definiscono i rapporti di G. con i serviti anche per gli anni immediatamente successivi erano noti da tempo, ma solo di recente sono stati correttamente interpretati (Carroll, p. 33; Ciardi, in Ciardi - Mugnaini, pp. 7, 9). Quando G. cominciò a dipingere l'Assunzione, nella parte destra del chiostro esistevano il già menzionato Viaggio dei magi di Andrea del Sarto e lo Sposalizio delle Vergine che il Franciabigio, Francesco di Cristofano, aveva condotto a termine nell'ottobre del 1513. Appena G. ebbe dato inizio alla sua opera, nel dicembre dello stesso 1513 fu allogata a Francesco di Lazzaro Torni, detto l'Indaco, l'affrescatura di altre due campate del chiostro: quella tra la porta grande e la porta piccola della chiesa, che avrebbe dovuto ospitare la scena dell'Incontro dei magi con Erode, e quella accanto alla porta che immette lateralmente nell'oratorio di S. Sebastiano, destinata a "una visione della Natività di Nostra Donna con duo Sibille et dua Astrologi", cioè, con ogni probabilità, alla rappresentazione della leggenda, ben nota già in epoca medievale, secondo la quale la Sibilla Tiburtina avrebbe predetto il parto divino della Vergine; incarico al quale sembra che l'Indaco non abbia neppure dato inizio. Più tardo, del 1514-16, è l'affresco del Pontormo con la Visitazione.
In quest'orizzonte non desta eccessiva meraviglia che un pittore poco più che esordiente, noto solo per lavori di livello quasi esclusivamente decorativo, anche se apprezzati, come lo stemma Pucci, e per piccoli dipinti a carattere devozionale, sia stato incaricato di eseguire un'opera di grande impegno e di grande prestigio, prevista per uno dei luoghi della fede più famosi e più frequentati della Toscana. Accanto a pittori celebri o affermati come Andrea del Sarto e il Franciabigio, poi il Pontormo, la presenza di un maestro di medio livello quale fu l'Indaco, coinvolto, come Andrea del Sarto, in ben due episodi del ciclo con Storie delle Vergine - questo era il tema generale degli affreschi - fa capire che il progetto della decorazione della zona meridionale del chiostro stava incontrando difficoltà: tra le altre la scarsezza di denaro e, di riflesso, la sempre minore disponibilità da parte di Andrea, ormai gravato da troppi impegni, al quale i serviti avrebbero probabilmente preferito affidare tutta l'impresa, come già era stato fatto per la decorazione della zona settentrionale. Certamente a G. giovò l'ormai consolidata consuetudine di lavoro al servizio dei frati e la protezione da parte del priore Iacopo de Rubeis, che sappiamo essere stato uomo di cultura, dilettante di poesia e teologo stimato; sarebbe perciò erroneo sopravalutare o sovrinterpretare con motivazioni ideologiche una scelta dovuta soprattutto a ragioni pratiche e operative e che in altre circostanze sarebbe apparsa difficilmente spiegabile. In ogni caso la scena dell'Assunzione era l'ultima del ciclo delle Storie della Vergine: ultima dal punto di vista narrativo e, di conseguenza, ultima come collocazione nel chiostro. È da supporre che i serviti abbiano pensato per ultimo a G., dopo che avevano articolato il progetto decorativo con richieste rivolte a diversi pittori, anche se non erano poi riusciti a ottenere o a formalizzare le eventuali adesioni.
Per quanto la completa leggibilità dell'Assunzione risulti compromessa dal deperimento della superficie pittorica e da estesi rifacimenti che hanno interessato soprattutto alcune teste di apostoli, restano perfettamente apprezzabili l'impianto compositivo e gli elementi fondamentali di un linguaggio di singolare e innovativa indipendenza che sconvolge la tradizionale iconografia di un soggetto del quale esistevano innumerevoli precedenti. Abolita ogni traccia di paesaggio e soppresso anche l'inserto del sarcofago vuoto, che era ritenuto essenziale come chiave semantica per l'immediata decifrazione tematica, nel rispetto della correttezza teologica, G. risolve la struttura in un doppio diagramma radiale, che oppone al cerchio degli apostoli della zona inferiore l'anello degli angeli festanti che fanno da corona alla Vergine Assunta in quella superiore. Nell'affresco, che conclude il periodo di apprendimento di G., sono ormai presenti gli elementi distintivi del suo stile: il disinibito realismo, compendiario ed espressionistico, che definisce le teste degli apostoli; le strutture ambivalenti e contraddittorie dell'organizzazione spaziale, evidenti nella zona inferiore dove la disposizione circolare è appena percepibile nel suo prospettarsi fortemente compresso, che annulla distanze e tridimensionalità, (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 34); l'interazione tra spazio ottico del dipinto e spazio reale dello spettatore, che si avvale della presentazione di figure completamente viste da tergo e dell'espediente di far illusionisticamente fuoruscire i panneggi oltre la cornice. Del tutto personali sono la qualità del rapporto con le fonti figurative precedenti, e le modalità del loro utilizzo. Lo studio dal cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo, sottolineato da Vasari (V, p. 156), e che di per sé significherebbe ben poco, presentandosi in molti altri casi come adesione, generica e talvolta acritica, a quella che era, allora, una linea di massimo consentimento, determina non soltanto la ripresa di questa o quella figura, peraltro riproposta con modifiche compositive e speculari (Franklin, p. 22), quanto piuttosto l'analoga scelta di un'impaginazione affidata esclusivamente all'intavolatura anatomica, che solo dopo un quindicina d'anni sarà adottata dal Pontormo nella Deposizione di S. Felicita. La carica trasgressiva, che riconfigura spregiudicatamente il testo figurativo sacro, si avvale di riferimenti culturali diversificati: le stampe di Albrecht Dürer e l'Adorazione dei magi di Leonardo, opera, quest'ultima, la cui importanza per G. è già stata rilevata (Carroll, p. 56) e che sarà ampiamente citata nel disegno-incisione di argomento macabro, Respice finem del 1518 (Ciardi, 1997). Ma nella zona superiore del dipinto il riferimento più univoco a fra' Bartolomeo si qualifica come elemento fondante per l'avvio a riletture adattate e indipendenti. Si tratta di accostamenti che avvengono, per così dire, in tempi reali, perché l'organizzazione dello spazio esclusivamente per definizione architettonica dei corpi dei putti volanti, tra loro uniti e allacciati, e con l'esclusione da parte di G. delle divagazioni esornative dei baldacchini e delle cortine, segue di non oltre un biennio le consimili soluzioni impiegate dal frate nello Sposalizio di s. Caterina del Louvre e della Galleria dell'Accademia di Firenze, ma precede immediatamente la Madonna della Misericordia del duomo di Lucca. Restano così avvalorati i rapporti di G. con fra' Bartolomeo e la sua bottega, testimoniati dalla conoscenza, da parte del primo, di disegni del frate, riutilizzati in invenzioni grafiche, ma anche in opere pittoriche importanti, come la Deposizione di Sansepolcro (Id., in Il Rosso e Volterra, pp. 58-61).
Che un testo così complesso e insolito, potesse difficilmente essere accettato, era prevedibile. Il 16 giugno 1515, nell'anniversario del completamento dell'affresco, gli Operai della Ss. Annunziata, probabilmente per dare soddisfazione alle numerose critiche levatesi da più parti, all'unanimità chiesero ad Andrea del Sarto di affrescare nuovamente l'Assunzione "chon quella arte et diligenza, quale a lui sia possibile" (Franklin, p. 272), ciò che comportava la preliminare rimozione della pittura di Giovanni Battista.
La decisione non ebbe effetto (probabilmente Andrea del Sarto non accettò l'incarico) e neppure compromise i rapporti di G. con i serviti. Nel settembre immediatamente successivo questi fu ancora impiegato - ma è un regresso professionale notevole - per dipingere uno stemma, forse quello di Leone X, affiancato da due fanciulli, del quale parla Vasari, nell'altro chiostro della Ss. Annunziata, quello detto dei Morti (ibid., p. 20).
Alla fine del 1515 G. è ampiamente coinvolto, come quasi tutti gli artisti fiorentini di un certo livello, nell'allestimento degli apparati festivi eretti in occasione dei due solenni ingressi in Firenze di Leone X. Poco possiamo dire di queste sue realizzazioni, che comprendevano un arco trionfale collocato sul canto de' Bischeri in via del Proconsolo, decorato con sculture e pitture ispirate a episodi meno conosciuti del Vecchio Testamento. La somma, notevole, che ricevette, non è necessariamente indizio di un particolare apprezzamento artistico, perché forse comprensiva del pagamento ai collaboratori e dell'acquisto dei materiali (Franklin, pp. 29, 297). Tuttavia il prestigio di G. usciva rinsaldato da questo incarico. Nel febbraio del 1517 otteneva l'immatricolazione nell'arte dei medici e degli speziali e nell'aprile dello stesso anno i serviti si rivolgevano nuovamente a lui per affidargli una commissione di indubbio prestigio. Revocata all'Indaco l'allogazione dell'affresco sulla parete contigua alla porta laterale dell'oratorio di S. Sebastiano, per manifesta inadempienza da parte del pittore, chiesero infatti a G. di occuparsene, ma con l'espressa condizione "che si portasse meglio che nel primo quadro da lui dipinto", altrimenti non sarebbe stato pagato (Carroll, p. 33 n. 21). Evidentemente il ricordo del fallimento dell'Assunzione, che pure non era stata rimossa, pesava ancora.
Proprio all'Assunzione si collega la tavola, poi trasferita su tela, con la Madonna col Bambino e angeli ora all'Ermitage (San Pietroburgo).
Analoga l'ideazione di far sorreggere la figura della Vergine dal gruppo degli angeli in volo, un agglomerato di corpi dalle sigle guizzanti, acute e frammentate, che estremizzano le ricordate invenzioni di fra' Bartolomeo e riprendono il modulo del putto già utilizzato nella Madonna col Bambino e s. GiovanniEvangelista, dalla quale derivano anche la posa assorta e quasi scostante e l'enigmatico sorriso della Vergine, anch'esso anticipato nella Madonna della Galleria Borghese. Il senso di straniamento e di distaccata incomunicabilità, allora raro nei dipinti di soggetto sacro, che generalmente intendevano far appello alla mozione degli affetti, potrebbe essere ricondotto a una presa d'atto delle consimili intonazioni michelangiolesche. Se anche G., giovanissimo, non accompagnò a Roma Andrea del Sarto intorno al 1511 (Natali, in La piscina…, 1995, p. 186), il soffitto della Sistina era ormai ben noto per conoscenza indiretta, e il tondo Doni si trovava a Firenze. Ma la citazione precisa da un'opera emblematica del Buonarroti, il David già sulla piazza della Signoria, declassato a putto erculeo, e inserito tra gli altri angeli in volo al centro della zona inferiore del dipinto (Ciardi, in Ciardi - Mugnaini, p. 13) accerta la sottolineatura contrastiva e forse anche ironica - non certo di deferente omaggio - di questa ripresa. Altre erano le condivisioni figurative alle quali si rivolgeva G., nella ricerca di un'ispirazione che non significasse necessariamente appiattimento su modelli consacrati, accettati o imposti. Da qui quel tipo "di percezione gotica" che determina nella tela dell'Ermitage l'accentuato allungamento della figura centrale, già avvertibile nella Madonna col Bambino e s. Giovanni Evangelista, e che ritroveremo nel Cristo in gloria di Città di Castello, e che qui giunge a negare la preminenza della struttura piramidale, di estrazione michelangiolesca, per il suo estremo assottigliarsi verso l'alto. Ma è soprattutto nel trattamento dello sfondo, dove il pennello emula lo scalpello nella modellazione depressa, che provoca un graduale abbassamento del rilievo dai primi agli ultimi piani, scoprendo, tra irregolari effetti di luce, teste di cherubini plasmate nella medesima materia livida che definisce le nubi e il cielo, che si avverte il dichiarato consentimento con lo stiacciato di Donatello, lo scultore che si rivela, anche per G., qui e altrove, come uno dei primari punti di riferimento.
G. non diede attuazione all'incarico di affrescare un'altra campata nell'atrio della Ss. Annunziata; anzi non sappiamo neppure se abbia accettato una proposta che, nei termini che abbiamo riferito, manifestava una certa sfiducia nelle sue capacità artistiche; comunque da questa data cessano i suoi rapporti con i serviti, che avevano patrocinato gli esordi della sua attività artistica. Alla fine di gennaio del 1518 G. era però già impegnato in un'altra impresa. Il monaco certosino, ma personaggio di rilievo nella Firenze di allora, Leonardo Buonafé, che ricopriva l'incarico di spedalingo di S. Maria Nuova, e sarà poi vescovo, nella sua qualità di esecutore testamentario di Francesca Ripoi, una vedova che aveva lasciato tutte le sue sostanze all'ospedale di cui era rettore, affidava a G. l'esecuzione di una pala d'altare che avrebbe dovuto essere collocata nella chiesa d'Ognissanti, dove la Ripoi aveva desiderato di essere sepolta. G. si impegnava a consegnare l'opera entro cinque mesi, alla fine del giugno 1518 (Franklin, pp. 35-50).
La tavola, che rappresenta la Madonna in trono col Bambino e i ss. Giovanni Evangelista, Antonio Abate, Stefano e Girolamo, ora agli Uffizi, è celebre per aver contribuito a determinare la fama di G. come pittore eccentrico, cupo e saturnino, quale risulta dal noto racconto del Vasari (V, p. 157) secondo il quale Buonafé, recatosi da G. per vedere il dipinto in corso d'opera, spaventato da "quelle arie crudeli e disperate" che facevano sembrare "tutti quei Santi, diavoli […] fuggì di casa, e non volle la tavola". Se in realtà i documenti pervenutici (Franklin, pp. 300-302) riguardano solo una controversia relativa al pagamento del prezzo pattuito per l'opera, questa in effetti risultò tanto inferiore alle aspettative che non venne mai collocata nella chiesa di Ognissanti. In parte ridipinta, come recenti restauri hanno dimostrato (Natali, in Rosso e Pontormo…, pp. 9-49), per renderla più accettabile al gusto corrente, e per adeguare i santi alla nuova destinazione (Benedetto e Leonardo, previsti nel contratto di allogazione originario, furono trasformati, rispettivamente, in Antonio Abate e Stefano), la tavola venne esiliata nella chiesa di S. Stefano a Grezzano, piccolo borgo della Val di Sieve, chiesa che era di patronato dell'ospedale di S. Maria Nuova (Franklin, pp. 41 s.).
La pala per Ognissanti si presenta infatti come un testo di difficilissima comprensione rispetto ai parametri del gusto corrente, ai quali Buonafé, in altre occasioni committente di Benedetto Buglioni e di Ridolfo del Ghirlandaio, artisti ancorati alla più solida tradizione, evidentemente aderiva. La giustificazione portata da Vasari - il quale giudica col senno di poi e cerca, come aveva fatto anche per l'affresco della Ss. Annunziata, di superare riserve e perplessità, che pur si leggono tra le righe - che la tavola era stata vista dallo spedalingo quando non era ancora finita, e che era costume di G., nel condurre a termine le opere abbozzate, di "addolcire l'aria e ridurla al buono", si scontra col dato irrecusabile che nelle pitture di G. a cavallo tra il secondo e il terzo decennio del Cinquecento il ricorso costante al non finito ne esclude la casualità e ne impone la considerazione come scelta linguistica voluta e consapevole: un'eccedenza di sprezzatura, dunque, rivolta all'affermazione di un ideale antigrazioso e di un distacco intellettualistico dalle piacevolezze divulgative. Così nella Madonna col Bambino, s. Anna e s. Giovannino di Los Angeles, nella Sacra Famiglia e s. Giovannino di Baltimora, nella Madonna col Bambino e s. Giovannino di Francoforte, infine nella Deposizione di Volterra e nella pala di Villamagna, l'improvviso smagrirsi del colore, nel quale traspare la tonalità monocroma di base, l'assottigliarsi della pellicola pittorica, fino a svelare l'imprimitura, il disegno sottostante e addirittura le annotazioni scritte sull'abbozzo appena tracciato - che dovevano servire di memoria nello svilupparsi dell'immagine - nonché la definizione, sommaria fino alla deformazione, degli arti appaiono come programmatica riduzione, talvolta con volontà dissacratoria o ironica degli ideali figurativi rinascimentali, che in Toscana avevano determinato quel clima evasivo, lieto e soave del quale partecipava tanta pittura sacra del primo Cinquecento. Nella pala per Ognissanti la riproposta di strutture compositive ricalcate da fra' Bartolomeo e la ripresa, turbata e sconvolta, di volti e di espressioni desunte da Andrea del Sarto si presentano, quasi per giustificazione, condotte sul recupero di fonti figurative più arcaiche, ma particolarmente accreditate a Firenze, come il Donatello dei pulpiti di S. Lorenzo, riferimento primario per Giovanni Battista.
Ancora Donatello serve di appoggio per la sconvolgente invenzione degli angeli fanciulli che fanno da coronamento alla Madonna con il Bambino, s. Anna e s. Giovannino di Los Angeles, i cui corpi avvinti e quasi integrati, ripropongono quelli dei putti che stanno sul fastigio dal tabernacolo Cavalcanti in S. Croce (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, p. 36). Ma l'agitazione drammatica, la macerazione e scarnificazione delle figure, il senso di desolazione e di morte che grava su questo dipinto che dovrebbe essere compreso nel genere devozionale, e nel quale si esasperano situazioni già presenti in realizzazioni quasi coeve, come la pala di Ognissanti e, in maggior misura, il disegno-incisione col Respice finem (Id., 1997, pp. 269-276), rivelano l'intento provocatorio nei confronti delle serene e aggraziate Madonne di Raffaello, quella del duca d'Alba, più sicuramente quella "del cardellino", dipinta e rimasta sempre a Firenze, dalla quale deriva la citazione diretta del piede del Gesù infante che si sovrappone e quello della s. Anna (Id., in Il Rosso e Volterra, p. 52).
Non è però da credere che in questo opporsi alle abitudini visive acquisite, in questo contrastare le opinioni artistiche favorite e accettate dai più G. fosse totalmente isolato. A Firenze altri pensavano e agivano come lui; tra gli altri il poco più anziano e ugualmente polemico Baccio Bandinelli, ideale condiscepolo dinanzi al cartone della Battaglia di Cascina, ma nell'intimo visceralmente antimichelangiolesco, col quale G. fu in ottimi rapporti: lo aiutò, infatti, a rendersi padrone della tecnica pittorica, dopo il rifiuto da parte di Andrea del Sarto (Vasari, VI, p. 139), e ne ricevette probabilmente istruzioni per impratichirsi in quella della scultura, alla quale G. fu interessato, come dimostrano gli stucchi in S. Maria della Pace a Roma, convincentemente a lui attribuiti (Falciani, pp. 57-60) e poi quelli della grande decorazione della galleria di Fontainebleau. Di questo sodalizio restano testimonianze concrete nel lascito grafico dei due artisti, dove non pochi fogli, per omogeneità di ductus e di tecnica, consentono attribuzioni ambivalenti o addirittura lasciano supporre momenti di collaborazione nell'invenzione e di compartecipazione esecutiva.
Occorre riflettere sul fatto che agli inizi del terzo decennio del Cinquecento il concetto del primato artistico fiorentino era sottoposto a revisione; si riconosceva ancora il ruolo di quella straordinaria, imprescindibile cultura figurativa; ma non pochi giudicavano con spirito critico le realizzazioni del tempo presente. Nel 1522 Perin del Vaga (Piero di Giovanni Bonaccorsi) giunto da Roma nella sua città natale per un rapido soggiorno - G. vi era anche lui appena rientrato, dopo esserne stato lontano pochi anni - si dedicò soprattutto a "rivedere le cose vecchie dipinte da' maestri passati". In polemica diretta con un pittore, probabilmente Andrea del Sarto, di fronte agli affreschi di Masaccio - maestro fondamentale anche per lo sviluppo stilistico di G. - Perino affermò che gli eredi di quella grande tradizione non erano più gli artisti rimasti a Firenze, ma quelli che operavano a Roma. Certo il contrasto che oppose G. all'ambiente nel quale si era formato e nel quale aveva fino ad allora lavorato è, come risulta dalle opere giovanili, più esplicito e aggressivo, rispetto alle piste, anche devianti, percorse da altri pittori, come, per esempio, il Pontormo; posizione oltranzista che provocò drastici rifiuti.
Agli inizi del dicembre 1518 G. era ancora a Firenze e abitava in via dei Servi (Franklin, pp. 300-302); poi se ne perdono tracce sicure, per quasi tre anni, fino all'aprile 1521, quando è attestato a Volterra.
Viaggi alla ricerca di lavoro, ma anche di studio e di aggiornamento, devono averlo impegnato in questi anni. Se, come induce a ritenere tutta una concatenazione di testimonianze, è lui il "iovane Ioan Baptista fiorentino" attivo a Napoli intorno al 1520, secondo quanto scriveva nel marzo 1524 Pietro Summonte a Marcantonio Michiel (Natali, in La piscina…, 1995, pp. 186-188), allora la rotta dalla Toscana verso il Reame doveva comprendere una sosta, più o meno lunga, a Roma. A Napoli G. risulta apprezzato soprattutto come ritrattista; e proprio tra il 1518 e il 1522 si deve collocare la maggior parte dei suoi ritratti che ci sono pervenuti, una serie che prende inizio da quello passato sul mercato antiquario nel 1965 (ora acquistato dalla National Gallery di Londra), e che reca la data del 1518 sulla lettera che il giovane gentiluomo tiene tra le mani, al quale seguono l'Adolescente di Berlino, così vicino nell'impostazione del volto alla Madonna della pala di Ognissanti, dove l'eccentrico paesaggio, nella sua definizione antinaturalistica, vibrante e mossa, mantiene il ricordo di quello della Madonna della Galleria Borghese, il Ritratto virile di Washington e il Ritratto di cavaliere di S. Giovanni della National Gallery di Londra, la cui cronologia, fissata al 1518-22 in base alla foggia ben caratterizzata dell'abbigliamento, risulta confermata su base stilistica dal raffronto con la figura del s. Bartolomeo nella pala di Villamagna presso Volterra, firmata 1521; e a Volterra esisteva - è utile sottolinearlo - una precettoria dei cavalieri di S. Giovanni. Di poco più tardo, il Gentiluomo con elmo di Liverpool, in cui la calma espressività dello sguardo e il forte risentimento volumetrico del volto si inseriscono nello stesso schema, mentale e stilistico, che caratterizza la s. Caterina nella pala Dei, dipinta a Firenze nel 1522 (Natali, in Rosso e Pontormo…, pp. 34-40). Anche la firma "Rubeus faciebat", nella quale è omessa l'indicazione del luogo di origine, costante invece in tutte le opere eseguite fuori Firenze, conferma l'ipotesi cronologica e il luogo di esecuzione.
L'impegno, nel corso di questo triennio nascosto, come ritrattista, spiega la conduzione stilistica più organica e il parziale consentimento, per necessità professionali, a una resa espressiva più trattenuta e accordata ai parametri in uso per un genere che si andava diffondendo per soddisfare le istanze dei ceti sociali emergenti. G. si accosta all'interpretazione più intensa e mentale che è propria di Andrea del Sarto, di D. Puligo, soprattutto del Pontormo, e la riconduce ai propri orizzonti espressivi, mettendo in evidenza pose spavalde, arroganza di tratti, fierezza di sguardi, e mantenendo nella costruzione pittorica asprezza di modellato e frantumazione cromatica. Non è da escludere che, anche nella produzione sacra, non siano mancate soluzioni compromissorie di questo tipo, ma sempre come presa d'atto di esperienze concomitanti, non di trascinamento. È stato riconosciuto, anche sulla base di riscontri oggettivi (Natali, in Pontormo e Rosso, pp. 169 s.; Falciani, in L'officina della maniera…, p. 350), che l'Angiolino musico della Galleria degli Uffizi altro non è che il frammento di una più ampia composizione di soggetto sacro; la firma e la data che sono state individuate "Rubeus florent. 1521" convergono nel precisare che l'opera venne eseguita fuori Firenze, in un periodo in cui appunto sappiamo che G. ne era lontano. La struttura complessiva originaria può essere ipotizzata in relazione a un disegno degli Uffizi con la Madonna in trono col Bambino e i ss. Margherita, Giovanni Battista, Pietro(?) e Sebastiano, certamente progetto per una pala d'altare non pervenutaci in questa forma, o non realizzata. Il foglio presenta una definizione stilistica che lo colloca tra la Madonna per la chiesa d'Ognissanti e le opere volterrane, e nulla vieta di supporre che contenga una prima idea, realizzata poi con varianti, per quella tavola dalla quale proviene il superstite Angiolino musico. Né è da escludere che in questa pala, come avvenne per quella commissionata da Leonardo Buonafé, accanto a episodi figurativi affabili e accattivanti, come sono appunto i piccoli angeli che in quest'ultima siedono sul gradino del trono della Vergine, coesistessero momenti di adesione formale a quel mondo percorso da sensi di sconvolgimento e di crisi, ricorrente in G., e di cui sono testimonianza, in questo giro di anni, oltre alla Madonna di Los Angeles, anche il S. Giovannino nel deserto in collezione privata, dove la rappresentazione del movimento come compresso nel piccolo corpo rattrappito, dai tratti quasi demoniaci, attraverso il recupero di precedenti donatelliani sottopone a critica consapevole la sigla della struttura serpentinata di Michelangelo, proposta nel tondo Doni. Contemporaneamente l'aspetto semiferino del s. Giovanni infante lo proponeva, in opposizione a una tradizione iconografica divulgata, come espressione di una religiosità alternativa, austera e antintellettualistica, ai limiti della razionalità (Mugnaini, in Pontormo e Rosso, pp. 128-135).
Nel tracciato così lacunoso della biografia rossesca nel corso di questi anni, unico dato certo è che G. fu impiegato da Iacopo (V) Appiani, signore di Piombino, al quale "lavorò una tavola con un Cristo morto bellissimo, e gli fece ancora una capelluccia", come ricorda Vasari (V, p. 158) che parla di queste opere subito dopo aver menzionato l'attività del primo periodo fiorentino e prima di esprimere il suo apprezzamento per la Deposizione di Volterra. I rapporti di G. con la corte del piccolo principato costiero risultano confermati anche per via documentaria. L'8 apr. 1521 G. a Volterra interviene di persona all'atto con cui nomina suo procuratore Pietro Calefati "de Plumbino". Calefati, allora studente all'Università di Siena, di cinque anni più giovane di G., apparteneva a una famiglia che aveva ricoperto importanti incarichi presso gli Appiano, ed era figlio di quel Niccolò che fino alla morte, avvenuta quattro anni prima, era stato tesoriere di Iacopo. La conoscenza di Calefati da parte di G. non poteva essere avvenuta altro che a Piombino; e la scelta di averlo come procuratore dimostrava la fiducia che il pittore riponeva nella protezione da parte della corte principesca e degli stessi Appiani.
Mancano invece notizie sugli antefatti che determinarono la scelta di G. per l'affidamento delle due opere volterrane, firmate e datate 1521. La diversa rilevanza della loro collocazione - la Deposizione venne commissionata da una delle più antiche confraternite della città, quella della Croce di Giorno, e destinata all'oratorio della stessa, che era contiguo all'importante chiesa di S. Francesco; la Madonna in trono col Bambino tra i ss. Giovanni Battista e Bartolomeo, rimase sempre, fino a tempi recenti, nella sperduta pieve di Villamagna - non sembra rispondere a una differenza sostanziale dell'entità sociale dei committenti. All'epoca dell'incarico a G. risulta dai documenti che nella Confraternita della Croce di Giorno avevano una posizione di preminenza gli appartenenti alla nobile famiglia dei Guidi (Franklin, p. 302); mentre la parrocchia di Villamagna, di patronato del capitolo della cattedrale, era affidata a membri di un'altra famiglia di ottimati, i Maffei. Differente è però il registro espressivo al quale si attiene Giovanni Battista.
La Deposizione, forse l'opera più conosciuta di G., si rapporta a fonti molteplici e ben note, - la tavola, di identico soggetto, di Filippino Lippi e Pietro Perugino, già nella chiesa della Ss. Annunziata, la Pietà Puccini di Andrea del Sarto, della quale resta la stampa derivata, il rilievo in cera di Iacopo Sansovino, ora a Londra nel Victoria and Albert Museum - spregiudicatamente riutilizzate per la formulazione di un linguaggio personalissimo, dove il calcolato bilanciamento degli elementi della struttura di impaginazione e della disposizione compositiva viene negato e travolto dalla concitazione dei moti e dei sentimenti, dall'astrattezza del disegno e della definizione plastica, dalla violenza dell'accordo cromatico, il cui precedente può essere riscontrato solo nella volta della cappella Sistina, quale si rivela oggi dopo il recente restauro; il che conferma la supposizione di uno o più viaggi giovanili di G. a Roma.
Nella pala di Villamagna il riferimento alle fonti figurative, per quanto riguarda l'impianto della composizione, è senz'altro più limitato e anche più tradizionale: fra' Bartolomeo, Andrea del Sarto. Ma l'impiego di questi elementi di tradizione classica, sottoposti a una forzata rilettura in chiave arcaizzante, conduce alla formulazione di una delle immagini più rivoluzionarie di G.: il volto della Madonna si trasfigura in un'icona neobizantina, il s. Bartolomeo recupera il s. Paolo di Masaccio a Pisa (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, p. 25), le riconnotazioni desunte dalla scultura coeva - il S. Giovanni Battista di Francesco da Sangallo al Bargello, sul quale è impostato il santo omonimo di questa pala - sono riscritte con la valenza scabra ed essenziale di Donatello, il che comporta una precisa rinunzia alla conquista della profondità spaziale.
L'essere impiegato a Volterra, città che allora non rappresentava certo uno dei punti nodali dei più aggiornati percorsi figurativi, servì tuttavia a G. per riallacciare rapporti con i possibili committenti fiorentini. Nella precettoria dei cavalieri di S. Giovanni a Volterra, i Dei, ben noti banchieri fiorentini che intrattenevano rapporti d'affari soprattutto con la Francia, avevano istituito il legato della celebrazione di numerose messe votive annuali. L'iniziativa era stata presa da Rinieri di Bernardo, pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1506. Nel suo testamento Rinieri aveva lasciato anche l'obbligo all'erede, il figlio Pietro, di arredare la cappella di famiglia nella chiesa di S. Spirito a Firenze, facendovi, tra l'altro, dipingere la pala d'altare. Pietro, intorno al 1507, incaricò Raffaello di darvi esecuzione. Il Sanzio cominciò e condusse a buon punto quella Madonna del Baldacchino, ora a Palazzo Pitti, che lasciò comunque incompiuta nel 1508, quando si trasferì a Roma. Il fatto che diversi anni più tardi Pietro, probabilmente nella seconda metà del 1522, abbia scelto proprio G. per succedere a Raffaello nell'incarico, indica l'interesse e la stima che circondavano il pittore, dopo le opere di Volterra, e forse, anche in maggior misura, dopo la sua attività per gli Appiani, della quale nulla, per ora, è stato rintracciato (Ciardi, in L'officina della maniera…, p. 356). Tanto più che il rientro di G. a Firenze, nell'autunno del 1522 era stato sollecitato anche da una seconda importante occasione, quella di dipingere la pala d'altare per la cappella gentilizia dei Ginori nella chiesa fiorentina di S. Lorenzo. Per quest'ultima G. ricevette pagamenti già nel dicembre del 1522 (Franklin, pp. 303-305). Le due tavole, firmate, ma senza l'indicazione del luogo di origine dell'autore, perché, come si è detto, dipinte a Firenze, sono datate 1522; ma la loro esecuzione deve essere posta, per la massima parte, agli inizi del successivo 1523, in accordo con l'uso cronologico fiorentino.
Soprattutto nella tavola per i Dei G. doveva confrontarsi con precedenti illustri (la Madonna del Baldacchino si trovava ancora a Firenze) ed era obbligato, nella scelta dei santi, da vincoli di riferimento ai patroni della chiesa e della cappella, agli eponimi o protettori dei committenti e dalle allusioni alle vicende della loro vita (Ciardi, in L'officina della maniera…, p. 356). Il risultato è una pala d'altare dalla composizione ampia e articolata, che aggiorna lo schema della sacra conversazione, variata nei moti e negli affetti, già trattata da fra' Bartolomeo e da Andrea del Sarto, e che faceva apparire desueta e quasi arcaica la proposta di Raffaello, precedente di quindici anni. Ma l'intervento di G. nella cappella di S. Spirito è più complesso e coinvolge l'intero vano in cui era situata la tavola, nella quale la Madonna e i santi appaiono collocati su un fondale che riprende i moduli dell'architettura reale sovrastante l'altare. Il pittore tiene sotto controllo ogni elemento della decorazione, in particolare l'eccezionale cornice, rimasta in situ, certo eseguita su suo disegno, come dimostra il confronto con un progetto grafico, di pochi anni più tardo, conservato al British Museum, per la parete di fondo di un vano ecclesiale, e con il foglio con il S. Dionigi, ora a Berlino, del 1535-36, che presentano un'identica struttura lignea e simili modanature architettoniche. Si comprende così l'accenno entusiasta di Vasari (V, p. 156) al fatto che G. era stato "nell'architettura eccellentissimo e straordinario", accenno che risulta confermato, ancor prima dell'attività di arredo "globale" di edifici sacri e profani, esplicata a Roma e in Francia, e oltre le progettazioni per feste e apparati, di cui restano testimonianze nella grafica, anche da un altro disegno con un elaborato progetto di altare, ugualmente conservato nel British Museum, e noto anche attraverso stampe derivate.
Lo Sposalizio della Vergine, dipinto su incarico di Carlo Ginori per la cappella di famiglia in S. Lorenzo, segna il momento di massimo avvicinamento da parte di G. agli ideali, sereni e fastosi, della pittura fiorentina del tempo, per un calcolato consentimento alle probabili volontà del committente, e in rapporto anche alla collocazione, prevista per quello che era, a Firenze, l'edificio sacro più importante dopo il duomo, e teatro, in quanto chiesa medicea, di eventi di particolare impatto non solo religioso, ma anche politico e mondano. Era anche per G., data la rilevanza sociale di chi gli aveva affidato l'incarico, il punto di massima affermazione professionale raggiunto nella città di origine. Il pittore vi si dedicò con singolare impegno. Il recupero di fonti diverse rispetto alle consuete, più accostanti e affabili - l'Incontro di Salomone e della regina di Saba di Lorenzo Ghiberti (Ciardi, in Ciardi - Mugnaini, p. 27) nella porta del battistero e il Raffaello delle Stanze - e più comprensibili per il riferimento a prototipi di identico soggetto - lo Sposalizio del Franciabigio nel chiostro della Ss. Annunziata - consentirono a G. di realizzare quella che è, forse, la sua opera più ricca e più raffinata dal punto di vista figurativo, prima del periodo francese. La molteplicità dei personaggi convocati sulla scena, l'esuberanza e varietà dei colori, vividi ma non dissonanti, il dispiegamento di un articolato registro di gesti, moti e affetti, accordati sull'intonazione della grazia e non della furia, sviluppano indicazioni proposte cinque anni prima dal Pontormo nella pala Pucci in S. Michele Visdomini, punto di partenza della maniera moderna. Ma l'intesa a livello formale con gli orientamenti artistici, ormai fatti propri dal gusto più scaltrito, non trova corrispondenza sul piano dei contenuti. Il tema trattato, di per sé tradizionale, risulta contaminato da inserimenti estranei, come le figure dei santi in primo piano, e da interpretazioni inusuali, come la raffigurazione di s. Giuseppe in età giovanile e addirittura da allusioni mimiche di possibile interpretazione sessuale, forse non irridenti, ma simboliche, dai significati oggi non facilmente decifrabili. Si tratta di un testo di grande complessità culturale, nutrito di una approfondita conoscenza di testi ermetici cinquecenteschi e della mistica ebraica, che fu familiare a G. come hanno dimostrato recenti studi (Falciani, pp. 69-95).
Il notevole successo, soprattutto di questa seconda opera, è registrato da Vasari, che a distanza di meno di trent'anni poteva ancora cogliere l'eco di un apprezzamento che dovette essere concorde. Sta di fatto che a G. si rivolsero altri esponenti delle famiglie più in vista a Firenze. È interessante notare che gli furono richieste opere di una particolare connotazione, non dipinti di argomento sacro o ritratti celebrativi, ma qualcosa che partecipava contemporaneamente delle due intenzionalità, riconoscendo a G. la capacità di condensare nelle sue invenzioni figurative significati allusivi ed emblematici, con rimandi intellettualistici e talvolta capziosi, appoggiati a riferimenti letterari non usuali.
Nel Mosé che difende le figlie di Ietro (Firenze, Uffizi), commissionatogli da Alessandro Giovanni Bandini, la scelta del soggetto si rivolge a un argomento veterotestamentario, che in genere consentiva l'accordo tra tematica sacra e profana; Vasari parla della tela come di una "storia di Mosè quando ammazza l'Egizio". Al contrario Giovanni Cavalcanti, per il quale G. eseguì la Rebecca che al pozzo offre da bere a Eleazaro era un facoltoso mercante in rapporto d'affari con Giulio de' Medici, Leone X ed Enrico VIII, al quale ultimo il dipinto fu probabilmente donato (sappiamo che venne mandato in Inghilterra). L'originale sembra perduto, ma il successo dell'opera è testimoniato dalla copia coeva, come quella nel Museo nazionale di Pisa, e dalla suggestione che esercitò su Francesco Salviati, che ne trasse un disegno, ora agli Uffizi.
Ci è pervenuta, invece, la versione autografa del Mosè. L'estesa amplificazione che subisce l'episodio biblico consente il ricorso a vari autori, come Leone Ebreo, utilizzati per eruditi riferimenti di carattere iconologico e allegorico. Sono così confermate le conoscenze e le simpatie culturali di G. in questa direzione, delle quali già ci eravamo resi conto esaminando lo Sposalizio della Vergine in S. Lorenzo. Dal punto di vista formale nell'opera confluiscono ricordi classici (il Laocoonte) e moderni (il cartone della Battaglia di Cascina), ma sottoposti a una interpretazione destrutturante nell'accentuazione drammatica di una tensione che blocca i gesti attimalizzati e le membra irrigidite. La struttura spaziale, contraddittoria per la sostanziale negazione di una tridimensionalità esattamente definita, porta, ancora una volta, al recupero, con finalità destoricizzanti, di situazioni arcaiche. La giustapposizione di differenti nuclei compositivi, scalati prospetticamente e rilegati da figure cardine ai lati, come avviene nei bassorilievi di Donatello, serve a situare momenti diversi dell'evento rappresentato; tipologia che sarà impiegata da G. anche nel disegno, ora a Parigi in collezione privata, con S. Rocco che distribuisce la propria eredità, giustamente assegnato agli inizi del periodo romano (Carroll, pp. 68 s.).
Il successo del Mosè può essere controllato verificando la fortuna di un particolare, quello del caduto in primo piano che si appoggia sulle braccia, che sarà più volte citato nelle pitture del Cinquecento, da D. Ricciarelli a Vasari (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, pp. 81-83; Schmidt, pp. 78-88).
È evidente, a questo punto, che l'abbandono definitivo di Firenze da parte di G. per trasferirsi a Roma non è da porre, questa volta, in relazione con possibili difficoltà di carattere professionale incontrate nella città di origine. Anzi è certo che anche G., ormai considerato tra i pittori più apprezzati, e consapevole della sua posizione, abbia avvertito, come non pochi altri colleghi, quel senso di insicurezza e di disagio che, già alla fine del secondo decennio del Cinquecento, aveva messo in crisi le certezze del primato figurativo toscano. Può darsi che tra gli artisti che alla fine del 1522 si trovarono, come si è detto, con Perin del Vaga a discutere davanti agli affreschi di Masaccio nella chiesa del Carmine ci sia stato anche G., convinto estimatore di Masaccio, e abbia concordato con le opinioni di Perino. Poi, nel novembre del 1523 Giulio de' Medici era assurto al pontificato col nome di Clemente VII. Gli artisti più ambiziosi e innovatori, i più insoddisfatti della situazione locale, che mostrava segni di involuzione e di provincialismo e che, data l'instabilità politica, offriva scarse occasioni di particolare prestigio, cercarono spazio nella città papale; tra essi Benvenuto Cellini, Baccio Bandinelli, Iacopo Sansovino, il Bacchiacca (Francesco di Ubertino).
Nell'aprile del 1524 anche G. era già arrivato a Roma, dove sottoscrisse il contratto nel quale si impegnava a decorare la cappella Cesi in S. Maria della Pace, affrescandone la facciata, dipingendo la pala dell'altare, ed eseguendovi gli stucchi (Franklin, pp. 305 s.).
L'incarico gli era stato affidato da un altro dei fiorentini di stanza nella capitale, Antonio da Sangallo il Giovane, che sovrintendeva ai lavori della cappella, ma non è da escludere che il suggerimento e lo stimolo per il viaggio gli fosse venuto proprio da Perin del Vaga, conosciuto a Firenze, e con cui sarà in rapporto anche a Roma, tanto che proprio Perino sarà incaricato di completare i disegni per la serie di stampe dedicata a Gli amori degli dei, che G. aveva appena iniziato. G., come appare dalle pagine dell'autobiografia di Cellini (Vita, cap. 25), il quale ebbe occasione di frequentarlo, fece parte attiva del gruppo degli artisti toscani residenti nella città papale; del resto una vita ben socializzata era indispensabile per sopravvivere e per dedicarsi alla professione di disegnatore di soggetti da trasferire in incisioni che prevedeva l'organizzazione di un lavoro di équipe e che G. esercitò anche perché finanziariamente remunerativa. Ciò non toglie che la sua posizione restasse, dal punto di vista ideologico, indipendente e critica. La notizia tramandataci da Cellini (cap. 98) che avendo "detto tanto male de l'opere di Raffaello da Urbino […] i discepoli suoi lo volevano ammazzare ad ogni modo" trova, in un certo senso, conferma, per quanto riguarda la posizione polemica di G. di fronte ai maestri consacrati, in una prudente, ma non convincente, lettera di scusa che scrisse il 6 ott. 1526 da Roma a Michelangelo, allora a Firenze, nella quale cercava di discolparsi di una diceria riferita al Buonarroti, e che egli dichiarava falsa e malevola, ma che invece, quasi sicuramente, rispondeva al vero, secondo cui, visitando la cappella Sistina, aveva affermato che mai avrebbe voluto "pigliar quella maniera" (Franklin, p. 306).
Dunque anche nel corso delle discussioni romane manteneva intatto il suo potenziale di estremizzazione, quella "contraria opinione" che in Toscana lo aveva condotto a riprese caricate e sconvolte di ideazioni e tipologie raffaellesche e michelangiolesche, nella volontà di una riformulazione dei canoni formali, appoggiandoli al personalissimo recupero di situazioni e soluzioni arcaicizzanti. Nel caso di Michelangelo era la conferma di una presa d'atto, sospettosa e discorde, di un esempio eccezionale del quale G. avvertiva, comunque, il fascino. Per Raffaello, invece, l'opposizione era alimentata dall'inevitabile confronto diretto, dato che proprio in S. Maria della Pace il Sanzio, una decina di anni prima, in una collocazione analoga, aveva affrescato, con largo intervento di aiuti, il fronte della cappella Chigi, raffigurandovi Sibille, angeli e santi; una delle sue opere più nobilmente accademiche nella compassata fluenza del linguaggio. Il sottinteso paragone con l'urbinate sta probabilmente alla base della recisa incomprensione di Vasari (V, p. 161) che giudica la Creazione di Eva e la Condanna dei progenitori di G. nella cappella Cesi "un'opera della quale non dipinse mai peggio a' suoi giorni". Si tratta, invece, di una composizione fortemente innovativa, che tiene ben presente nella ripresa delle posture e nell'isolamento delle figure, il precedente raffaellesco, ma "traguardandolo come di sbieco" (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 111) e sottoponendolo a una drastica riduzione dell'evidenza volumetrica. Nel disancorarsi delle figure dal fondo e nella levitazione delle membra e dei corpi si precisa una linea di ricerca espressiva in quegli anni portata avanti anche dal Pontormo a Firenze, e che di lì a poco avrebbe trovato esplicitazione nella Deposizione di S. Felicita, e più tardi perentoria applicazione nei disegni per gli affreschi nel coro di S. Lorenzo. La pala d'altare della cappella non fu mai eseguita. Il contrasto, durissimo, che oppose ben presto G. ad Antonio da Sangallo, che gli revocò l'incarico per le parti non ancora eseguite, e cercò, anzi, di impedire che trovasse altri lavori, fu dovuto, stando a Cellini (Vita, cap. 98) al fatto che il pittore aveva detto male del "molto eccellente architettore"; un biasimo che certamente non riguardava fatti privati, ma coinvolgeva radicali divergenze in materia artistica, dato che il giovane Sangallo impersonava la tradizione architettonica raffaellesca, della quale fu continuatore ed erede.
Gli stucchi della cappella Cesi rappresentano, infatti, un'interpretazione della grazia cinquecentesca assai diversa, nella pungente freschezza del modellato e nella accarezzata eleganza delle forme, dalla composta grandezza assunta come canone nelle opere del Sanzio e della sua scuola e ricordano piuttosto soluzioni consimili fatte proprie da Silvio Cosini e, per i partiti decorativi, da Perin del Vaga (Falciani, p. 59). Ma in particolare le figure di efebi rannicchiati rimandano, con corrispondenza speculare, a quel Cristo morto, ora a Boston (Museum of fine arts), che G. dipinse a Roma, per il vescovo di Sansepolcro, il fiorentino Leonardo Tornabuoni: le teste ricciute, nel vibrante trattamento delle ciocche dei capelli, richiamano quelle degli angeli reggicero sullo sfondo nella tavola di Boston; e la sigla del loro corpo è identica a quella del Cristo rappresentato nudo, senza remore, e di una statuaria, intatta, eroica e sensuale bellezza. Tanto che la decifrazione dei significati sottesi a un tema topico, ma qui interpretato in modo del tutto innovativo, ha messo in difficoltà gli esegeti moderni.
Al periodo romano deve essere assegnata anche la Cleopatra morente, ora a Brunswick (Herzog Anton Ulrich - Museum), che al di là di particolari analogie tipologiche e strutturali col Cristo morto (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 134), si può affermare che ne costituisce, nel suo insieme, il virtuale pendant. Ambedue i dipinti, che presentano il momento di massimo consentimento classicista di G., soprattutto come intenzionalità poetica, appoggiano l'invenzione su immagini ben note derivate dalla statuaria antica: il Cristo sul cosiddetto Letto di Policleto; la Cleopatra sulla Arianna abbandonata, ora nei Musei Vaticani. Ma al tono laico e vitalistico, anche nell'esaltazione cromatica, che accende il dipinto di Boston, corrisponde nella tavola di Brunswick, per l'incupirsi del colore, per la radenza delle ombre, per la rappresentazione dello sconforto nell'ancella, un'atmosfera di accorata tristezza, che immette il tema profano in un'atmosfera quasi religiosa, dando ancora spazio a quello stravolgimento formale dei generi figurativi, già adottato da G., e che avrà poi ampio seguito nella pittura e nella scultura del periodo manierista.
Alla fine degli anni romani deve essere assegnato anche il Ritratto di giovane ora nel Museo di Capodimonte a Napoli che recenti restauri hanno restituito a una migliore leggibilità, consentendo di apprezzare i particolari che circondano il personaggio rappresentato, il quale ricorda, nell'impostazione, la figura femminile nella zona superiore del Mosè e le figlie di Ietro. Come nel Mosè la composizione è impaginata per giustapposizione di differenti nuclei, tra loro non prospetticamente collegati, che danno all'immagine un'impostazione astratta, avvalorata dall'arazzo semisollevato sullo sfondo, in cui è riconoscibile un cavallo, che reca sospesa alla briglia un'immagine sacra, rappresentato araldicamente come quelli di Paolo Uccello, pittore che è stato inserito tra le fonti di Giovanni Battista.
Le tragiche vicende del sacco di Roma del maggio 1527, coinvolsero pesantemente anche G. che, stando a Vasari (V, p. 162), fu "fatto prigione de' Tedeschi, e molto mal trattato". Liberato fuggì a Perugia, presso il pittore Domenico Alfani, per il quale fece il disegno di un'Adorazione dei magi (per il dipinto derivato, si veda Franklin, pp. 158-160). Il biennio 1527-28 appare come uno dei momenti più irrequieti della vita di G., ma anche come uno dei più intensi per progettazioni e realizzazioni artistiche. Da Perugia si recò a Sansepolcro, città della quale era vescovo Leonardo Tornabuoni, l'amico per cui aveva dipinto a Roma il Cristo morto ora a Boston. Fu l'intervento di questo che nel settembre del 1527 convinse la Confraternita dei Battuti ad affidargli l'incarico di dipingere per l'oratorio della S. Croce, di pertinenza di questa compagnia, la tavola con la Deposizione, poi trasferita nella chiesa di S. Lorenzo (ibid., pp. 164-168, 308).
La ripresa del tema già trattato a Volterra, e di cui restano comunque tracce nelle figure degli assistenti, mostra in maniera evidente il nuovo corso stilistico dell'arte rossesca. Nella tavola, immersa in "un colore di luce serotina e quasi notturna, che dà il tuono a tutto il dipinto, tetro, vero, degno di qualunque fiammingo" (Lanzi, 1809), si fa presente e quasi palpabile il ricordo recente della tragica esperienza del sacco di Roma. Il ritmo ascendente della pala volterrana, sottolineato dalla scelta del formato verticale, si riduce qui alla focalizzazione del piano di posa, gremito di astanti. Lo svenimento della Madonna, rappresentata con la braccia alzate e distese, quasi fosse stata anch'essa crocifissa (Franklin, p. 170), assume un ruolo centrale; il corpo del Cristo, ormai calato a terra, integralmente nudo come quello rappresentato nella tavola di Boston, ne costituisce l'interpretazione radicalmente alternativa nel rifiuto della conduzione pittorica smaltata e tornita e nell'accentuazione dell'evidenza di spasimi e di torsioni realistiche, tratte da studi di chiara impostazione anatomica (disegno all'Albertina di Vienna), che allontanano, forse anche in chiave polemica, il riferimento, incontrovertibile, alla Pietà michelangiolesca in S. Pietro. Nella concitazione dei gesti, nella potenza di sintesi, nell'impeto drammatico, riemergono, decontestualizzati, i ricordi di esperienze giovanili: Donatello nel rilievo, di analogo soggetto, del pulpito di S. Lorenzo; fra' Bartolomeo nella Maddalena prostrata ai piedi del Cristo; il cartone della Battaglia di Cascina nel torso del giovane che sorregge le spalle del Cristo, il cui corpetto istoriato aderisce ai muscoli, modellandoli, quasi fosse la pelle. Dalle tenebre dello sfondo - estrema contraddizione rispetto al chiarore incorrotto e smaltato di quello della Deposizione volterrana - emergono, tra l'accendersi improvviso dei bagliori cromatici, verdastri e affocati, nelle vesti dei presenti, presenze inquietanti, come la testa mostruosa e bestiale dell'armigero accanto alla scala, i cui tratti deformi, descritti con aderenza alle indicazioni dei trattati di fisiognomica, alludono alla presenza del male (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, pp. 49 s.).
Mentre attendeva alla Deposizione giunse da G. il pittore aretino Giovanni Antonio Lappoli, anch'egli fuggito da Roma a causa del sacco, che gli richiese, e ottenne, un altro disegno, dopo quello dato ad Alfani, per una Adorazione dei magi del quale si servì per la tavola in S. Francesco ad Arezzo (Franklin, pp. 177 s.). Nell'aprile del 1528 anche G. andò ad Arezzo, dove incontrò il giovane Vasari (VII, pp. 651 s.), al quale fornì un disegno per un dipinto raffigurante la Resurrezione. La notizia è importante perché, attestando i diretti e buoni rapporti tra G. e Vasari, che ebbe occasione di incontrarlo nuovamente anche a Sansepolcro (VI, p. 216), dà affidabilità, almeno per quanto riguarda il periodo italiano, alle informazioni trasmesseci da quest'ultimo.
Il 1° luglio dello stesso anno G. ottenne l'incarico di dipingere il Cristo in gloria per la cattedrale di Città di Castello (Franklin, p. 310). L'esecuzione fu particolarmente travagliata poiché i mesi che seguirono, funestati da incidenti e da malattie, costrinsero il pittore a portarsi a Pieve Santo Stefano, poi nuovamente a Sansepolcro, dove riuscì a condurre a termine la tavola.
Considerato impropriamente fino a tempi recenti come una Trasfigurazione, il soggetto della pala di Città di Castello risulta chiaramente dal contratto di allogazione a G., dove si parla di un "Christo resuscitato e glorioso con la figura de la Nostra Donna, con la figura de Sancta Anna, con la figura de Sancta Maria Maddalena, con la figura S.M. Emptiana (Egiziana, Egiziaca) e da basso […] più e diverse figure che dinotino, rappresentino el populo, con quelli angeli che a lui [al pittore] parerà de acomodare". Data la committenza e la congruente collocazione - il dipinto era stato commissionato dalla Compagnia del Corpus Domini, per essere collocato nella cappella del Ss. Sacramento della cattedrale - è indubbio il riferimento al corpo di Cristo, risorto e glorificato dopo la Passione, al quale è costante richiamo nelle Scritture. La sistemazione originaria lo prevedeva al di sopra del tabernacolo nel quale si conservavano le sacre specie, così che ne risultava una celebrazione trionfale del mistero eucaristico; e, infatti, relazionati all'eucaristia sono anche i personaggi sacri raffigurati ai lati del Cristo (Franklin, pp. 191-200). Così anche la rappresentazione "denotativa" del popolo, per allusione a varie categorie di persone, di mestieri e anche di etnie (il negro, la zingara) ben si adatta al sentimento di solidarietà e alla meditazione sul valore universale del sacrificio, offerto "pro multis", anzi a chiunque intenda esserne degnamente partecipe. Tuttavia l'interpretazione data da G. della traccia propostagli nel contratto, di per sé adempiente e teologicamente corretta, risultò, al solito, estremamente personalizzata, tanto da non soddisfare i committenti, come nota Vasari (VI, p. 166), il quale si mostra perplesso per l'inserimento in un dipinto sacro di "mori, zingani", e delle "più strane cose del mondo"; e "componimento molto stravagante" lo giudicò, senza mezzi termini, alla fine del secolo, Raffaele Borghini (Il riposo, Firenze 1584, p. 436). Certo è che la religiosità ambigua e contraddittoria di G., la cui pregnanza e i cui precisi orientamenti ci sfuggono per mancanza di dati concreti, come del resto avviene per molti artisti a lui contemporanei, si era forse acuita e resa più intensa in quegli anni torbidi di crisi politica e morale, per il drammatico coinvolgimento emotivo nelle vicende che segnarono profondamente anche la vita artistica e intellettuale a Firenze e a Roma.
L'atmosfera plumbea e sulfurea, l'apparizione del Cristo, che la luce rilega entro una cornice a mandorla, di ricordo tre-quattrocentesco, il senso di isolamento, di torpore, di malinconia, che blocca l'incipiente tumulto fantastico della piccola folla raggruppata nella zona inferiore della tavola, contraddicono nella sostanza quel senso di gioiosa e fiduciosa celebrazione che i committenti intendevano come peculiare del tema assegnato. Il clima del Cristo in gloria è simile a quello della Deposizione di Sansepolcro, e analogo è il recupero delle fonti figurative quattrocentesche, qui individuabili particolarmente negli affreschi di Masaccio al Carmine di Firenze (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, pp. 25-28).
Le positive relazioni stabilite, tramite Lappoli e Vasari, con l'ambiente aretino furono il motivo del trasferimento di G. in questa città, dove nel novembre 1528 gli fu chiesto, su sollecitazione, appunto, di Lappoli, di occuparsi della decorazione della chiesa della Madonna delle Lacrime, dopo che era stato revocato l'incarico a Niccolò Soggi, il quale non aveva dato buona prova nell'unico affresco - la Visione della Sibilla Tiburtina - che aveva eseguito.
L'attività ideativa fu intensa. G. eseguì i disegni degli affreschi, che dovevano celebrare allegoricamente la missione corredentrice della Madonna, nuova Eva, arca dell'alleanza, trono di Salomone e perciò sede della Sapienza, tabernacolo dello Spirito Santo. Il programma iconografico, suggerito dal canonico aretino Giovanni Pollastra, detto il Pollastrino, un umanista in ritardo, prolifico autore di opere latine e volgari, che insegnava grammatica, programma che sembrò "bizzarro" a Vasari, si ispirava invece a immagini simboliche assai diffuse, desunte soprattutto dall'Antico Testamento e dall'Apocalisse, commentate dai Padri, divulgate da opere compilatorie quali lo Speculum humanae salvationis e divenute tanto familiari da fornire ispirazione alle litanie mariane (Franklin, pp. 241-249). G. progettò l'intera decorazione, di cui restano vari disegni, alcuni autografi, altri derivati da fogli non rintracciati, giungendo fino all'approntamento dei cartoni preparatori; ma non pose mai mano alla realizzazione vera e propria degli affreschi.
Sono stati collegati con la chiesa della Madonna delle Lacrime alcuni studi, di dubbia autografia, per una pala, anch'essa mai eseguita, raffigurante l'Immacolata Concezione; di più sicuro riferimento, invece, il progetto per un altare, noto attraverso un foglio autografo ora nel British Museum, e attraverso un'incisione trattane da Cherubino Alberti, sul quale doveva essere posta la statua quattrocentesca in terracotta della Madonna delle Lacrime, che dava il titolo al santuario (Carroll, pp. 62-68). Sempre ad Arezzo, per la Fraternita dei Laici G. si era impegnato a dipingere una tavola con la Madonna della Misericordia, della quale conosciamo un disegno preparatorio, conservato al Louvre, dove nelle figure dei fedeli, raccolte sotto il manto protettore della Vergine, è possibile cogliere indicative somiglianze con il "popolo" rappresentato nel Cristo in gloria di Città di Castello. A questi ultimi anni del periodo italiano vengono comunemente assegnate altre invenzioni - per un Martirio di s. Stefano, per un'Agonia nell'orto - che forse non furono finalizzate alla realizzazione pittorica, ma alla traduzione a stampa (infatti ci sono note attraverso incisioni, tarde, dell'ultimo quarto del Cinquecento, dovute a Cherubino Alberti). Non ne conosciamo i disegni preparatori, e quindi l'analisi stilistica presenta un certo margine di approssimazione.
La generosità da parte di G., "persona cortese" (Vasari, V, p. 165) nell'aderire a colleghi (Alfani, Vasari, Lappoli) e privati che gli richiedevano idee e progetti, la prontezza e l'entusiasmo con cui avviava le fase preparatoria di imprese artistiche complesse, senza riuscire poi a realizzarle - anche a Roma aveva lavorato "una bozza della Decollazione di San Giovanni Batista" (Vasari, V, p. 162) non portata a conclusione -, segnalano la dimensione mentale della sua ispirazione, che tendeva a esaurirsi nella speculazione inventiva, nella scelta ardua, quando non capziosa, della conduzione espressiva, con i relativi addentellati a riferimenti, anche stilistici, meno consueti, e nel costante ricorso alla presentazione di contenuti inusuali, o comunque interpretati in modo eccentrico, e utilizzati come antidoto nei confronti della cultura integrata, sia pure di buon livello, del tempo. Da qui l'attenzione assorbente per l'individuazione di programmi tematici organici ai quali G. restò fedele per tutta la sua carriera: il più significativo è quello relativo alla meditazione sul corpo del Cristo, che prende avvio dalla Deposizione di Volterra e innesca una sequenza narrativa nella quale i vari momenti del distacco e della discesa del Redentore morto dalla croce sono argomento di descrizioni pittoriche, scalate nel tempo, presentate in successione, alle quali il pittore si dedicò per un ventennio. A Volterra il corpo del Cristo, esposto agli sguardi dei fedeli nell'icastica e cruda drammaticità della morte appena avvenuta, sta scivolando verso il basso dal sommo del patibolo; a Sansepolcro il sacro cadavere, staccato ormai dalla croce, è sostenuto dalle ginocchia della madre, secondo un'iconografia tradizionale; nel periodo francese, nella tavola per Anne de Montmorency, ora al Louvre, e nel disegno, non rintracciato, che servì da modello per l'incisione di Antonio Fantuzzi, il Cristo è ormai deposto a terra, poggiato su un cuscino, e richiama in chiave più intensa, e con sottolineatura tragica, nell'impostazione del busto semisollevato, la redazione del Cristo di Boston che si pone come momento contrastivo a questa linea di riflessione perché si rivolge alla considerazione del corpo incorrotto e presago della glorificazione, quello stesso che aveva dato argomento al Cristo in gloria di Città di Castello (Franklin, p. 191).
L'applicazione mentale sulla dimensione antropologica non restò in G. - come del resto in tanti artisti a lui coevi o precedenti - limitata alla sfera del divino, ma invase quella del sacro e dell'umano, con proposte dissacranti o ironiche, dalla presentazione dei santi scarnificati, consunti, mummificati della pala di Ognissanti e della Madonna di Los Angeles all'aitante e giovane s. Giuseppe dello Sposalizio in S. Lorenzo, che, sconvolgendo parametri visivi sedimentati, finivano per essere avvertite come allusioni maliziose o come disturbanti parodie. Così l'insistere sulla macerazione alla quale il corpo è sottoposto dalla necessità delle vicende a tutti comuni - malattia, vecchiaia, morte -, che trova esplicita rappresentazione nel disegno-incisione col Respice finem (Ciardi, 1997, pp. 269-274), suggerisce una radicale alternativa a quella celebrazione della figura umana, perfetta come un solido regolare, e a esso assimilabile, sulla quale si era attestata la fiducia artistica del Rinascimento. E l'applicazione da parte di G. allo studio dell'anatomia - con pratica diretta della dissezione, come ricordato da Vasari (V, p. 166) e come risulta dal suo lascito grafico - non si concentra sull'indagine rivolta alla costruzione dell'uomo perfetto nel fisico e "vero" negli atteggiamenti, ma si fa esperienza totalizzante che non esclude la dimensione inquietante del macabro. Una cultura, dunque, complessa e penetrante, nutrita da letture più ampie e più sottili di quella che potevano consentire i libri di sua proprietà che G., partendo dall'Italia, lasciò ad Arezzo (Falciani, p. 62). Questi, comunque, ci assicurano che il pittore sapeva il latino - conoscenza non certo comune presso gli artisti - confermando l'affermazione di Vasari (V, p. 166). Scandagli in direzioni più raffinate sono sollecitati dall'esame di opere come lo Sposalizio della Vergine in S. Lorenzo o il Cristo in gloria di Città di Castello, dalle quali si rileva, come si è accennato, un approccio verso la letteratura cabalistica cristiana, secondo la tradizione che aveva preso inizio dall'Heptaplus di Pico della Mirandola, ed era stata poi raccolta nel De occulta philosophia di Cornelio Agrippa di Nettesheim, che vi aveva unito elementi magici ed esoterici di forte pregnanza emblematica e simbolica (Falciani, pp. 69-95).
Si comprende perciò il rischio di incomprensione nei confronti di un'arte difficile, sia per quanto riguardava le arditezze formali, sia per l'evocazione di tematiche accettabili solo da parte di un pubblico particolarmente acculturato. È contraddizione solo apparente che G. in Italia sia stato attivo soprattutto in centri sostanzialmente marginali e per confraternite legate a devozioni popolari, che equivocarono, scambiando per tradizionalismo e inclinazione arcaizzante novità radicali e oltranziste.
L'episodio raccontato da Vasari (V, p. 166) secondo cui il definitivo allontanamento del Rosso dalla Toscana era stato causato da uno scherzo, organizzato da un suo garzone, che provocò una rissa scoppiata il giovedì santo del 1530 in una chiesa di Sansepolcro, corrisponde probabilmente a un fatto realmente accaduto; ma altre furono le ragioni effettive di una decisione che maturava da tempo, cioè quella di reagire alla continua emarginazione professionale.
La scelta di andare a Venezia, dove G. si avviò prendendo la via di Pesaro, è densa di significato. La città presentava le possibilità offerte da un ambiente mondano e spregiudicato, aperto alle novità che erano ben accolte da una cultura libertina, particolarmente interessata, fin dagli inizi del Cinquecento, alle opere d'arte che alla qualificazione stilistica unissero densità concettuale e profondità di contenuti definiti da iconologie complesse di selettiva interpretazione. Ma l'internazionale Venezia era anche, per artisti e uomini di cultura, la porta di accesso alla Francia: vi aveva soggiornato Iacopo Sansovino, accarezzando progetti, non realizzati, di trasferte francesi (Falciani, p. 62). Soltanto l'anno prima Michelangelo, che vi si era recato, ospite onoratissimo della Repubblica, aveva mostrato l'intenzione di proseguire il viaggio verso la corte di Francesco I (Franklin, p. 263). A Venezia G. fu accolto da Pietro Aretino, probabilmente conosciuto a Roma nel 1524-25. A lui aveva fatto dono del disegno, ora al Louvre, con Venere e Marte - di raffinata fattura, e di straordinario impatto decorativo -, che ebbe anche una traduzione a stampa. Non c'è motivo per ritenere che l'Aretino, che pure si poteva considerare uno dei consulenti artistici di Francesco I, abbia richiesto il disegno per donarlo al re. Il foglio, quasi totalmente privo di carica erotica, nella presentazione ironica e lieve del mito, si situa su un versante diverso rispetto alla serie degli Amori degli dei e si oppone alla licenziosità greve dei Modi di Giulio Romano, per i quali proprio l'Aretino aveva scritto i sonetti di accompagnamento, quasi che G. volesse mostrare al celebre letterato una maniera diversa di presentare tematiche di carattere amoroso. In ogni caso, prima del suo arrivo a Parigi, nel novembre del 1530, G. era già noto al re di Francia, al quale era pervenuto il Mosè che difende le figlie di Ietro (Franklin, p. 264). Tuttavia l'affermazione di Vasari che G. era stato raccomandato a Francesco I proprio dall'Aretino risulta confermata da accenni nell'epistolario di questo. Si può dire che l'arrivo in Francia di G. era, in un certo senso, atteso e preparato. Dal 1522 Luigi Alamanni, quasi coetaneo di G., era a Parigi in fuga da Firenze in seguito alla fallita congiura antimedicea degli Orti Oricellari, dopo aver fatto tappa, anch'egli, a Venezia. È ben possibile che del cenacolo accademico degli Orti sia stato partecipe anche G., almeno marginalmente (Fumaroli, in Pontormo e Rosso, pp. 104-110), ma forse in misura maggiore di quanto è stato supposto per il Pontormo. Dalla frequentazione di quel circolo filosofico, che era stato dominato dall'insegnamento di Francesco da Diacceto, erede spirituale di Marsilio Ficino e maestro di Alamanni, G. aveva tratto l'interesse e la competenza per una pittura "filosofica", quella che già caratterizza le tavole eseguite nel secondo periodo fiorentino. In ogni caso G. sembra essere stato sempre rigorosamente estraneo a simpatie e coinvolgimenti medicei, anche dal punto di vista professionale. L'aver escluso, anche in via ipotetica, un tentativo di rientro nella Firenze post 1530, ormai inevitabilmente avviata verso il principato mediceo, e l'essersi invece diretto verso lo Stato di Francesco, il re che era sempre stato punto di appoggio per i fuorusciti antimedicei, costantemente aiutati e incoraggiati anche dopo l'armistizio di Nizza con Carlo V, deve essere interpretato come una precisa scelta di campo.
Anche per questo il successo di G. in Francia fu, in pratica, immediato. Le lettere di Antonio Mini a Michelangelo del dicembre 1531 e del gennaio dell'anno successivo, parafrasate da Vasari (V, p. 172), sottolineano gli eccezionali risultati professionali, soprattutto per quanto riguardava il lato finanziario: G. "gran maestro di denari e d'altre provvisioni" faceva vita "da signore grande" (Franklin, p. 295). Le patenti di Francesco I del maggio dello stesso 1532 confermano il favore e il prestigio - ai quali non erano estranei concreti risvolti economici - che circondavano il pittore. Tra l'altro fu fatto canonico di Notre-Dame e della Sainte-Chapelle, il che non comportava, secondo le consuetudini del tempo, la necessità di prendere gli ordini sacri, neppure quelli minori, per essere immesso nel godimento del beneficio.
Dell'inizio del periodo francese, prima che i lavori per Fontainebleau assorbissero G. in maniera considerevole, abbiamo scarsissime testimonianze pittoriche. È possibile che la sua attività, come ci segnala anche Vasari (V, p. 170), fosse prevalentemente rivolta all'esecuzione di "infiniti disegni […] di saliere, vasi, conche, bizzarrìe […] per abigliamenti di cavalli, di mascherate, di trionfi"; il che era poi ciò che in prima istanza si richiedeva a un pittore di corte appena arrivato, ma dove quell'inclinazione di G., di cui si è detto, per il momento progettuale e ideativo, trovava pieno soddisfacimento. Ci sono rimaste stampe con costumi di maschere (Le tre Parche; Ercole) e una stampa con la Danza delle Driadi che servì poi, alla metà del secolo, per la decorazione di un piatto da parata (Carroll, pp. 212, 342, 284). In qualche altro caso si può pensare che i disegni, a noi noti, di questi anni francesi, potessero essere finalizzati a un impiego pratico: per esempio, il foglio, conservato a Oxford, che illustra la prima "visione" della canzone di Francesco Petrarca (Rime, 323), è senz'altro da porre in relazione con la scoperta, avvenuta nel 1533, della presunta tomba di Laura in Avignone; per questo forse, più che al progetto per un arazzo (Carroll, pp. 208-210), si potrebbe pensare all'idea per il frontespizio di un'edizione delle Rime, come sembra indicare anche l'apposizione dello stemma del cardinale Jean de Lorraine al centro del margine superiore, o forse anche a una miniatura di corredo a un testo petrarchesco, dato che con questa tecnica G. eseguì per la corte "cose rarissime", come ci assicura Vasari (V, p. 171). Di altri disegni e stampe la cui impaginazione e struttura sembra effettivamente relazionabile con l'esecuzione di dipinti o, addirittura, di pale di altare (l'Annunciazione dell'Albertina di Vienna, i Ss. Pietro e Paolo), non possediamo indicazioni in questa direzione; così per il disegno con la figura di S. Dionigi inserita entro un altare, ora a Berlino che, data la scelta del santo, sembra essere stato previsto per la realizzazione in una chiesa di Parigi (Carroll, p. 220). Comunque l'attività di inventore per stampe di larga diffusione fu intensa. G. trattò soggetti sia sacri, sia profani: la Sacra Famiglia, nota in varie redazioni; l'Allegoria della Fama; le Parche nude, vale a dire interpretate secondo quella redazione del mito che le collegava alle Muse e alle Grazie, e coerentemente rese con una conduzione disegnativa di raffinata accentuazione plastica; Cefalo e Procri, che riprendono, aggiornandolo, il tema degli Dei nelle nicchie; il Sogno di Ercole e il S. Rocco/Empedocle, dei quali ci sono giunti i disegni preparatori, conservati, rispettivamente, al Louvre e al Getty Museum di Malibu, California.
Nulla però sappiamo delle opere citate dal Vasari (V, p. 171) e di quelle menzionate da Cassiano Dal Pozzo, nel resoconto della visita, effettuata nel 1625, al Cabinet des peintures del castello di Fontainebleau. Questi, tra i pochi dipinti di G., ricorda una Giuditta con la testa di Oloferne, che, essendo vestita all'antica, sembra difficile porre in relazione con la sanguigna di Los Angeles - uno straordinario disegno in cui l'evaporazione plastica dei corpi riporta alla memoria la Madonna di Los Angeles e il Respice finem degli Uffizi - dove le figure della Giuditta e dell'ancella sono integralmente nude; più probabile, quindi, che dello scomparso dipinto resti il ricordo in una stampa con la Giuditta a mezzo busto (Carroll, pp. 180 s., 364), che però non presenta la testa di Oloferne.
Lasciando da parte il grande ciclo di Fontainebleau, che a sua volta diede materia a una quasi inesauribile serie di stampe derivate, compresa la traduzione di particolari anche di carattere decorativo tratti dagli affreschi e dagli stucchi, solo la tavola (ora trasportata su tela e conservata al Louvre) con il Cristo deposto si offre alla nostra considerazione.
La scelta del formato, che esclude ogni riferimento all'ambientazione e agli strumenti della crocifissione, la riduzione - e concentrazione - degli astanti e il loro rapporto con le figure protagoniste della Madonna e del Cristo mostrano il riemergere dei ricordi della giovanile formazione fiorentina nell'accosto evidente alla Pietà, ora a Vienna, che Andrea del Sarto dipinse alla fine del secondo decennio del Cinquecento e, a quanto sembra, proprio nella Ss. Annunziata. Ripreso in controparte, lo schema compositivo traduce in tensione drammatica l'intensità patetica della tavola sartesca, sottolineando l'espressionismo estremo dei corpi e delle membra e destrutturando per consunzione luministica e asprezza di stesura le tonalità cromatiche, smaltate e cangianti, del modello.
Ancora un pensiero di Andrea del Sarto sembrerebbe stare alla base del disegno (noto anche attraverso un'edizione speculare a stampa), conservato all'Albertina di Vienna, raffigurante l'Annunciazione, che è in stretto rapporto con la lunetta, ora in Palazzo Pitti, della distrutta pala di Sarzana; analoghe l'impaginazione, la messa in scena e l'ambientazione, ricalcolata con un'eccedenza di finezza decorativa. La pala di Sarzana era datata 1528; ma brevi visite di G. a Firenze nel periodo 1527-28 sono state fondatamente supposte; e comunque le opere di Andrea, anzi i suoi disegni preparatori, erano noti e copiati, e avevano una loro diffusione nell'ambiente artistico. È in ogni caso certo che in Francia G. si affidò, con rinnovata fiducia, alle reminiscenze figurative provenienti dalla terra d'origine, non per nostalgia, ma per accreditare il proprio lignaggio artistico presso la corte e presso il circuito culturale francese, così convintamente italianisant.
L'imposto donatelliano per molti degli episodi affrescati nella grande galleria di Fointainebleau è già stato notato. Ancora più insistenti, e precise fino alla citazione vera e propria, sono le attinenze con Michelangelo, il quale, come abbiamo visto, solo pochi mesi prima dell'arrivo di G. in Francia era stato sul punto di accettare i pressanti inviti di passare al servizio di Francesco I. Il disegno con Il martirio dei ss. Marco e Marcellino, ora a Digione, mostra nella figura in alto a sinistra un calco diretto dall'affresco con la Punizione di Aman nella cappella Sistina; l'incisione con il Redentore entro una nicchia funziona quasi come una traduzione a stampa del Cristo risorto del Buonarroti in S. Maria sopra Minerva a Roma (Ciardi, in Il Rosso e Volterra, pp. 32 s., 53-55). Il momento più stringente di questo confronto, ormai risoltosi in un omaggio deferente, è rappresentato dalla replica, ora a Londra, della Leda e il cigno di Michelangelo, che era giunta in Francia nel 1532 (Carroll, pp. 318-327). Ma questo dipinto famoso, e ora perduto, era subito diventato il banco di prova di svariati artisti, e se ne erano tratte numerose copie, così che la ripresa da parte di G. appare meno significativa.
Il periodo esclusivamente parigino fu relativamente breve. Agli inizi del 1532 G. aveva già cominciato a lavorare ai progetti della grande galleria di Fontainebleau, dove si erano concluse da poco le opere murarie. Poi, al momento della realizzazione dei lavori, sarà per lui necessario trasferirsi sul luogo. I pagamenti lo mostrano attivo - dal luglio 1533 fino al 1539 - all'esecuzione degli affreschi e alla direzione della messa in opera degli stucchi, con una significativa escalation di impegni e di responsabilità; dal 1536 è indicato come direttore di tutti i lavori (ibid., pp. 222-228).
Buona parte dell'opera di G. nel complesso di Fontainebleau è andata perduta. Il padiglione di Pomona venne demolito nel 1765-66, e i due grandi affreschi con gli Amori di Vertunno e Pomona, eseguiti in collaborazione con Francesco Primaticcio negli anni 1532-33, furono distrutti: della decorazione rossesca resta il ricordo in alcune stampe incise da Antonio Fantuzzi (ibid., pp. 200-203). Anche la grande galleria ha subito varie vicissitudini che hanno comportato riduzioni e mutilazioni: per esempio, le pareti di testa, orientale e occidentale, furono profondamente modificate intorno al 1757: gli ovali dipinti a olio che le ornavano e che rappresentavano Bacco e Cupido e Venere e Cupido, ampiamente descritti e lodati da Vasari (V, p. 168), furono rimossi; il primo è stato identificato con la tela conservata nel Museo del Lussemburgo (Beguin, 1989).
Gli affreschi rimasti non sono in buone condizioni (migliore è lo stato di conservazione degli stucchi); ma la lettura, integrata dalla traduzione a stampa, dovuta soprattutto ad Antonio Fantuzzi, dei singoli episodi raffigurati in un'epoca nella quale l'insieme non aveva subito alterazioni di rilievo consente di apprezzare la resa stilistica ed espressiva e di analizzare il complesso programma iconografico. Nutrito di una eccezionale erudizione letteraria, questo si venne articolando in corso d'opera, anche perché il progetto architettonico originario fu sottoposto a modifiche. Fu cambiata la struttura di alcune storie affrescate (la composizione primitiva è in qualche caso testimoniata dalle stampe di Fantuzzi) e mutato persino il soggetto a causa di vicende sopravvenute: per esempio, dopo la morte del delfino di Francesco (10 ag. 1536) la scena con I funerali di Ettore venne sostituita con la Morte di Adone (ibid., p. 224). Così è stato supposto che alcuni temi già previsti non abbiano poi trovato collocazione: è il caso del disegno con il Vaso di Pandora, che ragioni stilistiche inducono a situare negli anni centrali dei lavori nella grande galleria e per il quale è stato supposto che contenga il progetto originario per un affresco poi sostituito dall'Illuminazione di Francesco I (D. Panofsky - E. Panofsky, 1958).
L'interpretazione del tema generale del ciclo - ma anche la precisa identificazione di molti degli episodi rappresentati - è questione ardua che resta ancora in parte irrisolta. Recentemente (Fumaroli, in Pontormo e Rosso, pp. 102-113) è stato con fondatezza posto in rilievo il ruolo che nella scelta dell'argomento deve aver avuto il fuoruscito fiorentino Luigi Alamanni, che insieme con Guillaume Budé e con Lazare de Baïf fu in rapporto con Giovanni Battista. Erano questi tra i maggiori esponenti in Francia di quel revival ellenizzante che ebbe il suo punto di forza nella rivalutazione di Pindaro. Proprio nel 1533, quando prese inizio la decorazione di Fontainebleau, Alamanni dava alle stampe i primi tre inni pindarici, in italiano, dedicati a Francesco I, nei quali il re è paragonato agli antichi eroi mitici: Teseo, Achille, Ettore. Così anche la grande galleria può essere considerata come un inno figurativo a Francesco I e al suo regno (ibid., p. 109), una celebrazione allegorica che a lui costantemente fa riferimento, come ricorda la presenza quasi ossessiva nei partiti decorativi dell'emblema araldico del sovrano, la salamandra che vive tra le fiamme.
G. era, come si è visto, in possesso di una cultura letteraria mediamente superiore a quella della quale erano allora forniti gli artisti, e a Fontainebleau era conservata la ricca biblioteca reale. A molti testi, che sono stati individuati come punti di partenza per l'ideazione del ciclo, il pittore poteva accedere direttamente: tra questi le Metamorfosi di Ovidio, gli Hieroglyphica di Orapollo, che costituivano un repertorio emblematico-iconografico abbastanza familiare agli artisti, e soprattutto gli Emblemi di Andrea Alciati, pubblicati a Parigi nel 1531, uno dei riferimenti primari anche per quanto concerne la particolare struttura del rapporto testo-immagine. Per altre conoscenze più fini e meno comuni, come il De beneficiis di Seneca, le Favole di Igino, da cui è ricavato il tema della Vendetta di Nauplio, o i commentatori tardoantichi dell'Eneide, bisogna supporre l'intervento di amici dotti, come Alamanni, che deve aver giocato un ruolo rilevante nell'invenzione del tema.
Il sovrano è costantemente al centro della celebrazione; a lui si riferiscono direttamente le scene dell'Elefante reale (secondo Orapollo l'elefante è simbolo dell'uomo prudente e giusto), dell'Unità dello Stato, dell'Illuminazione di Francesco I. Al felice stato del Regno alludono i temi che rappresentano virtù e vizi, soprattutto quelli che ineriscono a una dimensione sociale: Cleobi e Bitone, l'Incendio di Catania, che esaltano la pietaserga parentes (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 142); la Lotta fra i Centauri e i Lapiti, il Ratto di Europa, la Vendetta di Nauplio, che stigmatizzano e condannano le passioni sfrenate, la violenza, il tradimento: e infatti nella Vendetta di Nauplio si è vista un'allusione al tradimento da parte del connestabile Carlo di Borbone (D. Panofsky - E. Panofsky, 1958). Altre volte i soggetti si ricollegano alla vicende che funestarono il regno di Francesco I. Si è detto della Morte di Adone che è da intendere come epicedio sulla triste fine del delfino secondo un meccanismo di amplificazione per rimando analogico e per connessione memoriale che trova spazio nelle minori scene aggiunte ai margini di quella principale e negli stucchi con incrementi di significato che ricordano la pratiche mnemotecniche (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 142) per cui, per esempio, il messaggio semantico della Lotta fra i Centauri e i Lapiti viene iterato dalle scene di furore e di follia che danno argomento agli stucchi sottostanti, e negli animali emblematici - l'asino che significa ostinazione, l'orso collera, il cinghiale pazzia - affrescati ai lati. Così lo stucco con la Carità romana funziona da chiosa ben congruente con l'affresco superiore dove sono raffigurati Cleobi e Bitone.
Questa realizzazione particolare di uno dei topoi più diffusi nel Cinquecento, quello dell'ut pictura poësis, non resta tuttavia semplicemente circoscritta all'analogia tematica. L'equivalenza degli affreschi di Fontainebleau con le Odi pindariche non si limita alla ripresa di soggetti favoriti dal poeta greco o da questo derivati (le tragiche vicende di Agamennone e di Aiace, il naufragio di Ulisse, in particolare l'educazione di Achille), ma si estende alla volontà di omologare a quella visione poetica anche la costruzione e la conduzione stilistica. Per le presentazioni di immagini di G. è stato giustamente proposto il confronto col "beau désordre" degli inni di Pindaro. Il lirismo di Pindaro, di perfetta, altissima ascendenza classica, e tuttavia "visuel et visionnaire" (Fumaroli, in Pontormo e Rosso, p. 107), anche sul piano della comunicazione, per l'iterata presenza di giustapposizioni secondo paratassi e asindeti generalizzati che vanificano ogni logica narrativa e ogni finalità argomentativa, costituisce un modello linguistico per lo stile di G. in Francia. Per lui, come per Pindaro, la definizione poetica, visiva o verbale, si struttura come edificio semantico e come catena di emblemi.
Lontano dall'Italia, e favorito da una situazione nella quale gli era facile cogliere l'apprezzamento e la stima, a contatto con un ambiente intellettuale raffinato e stimolante, G. riprese in esame, con più pacata considerazione, le fonti che avevano segnato in patria il corso dell'intera sua oeuvre, accostando spregiudicatamente riferimenti e derivazioni diverse. Avvertiva di essere implicato in un'esperienza del tutto nuova, di livello altissimo per quanto riguardava committenza e destinazione, e di un impegno inusitato, anche semplicemente dal punto di vista della vastità del lavoro. Che questa radicale differenza rispetto alle limitate, stentate e discusse occasioni di impiego nelle quali si era dovuto dibattere nel corso degli anni precedenti, fosse sentita e accolta come una sfida esaltante, appare da varie indicazioni. Innanzi tutto la facilità inventiva e la relativa rapidità di esecuzione (per la successione cronologica degli affreschi e degli stucchi si veda Carroll, pp. 224-226), che gli fecero superare quell'impaccio e smarrimento nell'accostarsi alla tecnica dell'affresco, di cui parla Vasari (V, p. 165) e che trova riscontro nell'incertezza delle opere romane e nell'esitazione che gli impedì di realizzare la decorazione parietale della Madonna delle Lacrime di Arezzo. Gratificante dovette essere anche l'occasione di poter controllare direttamente un'impresa nella quale concorrevano pittura, scultura e architettura, e cioè le tre possibilità tecniche per le quali G. aveva sempre mostrato uguale interesse, nel generale clima cinquecentesco di adesione al concetto delle "arti sorelle", che se da un lato si stava avviando verso la discussione accademica sulla "maggioranza delle arti" (Mugnaini, in Ciardi - Mugnaini, p. 140), dall'altro riaffermava l'ideale dell'artista completo, del quale era esempio sommo Michelangelo. I riferimenti a Buonarroti, già annotati per altre opere del periodo francese, sono avvertibili anche negli affreschi della grande galleria, ma il rapporto col Giudizio universale, allora in corso d'opera, e del quale potevano essere giunte descrizioni anche in Francia appare improbabile. Accertabili invece i rapporti col soffitto della Sistina (si veda, per esempio, Il sacrificio) e, in generale con la cultura figurativa romana dei primi tre decenni del Cinquecento, a cominciare dagli affreschi di Baldassarre Peruzzi alla Farnesina e in S. Maria della Pace, fino ai cicli profani di Perin del Vaga (Venere rimprovera Amore, la Perdita della perpetua giovinezza, L'ignoranza cacciata, la Morte di Adone). Ma sono soprattutto le variazioni su esemplari celebri di Raffaello e della sua scuola che informano buona parte della decorazione di Fontainebleau, anche con calchi precisi di particolari tratti dagli affreschi delle Stanze: quella della Segnatura, quella dell'incendio di Borgo (L'incendio di Catania, L'elefante reale, L'illuminazione di Francesco I) o - con accosto più generalizzato per l'intera intonazione - quella di Eliodoro (La vendetta di Nauplio). L'alternanza dei ritmi narrativi, di cui si è detto, che obbedisce ad accordi interni e rifiuta la ripetitività delle clausole armoniche prevedibili, trova corrispondenza nel ricorso a fonti figurative diverse: le scene mosse e concitate fanno riferimento ai prototipi cinquecenteschi indicati; altre composte in strutture organiche e pacate per l'inserimento entro reticoli definiti da elementari illusioni architettoniche, ripropongono quelle simpatie arcaizzanti care a G. fin dai suoi esordi: Masaccio (L'unità dello Stato); Donatello (L'educazione di Achille); la pittura di ambito pollaiolesco e filippinesco (la Battaglia dei Lapiti e dei Centauri). Si aggiungono gli episodi di autocitazionismo, che si rintracciano soprattutto nella decorazione a stucco dove G. sfrutta invenzioni già impiegate nelle stampe con Gli amori degli dei e con Gli dei nelle nicchie.
La grande galleria di Fontainebleau, frutto di una concezione unitaria che è riuscita a organizzare entro un unico progetto ideativo l'invenzione tematica e la realizzazione - nei termini di una coerente resa stilistica ed espressiva - degli affreschi, delle integrazioni e chiose narrative plastiche, dei partiti decorativi in stucco, di arredi in massima parte perduti - Vasari (V, p. 171) parla di "intagliatori […] maestri di legname […] infiniti, di quali si servì il Rosso" - si segnala come l'opera forse più famosa di G., certo quella che ebbe l'impatto maggiore sullo sviluppo della cultura artistica europea del Cinque-Seicento. La formula architettonico-figurativa impiegata è in pratica priva di precedenti, soprattutto sul versante profano, nonostante le quasi concomitanti prove di Giulio Ro-mano a Mantova e di Perin del Vaga a Genova e a Roma, e si presentò come il modello per analoghe soluzioni ambientali che ebbero grande fortuna in Francia, in Italia, in Inghilterra (Sicca, in Pontormo e Rosso, pp. 147-156). Lo stuolo di collaboratori impiegati da G. e la presenza in loco di comprimari di alto rango come Cellini e Primaticcio, diede avvio a quella scuola pittorica, che da Fontainebleau prese il nome, alla quale si deve la ridefinizione del linguaggio figurativo del secondo Rinascimento.
Ma fu soprattutto l'entusiasmo per le modalità di rappresentazione impiegate, e segnatamente per i partiti ornamentali, di una novità e ricchezza inventiva eccezionali che mettevano fuori gioco l'impiego, ormai usurato, della grottesca, a fissare una nuova moda. Agli affreschi e agli stucchi della grande galleria si ispirarono stampe, arazzi, oggetti, persino abbigliamenti, che contribuirono a mutare il gusto corrente.
G. morì in Francia, a Parigi, o secondo altre fonti a Fontainebleau, il 14 nov. 1540, a quarantasei anni. Il racconto di Vasari che lo dice suicida per veleno in seguito alla vergogna di aver ingiustamente accusato un amico innocente, non ha fondamento, e si situa in quella costante inclinazione per gli aspetti leggendari, più e più volte riproposti nelle Vite, dove si colorano di tinte forti e di risvolti drammatici le vicende degli artisti, soprattutto di quelli che trascorsero i loro anni lontano dalla patria. Nel caso di G., che il biografo aretino aveva, da giovinetto, conosciuto personalmente e del quale in Toscana perdurava il ricordo di una produzione artistica discussa e peculiare per la presenza di immagini fiere e terribili, crudeli e disperate, bizzarre e capricciose (per riprendere le connotazioni impiegate da Vasari), poi di una vita errabonda e, infine, di un successo improvviso e imprevedibile, al quale la morte aveva posto fine troppo precocemente, l'evocazione romantica di una fine tragica sembrava l'unica conclusione possibile.
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