FAGIUOLI, Giovanni Battista
Nacque a Firenze il 24 giugno 1660, unico figlio di Antonio Maria - la cui famiglia, originaria di Signa, si era inurbata agli inizi del secolo ricavando una certa agiatezza dall'esercizio della mercatura - e di Maria Maddalena Libanori.
Non è provata, invece, la presunta nobiltà del casato da cui il F., non senza una punta di noncurante orgoglio, reputava discendere (si veda il capitolo XXXV, L'autore alla consorte, in Rime piacevoli, I, p. 251, e il capitolo XIX, In lode de' fagiuoli, III, p. 174, in cui fa riferimento all'arme gentilizia).
Certo le condizioni economiche non dovevano essere più molto floride se, in seguito alla morte del padre, avvenuta il 12 genn. 1672, fu costretto ad abbandonare gli studi iniziati presso i gesuiti per contribuire al bilancio domestico. L'interruzione degli studi viene registrata con amarezza dal F. nei Ricordi, conservati alla Biblioteca Riccardiana di Firenze (ms. 2695). Appena quattordicenne, si impiegò quindi come copista, dapprima nello studio di Francesco Maria Poggiali, poi in quello di Flavio Guglielmi; nel 1678 ebbe un incarico più remunerativo presso la curia arcivescovile, ma anche da questo impiego, a causa della scarsa disciplina, fu presto rimosso. Alla base dei continui cambiamenti c'era senza dubbio l'irrequietezza del suo carattere, ma specialmente l'insoddisfazione verso mansioni che era costretto ad esercitare per necessità. Fu in questo periodo che per sfuggire la noia si avvicinò al teatro, non solo in qualità di spettatore, ma come ci narra egli stesso (ibid.), debuttando come attore in una piccola parte - quella di un paggio - nella commedia di Pier Susini, La cortesia fra rivali, che venne rappresentata nel febbraio del 1675 al teatro dell'Accademia degli Imperfetti in corso de' Tintori. A questa seguirono altre recite in diverse commedie che, com'era consuetudine a Firenze, venivano rappresentate per lo più nei teatri accademici, oppure in case di privati. L'incontro con il teatro doveva essere per il F. non solo l'occasione di salutari evasioni, ma anche il più prezioso osservatorio per la sua futura arte.
Nell'ottobre del 1680 pensò di trasferirsi a Livorno in cerca di fortuna; qui, tuttavia, sfumate le speranze iniziali, rimase solo cinque mesi, il tempo di essere richiamato a Firenze ad occupare un nuovo impiego all'archivio arcivescovile, incarico che questa volta conservò ininterrottamente per un decennio. Nel frattempo il F., che non si era rassegnato all'umile lavoro di "sostituto" (qualifica ricoperta all'archivio), si dedicò allo studio delle lettere sperando di poter raggiungere una posizione più congeniale, oltre che più comoda.
In quegli anni infatti cominciarono a circolare i suoi primi componimenti poetici: si tratta per lo più di sonetti di argomento vario che spaziano dai temi sacri a quelli amorosi, fino ad affrontare contenuti più spiccatamente faceti; si colloca in questa fase anche un insieme omogeneo di rime encomiastiche composte in occasione della guerra del re Cattolico contro i Turchi (si vedano i sonetti XVI-XXIII in Rome piacevoli, VI, pp. 177-181), impostate su un registro eloquente che in seguito il F. non continuerà, dimostrandosi fin d'allora più a proprio agio su temi meno impegnativi, come ad esempio nel componimento L'amante di bella ciambellaia (ibid., V, p. 219), dal quale traspare inequivocabilmente quella vena burlesca e discorsiva che caratterizzerà la sua futura produzione di capitoli. A questo periodo appartengono anche alcuni prologhi, due farse e due intermezzi, nei quali il F. riversa il suo interesse per il teatro dando un primo originale contributo nell'intermezzo La serva scaltrita sa farsi padrona, che propone il personaggio reso poi celebre da Iacopo Nelli e specialmente da Carlo Goldoni. Tutte queste prove, anche se rivelano inevitabili impacci, contribuirono a dargli notorietà presso i letterati del tempo, in particolare presso i maggiori esponenti della cultura arcadica e scientifica fiorentina, come F. Salvini, A. M. Redi e A. Magliabechi.
L'occasione di migliorare le condizioni economiche e di evadere dalle ristrettezze dell'impiego si presentò il 23 apr. 1690, quando il F. seguì in Polonia, come segretario, il nunzio pontificio monsignor Andrea Santacroce. Tuttavia, dopo gli entusiasmi iniziali legati specialmente ai contatti con le corti di Vienna e di Praga, le cui descrizioni molto vive si leggono nelle memorie (ms. 2695 della Riccardiana), la permanenza in Polonia si rivelò molto deludente, sia per l'impiego svolto, sia per l'ingratitudine del clima e per i disagi di una vita molto diversa dalle aspettative (si vedano i capitoli XIV, A Francesco Redi in risposta ad una sua ricevuta, e XXIV, Ad Antonio Magliabechi, in Rime piacevoli, III, pp. 123-131, 222-227); a questo c'è da aggiungere il richiamo insistente degli amici letterati fiorentini, che lo esortavano a ritornare con lusinghiere proposte di lavoro presso la corte medicea. Dopo circa un anno quindi, il 16 luglio 1691, il F. era di ritorno a Firenze. È a questo punto che si situa il suo complesso rapporto con i Medici, che doveva tuttavia rimanere irrisolto almeno in questa fase. Solo qualche anno dopo, quando nel frattempo la sua notorietà era ormai consolidata, attirò l'attenzione del cardinale Francesco Maria, fratello di Cosimo III, che ne apprezzava le doti di uomo di teatro e grazie al suo appoggio ottenne anche un posto stabile alla curia arcivescovile.
Molto spesso accompagnava il cardinale nei suoi frequenti spostamenti e specialmente in villeggiatura a Poggio a Caiano e a Lappeggi, con il compito di allietarlo con la sua abilità nell'improvvisare e nell'organizzare spettacoli. Fu prevalentemente la ricerca di passatempi la ragione per la quale il F. venne prescelto come segretario particolare del cardinale nel viaggio a Roma del 1700, in occasione del conclave seguito alla morte di Innocenzo XII. Per il poeta, che nel frattempo (il 19 dic. 1698) si era sposato con Maria Maddalena Bagnoli, figlia di primo letto di Angela Cerrini, camerista della principessa Violante di Wittelsbach, fu un avvenimento che doveva lasciare una traccia profonda nella sua esperienza. A Roma venne in contatto con un ambiente culturalmente più aperto ed elevato di quello fiorentino, condizionato dal clima di rigorismo religioso imposto dalla corte medicea; qui ebbe l'opportunità di conoscere alcuni esponenti dell'Accademia dell'Arcadia - tra cui G. M. Crescimbeni, che in seguito lo accolse tra gli Arcadi con il nome di Sargonte - e di frequentare figure di spicco dell'intellettualità romana, come il cardinale Pietro Ottoboni e la principessa di Forano Maria Teresa Strozzi, la cui amicizia conservò fino alla morte. Del soggiorno romano è larga eco nei capitoli XIX, XXVII, XXVIII del I volume delle Rime piacevoli e nel VII del volume II.
Rientrato a Firenze dopo l'elezione di Clemente XI, il F. tornò al suo impiego alla curia, anche se sempre più considerandola un'occupazione secondaria, rispetto all'impegno letterario che nel primo decennio del sec. XVIII coincide con la stesura e la rappresentazione delle sue migliori commedie.
Fino ad allora la produzione del F. era stata concentrata nella composizione di capitoli che sembrarono rappresentare il genere metrico privilegiato a cui affidare la sua prolifica vena discorsiva stimolata dall'osservazione critica della realtà; in questo senso il collegamento con la tradizione bernesca, sia pure nella sua forma meno incisiva e provocatoria, consentiva all'autore di realizzare quel tono medio, a metà tra il burlesco e il colloquiale, in cui riprodurre le caratteristiche del "parlato" che rappresenta il tratto più significativo della sua opera non solo poetica. Dedicati ad un interlocutore reale - rappresentato per lo più da un esponente della corte medicea (come lo stesso Cosimo III, il cardinale Francesco Maria, Giangastone) oppure da un membro dell'aristocrazia fiorentina (come i marchesi Riccardi), o ancora da un letterato (tra i più citati il Redi, il Magliabechi, il Magalotti e il Salvini), a cui il F. si rivolge in qualità di diretto testimone - i componimenti sono originati o da una circostanza autobiografica, come i capitoli inviati agli amici dai viaggi in Polonia e a Roma ed altre missioni a Milano e Venezia svolte al seguito del cardinale, oppure da un avvenimento di vita quotidiana, in cui l'autore riversa la sua facile ironia svolgendo, come ha osservato il Binni, "all'infinito piccoli nuclei comici e leggermente satirici ... che si risolvono in trovate piacevoli ma senza forza ... rivelando soprattutto un compiacimento nei facili contrasti e nel gioco equivoco delle parole e dei modi di dire" (pp. 209 s.). Questi versi procureranno tuttavia al F. l'implacabile giudizio di G. Baretti di "principe dei seccatori" (La Frusta letteraria, 15 febbr. 1764).
Al teatro il F. si era avvicinato in età giovanile, dapprima come semplice attore nelle commedie altrui, poi come ideatore e organizzatore di spettacoli, infine come autore; inizialmente il suo sforzo era limitato a brevi composizioni, rappresentate da scherzi scenici, farse, prologhi e intermezzi, ma è a partire dalla metà del primo decennio del Settecento che egli verrà interamente assorbito dall'attività teatrale vera e propria. Tra i titoli più significativi della sua carriera, che non conobbe un solo insuccesso, ricordiamo la commedia con cui fece il suo esordio di autore al teatro degli Acerbi nel 1706: Gli inganni lodevoli, seguita l'anno successivo dall'Avaro punito, che presenta la figura più ricorrente nelle sue commedie, e Quel che appare non è, ovvero Il cicisbeo sconsolato, che è considerato il suo capolavoro e che, dalla data della sua prima rappresentazione (1708), ebbe innumerevoli repliche: tredici, come ci informa il F., in quello stesso anno, e diciassette quando la commedia fu ripresa nel 1725; inoltre il Cicisbeo, a differenza di altri testi del F. che incontrarono reali difficoltà al di fuori della Toscana a causa delle barriere linguistiche, fu rappresentato dovunque e il suo successo fu sempre incondizionato (Casale Monferrato, Roma, Cremona, Bologna, Napoli, Venezia e Vienna). La maggiore rappresentabilità del Cicisbeo sconsolato fu però anche il suo limite: come osserverà il Goldoni, il testo era "stato adattato dai comici ma sfigurato e ridotto alla foggia dei loro pasticci" (p. 716).
Dalle commedie del F. viene la prima consapevole risposta al programma di riforma teatrale propugnato dall'Arcadia, lo stesso che in quegli anni andavano attuando, anche se autonomamente, i senesi Girolamo Gigli e Iacopo Nelli, ai quali il F. è tradizionalmente accomunato nella denominazione collettiva, risalente al Goldoni, di "pulitissima scuola fiorentina". Tale programma, come è noto dagli studi sull'argomento, era fondato sulla necessità di reagire alle formule ormai svuotate della commedia dell'arte e al tempo stesso alla macchinosità delle messe in scena secentesche nel tentativo di ridare al teatro quella funzione educativa che prendeva impulso anche dalla lezione di Molière. Per quanto riguarda gli aspetti tecnici la riforma prevedeva, tra le altre cose, l'abolizione delle maschere e la semplificazione dell'azione. Ora, se si può essere d'accordo con quanto affermò il Sanesi, che non tutti i testi teatrali del F. riescono a soddisfare questi obiettivi - non mancando infatti commedie piene di contrattempi e di equivoci come Gli amanti senza vedersi (del 1734), oppure con un intreccio complicato, come Il marito alla moda (del 1735) ed altre che denunciano nei ruoli assegnati ai personaggi una stretta parentela con le maschere della commedia dell'arte - tuttavia, nella maggior parte dei casi, le azioni sceniche sono rapide e svelte; inoltre si avverte lo sforzo dell'autore di aprire il suo teatro alle problematiche contemporanee e alle trasformazioni sociali sottraendolo ai clichés della tradizione.
Due sono i filoni più rappresentativi del teatro del F.: quello "rusticale" e quello "cittadino", accomunati dal medesimo intento didattico-morale. Inizialmente le commedie rusticali, di ambientazione contadina o paesana, prese nel loro insieme, sono state giudicate come la parte più autentica di questa produzione: la critica ha ritenuto "veri" i contadini che agiscono nelle commedie del F., rappresentati da quel Ciapo che è il personaggio centrale, intorno al quale ruotano tante situazioni ispirate al mondo della campagna. Questa interpretazione, già rivista dal Binni a partire dagli anni Sessanta, è stata di recente riesaminata da Roberta Turchi nei suoi studi sul teatro settecentesco che sottolineano, pur senza negarne l'attinenza con la realtà, la matrice letteraria della satira contro il villano. Quanto al filone "cittadino", considerato più ambizioso e difficile e dove si fa sentire più direttamente l'influsso della commedia molièriana (ma in misura inferiore a quanto indicato dal Toldo, pp. 285-302), il F. prende di mira in maniera più decisa alcuni aspetti tipici della società settecentesca, tra i quali il cicisbeismo affrontato nelle commedie più tarde come L'aver cura di donne è pazzia (1734) e Il marito alla moda (1735).
Sul teatro del F., rispetto a quello dei contemporanei Gigli e Nelli, pesa il giudizio limitativo di essere troppo legato all'ambiente di corte e proprio per questo incapace di quella carica antistituzionale che lo avrebbe reso più incisivo e credibile; da più parti si è invece osservato che la sua satira resta in superficie non solo per prudenza di cortigiano, ma perché manca all'autore un'idea morale definita e il suo interesse si ferma all'osservazione ironica della realtà, incline al compromesso e al riso. Va osservato che quella che è stata giudicata un'eccessiva disinvoltura nell'adattare la sua produzione a seconda delle circostanze non è altro che un sintomo - di cui l'autore era ben consapevole - della crisi che il teatro toscano stava attraversando nel passaggio da privato (all'interno delle accademie e delle corti) a pubblico. Nell'impossibilità di far ridere gli spettatori facendo ricorso a situazioni piccanti che potevano incontrare il veto della censura, tanto il F. quanto gli altri due commediografi creavano la comicità attraverso le risorse della lingua, con l'obiettivo di riprodurre gli effetti del parlato delle diverse classi sociali. In questo senso il F. si rivela uno straordinario manipolatore del lessico toscano, e più precisamente fiorentino, facendo ricorso a deformazioni, onomatopee, proverbi, giochi di parole, nei quali è riconoscibile l'ininterrotto legame con la tradizione giocosa e burlesca (Altieri Biagi). Alla consulenza linguistica del F. ricorrerà lo stesso Gigli per il suo Ser Lapo nella Moglie giudice a parte (si veda la lettera del 7 marzo 1716, cod. Ric. 3426, pubbl. in Bencini, p. 62).
Nel 1711 la morte del cardinale Francesco Maria venne ad interrompere una protezione che, anche se non fu sempre costante, costituì per l'attività del F. un punto di riferimento essenziale; tuttavia il successo con cui ormai il pubblico accoglieva le sue commedie contribuiva ad accreditare largamente la sua fama anche al di fuori dell'ambiente di corte. A Firenze era membro delle principali accademie: l'Accademia degli Apatisti fu quella che egli frequentò maggiormente fin dalla giovinezza e che lo ebbe reggente per sette anni consecutivi; ma altre accademie, al di fuori della Toscana, lo avevano come socio corrispondente. Accanto ai successi letterari venivano di pari passo i riconoscimenti pubblici presso i Medici; da Giangastone, succeduto a Cosimo III nel 1723, ottenne di essere ammesso fra gli Otto di balia, e successivamente fece parte del Magistrato dei nove: uffici che mantenne, data la sua longevità, anche presso i Lorena.
Negli anni che vanno da 1729 al 1737 il F. fu impegnato a pubblicare la sua vasta produzione letteraria e teatrale per difendersi da edizioni abusive che diffondevano testi scorretti e che comunque non erano state autorizzate dall'autore, come ad esempio, la Fagiuolaja ovvero Rime facete del sig. dott. Giovan Battista Fagiuoli avvocato fiorentino, III, Amsterdam [in realtà Firenze] 1730-40.
La prima edizione autorizzata delle sue poesie è quella uscita a Firenze presso gli editori Michele Nestenus e Francesco Moücke tra il 1729 e il 1734, intitolata Rime piacevoli. L'edizione comprende sei volumi, di cui i primi quattro interamente dedicati ai capitoli (circa 160) e i rimanenti a composizioni di vario genere - per lo più sonetti, prologhi e farse - di età giovanile; il sesto volume è completato dalla Chiave e note di Anton Maria Biscioni. Nel 1733 uscì anche una seconda edizione delle Rime piacevoli a Lucca (a cura di S. e G. Marescandoli). Il F. si servì della tipografia di Francesco Moücke per stampare, tra il 1734 e il 1736, anche le sue Commedie in sette tomi: la produzione teatrale comprende diciassette commedie, due scherzi scenici, più quattro drammi musicali, ricavati da altrettante commedie in prosa (anche delle Commedie uscì una seconda edizione nel 1734 a Lucca presso Marescandoli). Da ultimo raccolse in un volumetto di Prose, che uscì nel 1737 (Firenze, Moücke), cicalate, dubbi, problemi, frutto della sua attività di accademico (ad es. tra i temi trattati di argomento futile, Se l'uso della parrucca abbia contribuito all'uomo gravità o effeminatezza e Perché l'uomo si vergogna d'esser povero e non d'esser superbo).
Dal matrimonio con Maria Maddalena Bagnoli erano nati dieci figli, ma di essi sopravvissero solo quattro femmine, che si consacrarono alla vita monastica, per cui alla morte del F., sopraggiunta a Firenze in avanzatissima età il 12 luglio 1742, la famiglia si estinse. Il poeta ebbe sepoltura onorata in S. Lorenzo.
Qualche anno dopo la morte del F., nel 1745, uscì un nuovo volume contenente quarantatré capitoli, a cura di Giuseppe Maria Brocchi, che era stato espressamente incaricato dall'autore di leggere i componimenti rimasti inediti al fine di pubblicarne i migliori. Il volume, considerato il settimo delle Rime piacevoli, fu pubblicato a Lucca da Salvator Maria Venturini con l'orazione funebre per il P. di Pietro Giulianelli. Nel 1752, a Firenze, apparve un ulteriore volume del F. con due commedie: Gli sponsali in maschera, ovvero La poesia, la pittura in gara per Amore e Quanto più si va in là peggio si fa, ovvero s'invecchia e s'impazza. Il volume, assai raro, è l'ottavo e ultimo delle Commedie; a parte la pregevole ristampa dei primi sette tomi delle opere teatrali, a cura di Angelo Geremia, del 1753 e delle due edizioni meno attendibili delle Rime piacevoli (Bologna 1823; Colle di Val d'Elsa 1827), bisognerà attendere la fine del sec. XIX, con il nuovo interesse critico e biografico per il F. del Bencini e del Baccini - autori di studi che, se pure invecchiati, hanno il merito di aver liberato la figura dell'autore dalle deformazioni dovute alla postuma leggenda popolare che ne aveva fatto una sorta di "buffone di corte" (Causa) - per vedere pubblicati altri inediti: Le nozze del diavolo, novella in terza rima, Firenze 1885 (preceduta da una avvertenza del Baccini), e due scherzi scenici: Biagio da' Fichi e La serva bacchettona, sempre a cura del Baccini e sempre a Firenze (1887). Le memorie del F., insieme con quasi tutti i suoi scritti autografi, sono conservate presso la Biblioteca Riccardiana di Firenze: i Ricordi (1672-1705) sono compresi nei codici cartacei 2695, 2696, 2697; il Diario (1703-1742) è nel 3457, costituito da ventisette fascicoli.
Fonti e Bibl.: G.M. Crescimbeni, L'istoria della volgare poesia, Venezia 1731, p. 350; C. Goldoni, Prefazioni ai Diciassette tomi delle commedie edite in Venezia dal Pasquali (1761-1779), in Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano 1959, I, pp. 631, 643 s., 716; G. Baretti, La Frusta letteraria, X (15 febbr. 1764), in Opere scelte, a cura di B. Maier, I, Torino 1972, p. 286; B. Palagi, La villa di Lappeggi e il poeta G. B. F., Firenze 1876; C. Causa, Il poeta F. Motti, facezie e burle del celebre buffone di corte, Firenze 1879; M. Bencini, Il vero G. B. F. e il teatro in Toscana a' suoi tempi, Firenze 1884; G. Baccini, G. B. F. Poeta faceto fiorentino. Notizie e aneddoti raccolti su nuovi documenti, Firenze 1886; P. Toldo, L'oeuvre de Molière et sa fortune en Italie, Torino 1910, pp. 285-302; E. Del Cerro, Un commediografo dimenticato, in Rivista d'Italia, XIV (1911), pp. 205-241; I. Sanesi, La commedia, in Storia dei generi letterari, Milano 1935, pp. 247-261; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, III, Firenze 1956, pp. 341-344; B. Brunelli, F. G. B., in Enciclopedia dello spettacolo, IV, Roma 1957, coll. 1785 ss.; G. Ortolani, La riforma del teatro nel Settecento e altri scritti, a cura di G. Domenici, con bibl. a cura di N. Mangini, Venezia-Roma 1962, p. 24; W. Binni, F. e Nelli, in L'Arcadia e il Metastasio, Firenze 1963, pp. 207-243; F. Zampieri, Il teatro comico del Settecento, in C. Goldoni, Opere, XLII, Milano-Napoli 1964, pp. 1001-1004; M. L. Altieri Biagi, La "riforma" del teatro e una "pulitissima" scuola toscana, in La lingua in scena, Bologna 1980, pp. 58-161; R. Turchi, Iriboboli del F., in La commedia italiana del Settecento, Firenze 1985, pp. 7-19; Il teatro italiano, IV, 2, La commedia del Settecento, a cura di R. Turchi, Torino 1988, pp. 11 ss.; G. Nicoletti, Firenze e il Granducato di Toscana, in Letteratura italiana (Einaudi). Storia e geografia, II, 2, Torino 1988, pp. 776 ss.