FAZIO (Facio), Giovanni Battista
Vissuto a Genova tra la seconda metà del XV e il primo decennio del XVI secolo, la sua presenza nella vita politica della città è documentata solo in due momenti, che sono però collegati alle circostanze più movimentate dei periodo tra fine e inizio secolo, quando Genova passò dalla signoria di Milano a quella del re di Francia, e quindi all'esperienza del governo popolare di Paolo da Novi per tornare poi sotto la Francia.
La famiglia dei Fazio non aveva antiche origini, e solo nel 1385 un Clemente di parte popolare si era distinto come capitano di dieci galee; ma già Bartolomeo, morto nel 1457, aveva acquistato fama come storico e letterato ed era stato assunto come segretario di Alfonso d'Aragona. In questa seconda metà del sec. XV le carriere preferibilmente seguite dai peraltro poco numerosi Fazio sembrano essere quelle del medico e del notaio; il primo ad adire le cariche politico-amministrative è Pietro, nominato tra i Dodici anziani nel 1471 e nel 1491.
Il fatto perciò che il F., il 20 sett. 1499, fosse eletto a far parte della grande ambasceria inviata a Milano per giurare fedeltà al re di Francia e ottenere da lui la conferma dei privilegi di cui Genova aveva goduto sotto gli Sforza testimonia di un raggiunto prestigio personale e familiare. D'altra parte era un periodo convulso ma dinamico, in cui si aprivano ancora spazi politici, se pur spesso brevi e insidiosi, all'iniziativa di singoli cittadini o di gruppi familiari, anche di modesta origine. Tanto è vero che della solenne ambasceria al re non facevano parte solo gli esponenti delle grandi famiglie, ma giuristi e notai e cittadini di tutti gli ordini in rappresentanza dei popolari e degli artigiani, tra i quali ultimi il Fazio. L'ambasceria al re, composta di ventiquattro ambasciatori e due giuristi, Giovanni De Marini e Nicolò di Oderico, comprendeva, tra gli altri, Giovan Ambrogio Fieschi, Anfreone Usodimare, Gerolamo Doria, Nicolò Brignole, Cristoforo Cattaneo, Giovan Ambrogio di Negrone, Stefano Cicala, Lazzaro Fattinanti, e disponeva dell'annalista Bartolomeo Senarega e di Antonio Gallo come segretari. Le ampie e minutissime istruzioni (pubblicate da L. T. Belgrano, Della dedizione dei Genovesi a Luigi XII, re di Francia..., in Miscell. di storia ital., I [1862], pp. 557-659) furono consegnate agli ambasciatori il 23 settembre. Quattro giorni dopo, il F. e i compagni erano a Pavia, dove attesero il 5 ottobre per recarsi a Milano, a presenziare il giorno seguente al trionfale ingresso del re. Trascorsero dieci giorni prima che. dopo molte difficoltà, potessero sottoscrivere la dedizione.
Durante la cerimonia ufficiale del 16 ottobre il De Marini consegnò lo scettro, l'Oderico il vessillo, C. Cattaneo le chiavi, N. Brignole il sigillo. Non risulta che il F. abbia svolto alcun ruolo specifico, tranne appunto quello di rappresentante del suo ordine.
Di questa classe degli artifices, termine non del tutto propriamente tradotto in quello di artigiani (ne facevano parte, oltre a piccoli e medi imprenditori, anche i borghesi colti e praticanti professioni come quella del medico, del farmacista, del notaio), il F. era divenuto un autorevole rappresentante qualche tempo prima. Infatti, il 7 genn. 1499, nell'elenco dei personaggi "più distinti, tanto nobili quanto plebei" che, divisi in albi e nigri e nelle sei categorie di medii nobiles, medii populares, medii artifices, tertii nobiles, tertii populares e tertii artifices, avevano il compito di riformare la costituzione, il F. faceva parte degli otto artifices albi (insieme con Leonardo Calissano, Raffaele di Recco, Pelegro di Villa, Nicolò di Amigdala, Giacomo Pernixe, Giovanni Bazzurro e Pantaleo Navone).
Per capire quale poteva essere la reale collocazione socio-politica del F., è necessario tener presente come nell'ultimo secolo la cosiddetta fazione popolare fosse venuta acquistando maggiore peso nella società genovese e come, al suo interno, si fosse venuta consolidando l'antica distinzione tra populares, mercanti, e artifices, artigiani. Del primo gruppo facevano parte le maggiori famiglie "popolari" (Adorno, De Franchi, De Fornari, Giustiniani), mentre nell'altro confluivano sempre più numerosi, accanto a lanieri, scatieri e simili, speziali, medici, notai. Se durante il sec. XV le cariche erano state divise, secondo l'uso tradizionale, tra nobiltà e "popolo", quest'ultimo, considerato appunto il peso sociale acquisito e le differenziazioni sempre più nette all'interno del processo di professionalizzazione dei ruoli, tra fine e inizio secolo cominciò a rivendicare una divisione delle cariche non più fra due (nobiltà e popolo) ma fra tre componenti: nobiltà, mercanti e artigiani.
L'opposizione della nobiltà a questo progetto era scontata; ma anche tra i popolari della parte mercantile esistevano altrettante comprensibili perplessità e resistenze, mentre ovviamente la parte più determinata alla riforma istituzionale era quella "artigiana". All'interno di questa erano poi altre possibili distinzioni tra gli artigiani popolari, dotati di mezzi di produzione, di capitali e di già acquisita rappresentanza politica, e quelli plebei, semplici prestatori d'opera, che pure talora, all'interno del sistema corporativo, avevano assunto anche qualche ruolo politico. D'altra parte, quando i cronisti dell'epoca parlano di "popolo grasso" alludono in genere al gruppo sociale che, trasversale alle divisioni d'origine, comprendeva i "mercanti" e i più ricchi e autorevoli tra gli "artigiani". Sarà proprio dalle ambiguità che gli incerti profili dei partiti proponevano alle tensioni e rivendicazioni di quest'epoca che nascerà l'esperienza della cosiddetta "rivolta delle cappette", del dogato "popolare" di Paolo da Novi e del suo fallimento tra il luglio 1506 e il maggio 1507.
È significativo che il F. non compaia durante gli eventi che prepararono e videro consumarsi drammaticamente l'esperienza di alleanza popolarplebea, e nei quali invece furono protagonisti i suoi cugini Gerolamo e Leonardo, anche loro per la fazione degli artigiani (in particolare, Gerolamo, dopo aver fatto parte dei Dodici pacificatori nel luglio 1506, fu poi tra i cittadini banditi da Genova il 14 maggio 1507 ed esclusi dal successivo indulto). Il F. compare, invece, nel restaurato governo postrivoluzionario tra gli otto ufficiali di moneta che, l'11 maggio 1507, firmarono in S. Giorgio con gli otto ufficiali del banco e con le altre due più alte magistrature dello Stato (i Dodici anziani e i Dodici di balia) il solenne giuramento al re di Francia, alla sua presenza. Due giorni dopo il F. con i componenti delle stesse magistrature, escluso S. Giorgio, avallava per iscritto al rappresentante del re la promessa di sborsare la somma prestabilita per la costruzione del nuovo castello di Capo di Faro, la guarnigione e le galee imposte da Luigi XII.
Il F. dunque (forse banchiere, forse finanziere, quasi certamente fornito di specifica competenza in materia economica e comunque ancora tra gli Ufficiali di moneta nel 1511), a differenza di altri componenti della sua famiglia, era di quegli "artigiani" che, fuori dalle rivoluzioni e dai processi collettivi di riforma, si ritagliarono individualmente gli spazi di promozione sociale e politica, nel rispetto dei privilegi del gruppo dominante. Del resto, il F. era certamente già morto da tempo nel 1528 e non poté vedere la riforma doriana che in quell'anno avrebbe ascritto alla nobiltà nell'"albergo" Lomellini sei membri della sua famiglia: Filippo, Giovan Agostino, Leonardo, Pantaleo, un Antonio notaio e un Agostino figlio di un defunto notaio Benedetto.
La famiglia Fazio, faticosamente emersa negli anni della ipotesi di alleanza popolarplebea di inizio Cinquecento, era destinata ad estinguersi alla fine del secolo, dopo aver avuto il suo ultimo esponente, il medico Silvestro, così coraggioso da denunciare in un'orazione ducale (quella per il doge Prospero Fattinanti, nel 1575, alla vigilia dell'accordo di Casale) le ambiguità e i tradimenti della stessa fascia sociopolitica cui il F. ambiva appartenere.
Bibl.: Genova, Civ. Bibl. Berio, ms. X, 2, 168: L. Della Cella, Famiglie di Genova, 1780, cc. 134 s.; Rer. Ital. Script., 2 ediz., XXIV, 8, p. 76; L.-G. Pelissier, Documents pour l'histoire de l'établissement de la domination française à Gênes, in Atti della Soc. ligure di storia patria, XXIV (1891), doc. XVIII e pp. 363, 460; E. Pandiani, Un anno di storia genovese, ibid., XXXVII (1905), pp. 531-534.