FEDELI, Giovanni Battista (in religione Barnaba da Milano)
Nacque a Milano il 14 maggio 1663 da Giulio e da una Camilla di cui non si conosce il casato.
Il padre era commissario generale dei trasporti nel Ducato di Milano e apparteneva a una famiglia di orafi in piena ascesa sociale. L'affermazione familiare fu raggiunta grazie a Giuseppe, fratello maggiore dei F., che nel 1717 fu insignito del titolo comitale, dopo aver rivestito le cariche di questore e segretario di Stato durante il governatorato di Eugenio di Savoia. Un terzo fratello, Carlo Francesco, fece carriera nella magistratura milanese.
Il F. fu battezzato il 21 maggio 1663 nella chiesa milanese di S. Alessandro in Zebedia. Nulla sappiamo della sua infanzia e gioventù, ma d'altra parte numerosi periodi della sua vita restano oscuri. Nel 1686 fu mandato alla Sapienza di Roma, dalla quale uscì il 9 ag. 1688 con il titolo di dottore utriusque iuris. È ignoto cosa abbia fatto nel periodo successivo, alla fine degli studi, e dove abbia vissuto. Un testimone, interrogato in occasione del processo per la nomina a vescovo del F., affermò - ma si era ormai quasi trent'anni dopo - che questi sarebbe rimasto a Roma, dove avrebbe redatto "atti pubblici".
Nell'agosto 1692 il F. fu consacrato sacerdote da Bartolomeo Capra, vescovo di Bobbio. La cerimonia ebbe luogo nella chiesa di S. Desiderio di Pantanedo nei pressi di Rho. Si potrebbe quindi supporre l'intenzione di tornare a Milano. Tuttavia negli anni immediatamente successivi si perdono di nuovo le sue tracce. Secondo una tradizione posteriore, in quel periodo gli sarebbe stata offerta la diocesi di Assisi, ma egli avrebbe declinato l'incarico; l'episodio non è però confermato da alcun documento.
Il 10 giugno 1699 entrò nel convento romano dei domenicani di S. Sabina, dove ricevette gli ordini esattamente un anno dopo e prese il nome di Barnaba da Milano. Nel luglio 1703 i suoi superiori proposero alla congregazione di Propaganda Fide di inviarlo a Isfahān, capitale della Persia, per sostituire Corradino da Ardeno, morto in Armenia. Propaganda Fide accettò, ma la partenza fu procrastinata e infine rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo il F. aveva iniziato a studiare l'armeno ed era stato trasferito a Ferrara. Da una testimonianza posteriore sappiamo che, oltre a predicare, fu anche confessore delle monache del monastero di S. Rocco. Alla fine del 1706 si trovava ancora a Ferrara nel convento di S. Domenico. L'anno successivo rientrò a Roma e divenne priore di S. Sabina.
Non aveva tuttavia rinunziato all'idea di partire missonario e nel 1709 chiese a Propaganda Fide di essere inviato nella Grande Armenia. Nello stesso anno fu proposto dai suoi superiori quale successore di Stefanos Suranis, vescovo di Naxiwan, appena deceduto. Propaganda Fide decise invece di inviarlo come vicario apostolico a Isfahàn. Nel sobborgo di Giulfa viveva infatti una fiorente comunità armena, che aveva bisogno di essere seguita da un sacerdote che ne conoscesse la lingua.
L'invio del F. rischiava di non piacere alla Francia. Louis Marie Pidou d'Olon, vescovo di Babilonia, l'attuale Bagdad, svolgeva allora anche le funzioni di console francese e voleva riunire la sua diocesi e quella d'Isfahán per favorire la penetrazione nel regno persiano della Compagnie royale des Indes orientales. Conoscendo per sommi capi la situazione, il F. espresse qualche perplessità sulla decisione di Propaganda Fide, ma infine accettò, purché la sua persona risultasse gradita ai notabili di Giulfa. Non volle comunque partire immediatamente, ma chiese di poter perfezionare la propria conoscenza dell'armeno.
Nell'aprile 1710 il F. lasciò infine Roma e si diresse verso Venezia, ma si fermò a Ferrara. dove si trovava ancora alla fine di giugno. Si dovette attendere agosto prima che salpasse da Venezia alla volta di Smirne.
Qui il F. sbarcò dopo trentacinque giorni di navigazione e scoprì di essere arrivato troppo tardi per aggregarsi alla carovana che si dirigeva verso l'Armenia Minore. Dopo averne atteso un'altra per alcuni mesi, partì alla volta di Tokat in Anatolia. Il 10 febbr. 17 11 scriveva a Propaganda Fide dai monti Aparaner, nella diocesi di Naxiwan. Dichiarava che il viaggio era stato "assai buono", ma che la sua carovana aveva dovuto versare 400 piastre ai funzionari turchi di Erzurum per proseguire il cammino.
Questa disavventura gli fece scoprire che nella regione si pretendevano interessi esorbitanti per il denaro dato in prestito. Date le ristrettezze nelle quali versava, si fermò alcuni mesi sui monti Aparaner, ma la sua attività fu più volte intralciata dai cappuccini francesi ivi insediati. Dovette infine rassegnarsi e proseguire verso la meta assegnatagli da Roma. Nel 1712 si unì a una carovana che si dirigeva a Isfahān, passando per Tabriz.
Nel frattempo il F. era stato nominato (bolla pontificia del 5 sett. 1711) amministratore apostolico della diocesi di Isfahān. Appena arrivato, comprese che il suo compito sarebbe stato assai difficile. Gli armeni scismatici avevano infatti ottenuto dallo scià Hussein che ai loro connazionali cattolici fosse proibito di frequentare le chiese dei missionari europei.
Dopo aver tentato di ottenere o di comprare la revoca dell'editto dello scià, il F. scrisse a Roma il 21 giugno 1713 e dichiarò che non vi erano speranze a meno di un intervento diretto di Cristo o della diplomazia francese. Il problema era a suo parere reso più grave dal comportamento degli armeni cattolici, che continuavano a intrecciare legami matrimoniali con le famiglie armene non appartenenti alla Chiesa cattolica. Il 24 nov. 1713 chiese quindi di poter promuovere un giubileo nella sua diocesi o addirittura in tutto il regno: con questo mezzo sperava di ridare animo e orgoglio ai suoi fedeli.
L'anno successivo parve evidente al F. che i Francesi non erano interessati a proteggere gli Armeni cattolici e si limitavano a far pervenire allo scià di Persia qualche lettera del loro ambasciatore a Costantinopoli. È difficile valutare la verità contenuta nelle accuse del F., perché egli era in rotta con i missionari francesi della diocesi: questi ultimi infatti non rispettavano, secondo lui, la sua autorità, tanto che aveva dovuto minacciare di chiudere la chiesa dei gesuiti di Giulfa per far riconoscere le proprie prerogative di amministratore diocesano.
Alla fine del 1714 il F. era molto amareggiato per l'andamento della diocesi di Isfahán. I cattolici armeni non avevano rinunciato ai matrimoni misti e ai rituali non riconosciuti da Roma. 1 missionari francesi si dedicavano ad attività diplomatiche estranee allo spirito religioso e corteggiavano i mercanti inglesi e olandesi per inviare proprie notizie in Occidente. Il F. naturalmente non ricorreva a questo sistema e aveva quindi difficoltà a mantenere i contatti con Roma. Per di più pretendeva di inviare le sue lettere soltanto via Ancona o Genova, perché, a suo dire, a Venezia e a Livorno la posta dei missionari veniva letta.
Il rancore che trapela dalle lettere del F. nasceva da un problema reale: la miseria della diocesi da lui amministrata e quella sua personale. Il 25 ott. 1714 avvertiva il cardinale Giuseppe Sacripanti, prefetto di Propaganda Fide, che il padre Alessio di Sciabonis, latore delle provvisioni per le missioni, era stato depredato dai Turchi. Di conseguenza il F. non aveva potuto saldare i debiti della diocesi e aveva dovuto contrarne di nuovi. Concludeva la sua lettera affermando: "Mi sono fatto religioso per vivere in povertà, ma temo d'essere divenuto Vicario Apostolico per morire in miseria" (Roma, Arch. di Propaganda Fide, SC Persia, III, f. 436). Nel 1715 ritornava sull'argomento e faceva sapere di non poter vivere con 1100 scudi che gli venivano dati ogni anno. Chiedeva quindi di essere richiamato in Italia, ma Propaganda Fide non sapeva a chi affidare la diocesi di Isfahān.
Per risolvere la situazione i cardinali della congregazione chiesero a Clemente XI, il 17 dic. 1715, che il F. fosse nominato vescovo e gli venisse quindi raddoppiato lo stipendio. Il 17 genn. 1716 il papa chiese che la questione fosse ristudiata. Propaganda Fide insisté e ottenne l'assenso pontificio (bolla dell'8 giugno 1716). Per rendere più rapide le pratiche il Sacripanti istituì di persona il processo della Dataria.
Le difficoltà di comunicazione tra Roma e Isfahān erano allora notevoli, anche per la guerra in corso tra Persia e Turchia. Il F. venne a sapere della sua nomina alla fine del 1718 e ricevette la bolla solamente il 29 gennaio dell'anno successivo. La decisione di Propaganda Fide non era di suo gradimento, ma era ormai troppo tardi per rifiutare. Il 16 aprile si mise in cammino per essere consacrato il 9 luglio a Abranar dal confratello Pietro Martire da Parma.
Appena elevato alla dignità vescovile il F. dovette fronteggiare due crisi. D.-M. Varlet, coadiutore con diritto alla successione del vescovo Pidou d'Olon. era stato accusato di giansenismo non appena partito da Parigi. Da Roma il F. fu avvertito che doveva bloccare con ogni mezzo il Varlet. Quest'ultimo in realtà non si recò mai nella sua diocesi, ma il F. tenne in piedi per due anni una rete di sorveglianza e tramite un intermediario, il carmelitano padre Faustino, prese possesso della residenza diocesana di Bagdad.
Questa prima crisi non fu particolarmente grave, ma sottopose il F. a forti pressioni da Roma e aumentò il suo risentimento contro i Francesi. La seconda crisi fu invece più seria. Le missioni cappuccine di Tiflis e Ganieh erano state distrutte dagli Armeni scismatici: dal 1719 al 1722 il F. cercò di ottenere l'assenso dello scià alla loro ricostruzione. Nel 1720 i suoi sforzi sembrarono destinati al successo, ma nel dicembre il primo ministro persiano, 'Itimad-ud-Dauleh, fu deposto e accecato. Il vescovo di Isfahān perse allora un alleato che aveva già subornato.
In questo periodo il F. scrisse più volte a Roma, tanto che a Propaganda Fide fu redatto un sommario delle sue lettere (Roma, Arch. di Propaganda Fide, SOGC, vol 634 [1722], ff. 335-341v). Da tale riassunto si vede come il F. chiedesse soprattutto nuovi fondi. Egli infatti spiegava il 29 nov. 1721 che in Persia tutto si otteneva pagando. Gli aiuti richiesti non gli furono concessi. Allora il F. domandò di potersi dimettere per ritirarsi a Roma nel convento di S. Sabina, ma Propaganda non prese in considerazione la sua richiesta.
Nel 1722 il F. scrisse di essere finalmente contento dei risultati raggiunti. Nel gennaio era stato infatti chiamato dallo scià per discutere di una lettera di Luigi XV. Hussein si era mostrato ben disposto e gli aveva donato un abito persiano finemente lavorato. Tuttavia il F. temeva che i rappresentanti della Francia facessero fallire le trattative per boicottare l'azione della Chiesa. Inoltre la situazione generale lo impensieriva: "Li affari di questo regno vanno sempre di male in peggio, perché molestato in molte parti da' nemici da' ribelli e da' traditori" (Ibid., SC Persia, vol . 3, f. 519).
I timori del F. erano destinati ad avverarsi. La Persia fu invasa dagli Afgani e proprio nel 1722 cadde Isfahān. Per alcuni anni il regno persiano rimase in mano all'invasore, mentre la Turchia tentava a sua volta di conquistarne una parte. Nel 1727 gli Afgani riuscirono a sconfiggere i Turchi, ma furono attaccati sul fianco dai Russi. Infine nel 1729 Tahmāsp Safawi sollevò i Persiani contro gli Afgani e riuscì a rientrare in Isfahān.
Le vicende belliche chiusero le trattative per le missioni cappuccine, ma interruppero anche i contatti tra il F. e Roma. Si dovette attendere il 2 luglio 1726 perché il Sacripanti potesse annunziare ai cardinali di Propaganda Fide che aveva infine ricevuto, via Costantinopoli, un plico con due lettere del F., una del 1722 e una del 1725. Nella seconda il F. scriveva di aver inviato numerose lettere nei tre anni precedenti, ma di non aver mai ricevuto risposta.
Il F. accennava all'assedio afgano e affermava che gli invasori avevano trattato con equità i cattolici. I problemi erano dovuti piuttosto alla guerra, che aveva distrutto case e chiese, e alle divisioni tra i missionari. Erano sorte difficoltà con i missionari francesi che avevano celebrato la messa nelle case private e persino nelle abitazioni dei mercanti olandesi e di un "giudeo". A tal proposito il F. aveva avuto nel 1724 una furibonda lite con i gesuiti. Inoltre l'assedio e l'interruzione dei contatti con Roma avevano aggravato i problemi finanziari, tanto che nell'agosto 1725 il vescovo aveva dovuto ricorrere al fratello Giuseppe.
Nel 1727 il F. inviò una lunga lettera a Roma, nella quale lamentava di non ricevere da anni denaro e istruzioni. Egli era ormai gravemente indebitato e temeva che la sua morte tra i debiti avrebbe avuto un effetto negativo sugli Armeni. Il 6 ott. 1728 spiegava che, non avendo ricevuto denaro da Propaganda Fide, aveva dovuto farsi prestare 300 scudi da Jacques Rousseau, mercante di Ginevra. Nella stessa missiva sottolineava che da sette anni non riceveva risposta dalla congregazione. Non esagerava la propria miseria. Il 2 giugno 1727 il mercante anneno David Sceriman pregò Propaganda Fide di aiutare il F., perché questi viveva in condizioni di estrema indigenza.
Gli aiuti da Roma infine arrivarono, come testimonia una lettera di ringraziamenti in data 4 febbr. 1729. La situazione sembrò allora divenire più favorevole. Il 15 febbr. 1730 il F. notificò che Isfahàn era finalmente libera e che quindi egli poteva pensare alla visita ad limina, anche se per il momento non aveva ancora iniziato la ricognizione della diocesi. Nel maggio ventilava addirittura la possibilità di recarsi presto a Roma per presentare il resoconto del suo prima decennio quale vescovo di Isfahān.
Spinto dalla speranza di tornare a Roma, il F. intraprese la visita della propria diocesi, ma la sua salute era malferma. Il 6 giugno 1730 scriveva di aver tentato di recarsi a Shirāz, ma di essere stato fermato dal caldo e dalla fatica. Nel frattempo i contatti con Roma erano ripresi più o meno regolarmente. Il 22 sett. 1730 annotava di aver ricevuto una lettera di Propaganda Fide, datata 19 apr. 1727, nella quale gli si prometteva la corresponsione degli stipendi degli anni precedenti. Coglieva l'occasione per ricordare che gli dovevano undici anni di provvisioni. Inoltre riferiva di aver scelto un vicario generale, Arcangelo Ferri, per poter partire liberamente alla volta di Roma.
Si trattava della sua ultima illusione. Il 4 ag. 1731 il Ferri scrisse a Propaganda Fide che il mattino dell'8 genn. 1731il F. era morto a Shirāz, dove aveva contratto una febbre perniciosa nell'ottobre precedente.
Le sventure finanziarie del vescovo di Isfahān non terminarono neanche con la sua morte. Il 23 apr. 1732 Gian Antonio Fedeli, figlio del conte Giuseppe, rammentò ai cardinali di Propaganda Fide che lo zio era stato costretto "dalle inesplicabili miserie sofferte" a ricorrere a jacques Rousseau (Roma, Arch. di Propaganda Fide, SC Persia, vol. 4, ff. 550rv e 559rv). Il mercante ginevrino era stato parzialmente rimborsato da Giusepe Fedeli, che si era rivalso su Propaganda Fide nel 1731, ma restava ancora da saldare una rimanenza, come gli era stato notificato da Jean-François Rousseau, fratello di Jacques. Non è chiaro se alla fine quel denaro fu reso e soprattutto da chi. Propaganda Fide cercò infatti di convincere il giovane Fedeli a rivolgersi ai domenicani di S. Sabina, i quali avrebbero trattenuto negli anni precedenti somme stanziate per le missoni di Isfahān. Il giovane conte Fedeli rispose che tale mossa spettava ai cardinali romani, sul che la corrispondenza si interruppe.
Questo ultimo scambio epistolare porta nuovi dettagli al quadro delle sofferenze del F., ma soprattutto testimonia delle difficoltà incontrate da Propaganda Fide nella organizzazione delle missioni. La congregazione non riusciva infatti a provvedere ai suoi uomini nei paesi nei quali la Chiesa non era appoggiata dal potere temporale. Nel caso del F. la mancanza di un sostegno finanziario era accompagnata da una situazione politicamente difficile, dalle strategie diplomatiche francesi, dalla lontananza che ritardava o interrompeva le comunicazioni e infine dal carattere stesso del vescovo di Isfahān che non brillava certo per duttilità. Il suo sacrificio personale fu quindi di scarsa utilità.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio di Propaganda Fide, Acta, voll. 73 (1703), 79 (1709), 80 (1710), 81 (1711), 83 (1713), 85 (1715), 86 (1716); Ibid., SOGC (Scritture originali riferite neicongressi), voll. 569 (1709), 572 (1710), 578 (1711), 580 (1712), 581 (1712), 589 (1713), 590 (1713), 591 (1713), 593 (1713), 594 (1713), 596 (1714), 597 (1715), 600 (1715), 602 (1715), 613 (1718), 616 (1718), 617 (1720), 623 (1720), 624 (1720), 626 (1720), 628 (1721), 634 (1722), 653 (1726), 656 (1727), 688 (1730); Ibid., SC (Scritture congressi) Persia, voll. 3 e 4; Ibid., Miscellanee varie, X, f. 136r; Ibid., Lettere, vol. 100, ff. 193 s; Arch. segr. Vaticano, Proc. Datariae, vol. 93 (1716), ff. 31-33; M. Lequien, Oriens christianus, III, Parisiis 1740, cc. 1391 s.; J.-J. Berthier, Le couvent de Ste-Sabine à Rome, Rome 1912, pp. 587 s.; L. Lemmens, Hierarchia latina Orientis 1622-1922, I, Romae 1922, pp. 265-74; A chronicle of the carmelites in Persia, London 1939, passim; A. Waltz, Compendium historiae Ordinis praedicatorum, Romae 1948, ad Indicem; A. Eszer, Missionen im Halbrund der Länder zwischen Schwarzen Meer, Kaspisee und Persischen Golf. Krim, Kaukasien, Georgien und Persen, in Sacrae Congregationis de Propaganda Fide Memoria rerum, a cura di J. Metzler, II, Rom-Freiburg-Wien 1973, pp. 421-62; Id., Barnaba F. di Milano O. P. (1663-1731). Das Schicksal eines Missionars und Bischofs im Sturm der Zeiten, in Arch. fratrum praed., XLIV (1974), pp. 179-262; P. Hurtubise, Varlet, Dominique-Marie, in Dict. of Canadian biography, III, Toronto 1974, pp. 639 ss.; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica, V, Patavii 1952, p. 101.