ARCO, Giovanni Battista Gherardo d'
Nacque ad Arco, il 25 nov. 1739, nel castello da cui i suoi avi, signori feudali di quei luoghi sin dall'età carolingia, avevano tratto il nome, dal conte Francesco Eugenio e dalla marchesa Teresa Ardizzoni di Pomà, di famiglia monferrina, da cui il figlio erediterà, coi beni, anche il titolo nobiliare. Non aveva però ancora compiuto l'anno d'età quando fu condotto a Mantova, dove i conti d'Arco possedevano già da qualche secolo case e terre e dove il padre decise di fissare la sua residenza, essendo succeduto nei titoli e nelle proprietà a una famiglia di funzionari gonzagheschi, i conti Chieppio.
Sarà per altro il caso di notare che l'atteggiamento dell'A. nei confronti delle sue nobili origini può indicarci alcuni tratti caratteristici della generazione maturatasi in pieno periodo di riformismo illuminato. Se il conte Francesco Eugenio dedicava i suoi ozi letterari alla compilazione di una cronaca - rimasta inedita, ma di cui s'interessò il Muratori - Sull'origine e fatti illustri della nobile e antica Famiglia dei Conti del Sacro Romano Impero d'Arco, che in parte rispondeva al gusto erudito della sua età, ma soprattutto indicava evidenti i fini agiografici, il figlio entrerà invece in polemi,ca, sia pur nel tono moderato che gli fli sempre proprio, con i privilegi nobiliari del tempo. Così, nell'elogio del cugino Carlo di Firmian, pronunziato all'indomani della sua morte, ricorderà l'illustre casato del ministro plenipotenziario per la Lombardia austriaca, sottolineando però che la nobiltà dei natali può costituire un fattore di "incitamento ed una guida alla virtù" nell'esempio degli avi, ma non un motivo di vanto e di privilegio.
Verso le posizioni illuministiche fu spinto già dagli insegnamenti del suo precettore, un religioso, seguace fervente del Wolff; ma sicuramente egli poté maturare le sue convinzioni, che lo portarono ad allontanarsi dai tradizionali studi umanistico-retorici, durante il soggiorno a Parma, dove si recò per perfezionare la sua preparazione e dove ebbe la possibilità di frequentare il Condillac. Soltanto a questo, tuttavia, si limitò il suo contatto diretto con l'Europa dei lumi: ostacolato anche da una salute malferma, non lasciò più in seguito Mantova, tranne che per recarsi di tanto in tanto - a causa soprattutto del suo matrimonio con una Canossa - a Verona, dove aveva già conosciuto il Maffei e dove strinse amicizia con Girolamo Pompei, il noto traduttore di Plutarco, e con Giuseppe Torelli, un letterato aperto alle correnti pre-romantiche della cultura inglese. Ma il suo legame più importante fu probabilmente quello con Pasquale Paoli, chegli conobbe durante il passaggio del ribelle corso da Mantova (luglio 1769) e col quale rimase a lungo in cordiali rapporti epistolari. Non che condividesse i sentimenti di quei suoi contemporanei che nella lotta della Corsica per l'indipendenza scorgevano l'urto fra due "civiltà", un contrasto fra poveri e ricchi, fra puri e corrotti: l'A., lettore attento e appassionato del Montesquieu, fu sempre convinto delle possibilità di riforma della società, ma non nutrì mai sentimenti e ideali rivoluzionari. Ma dal Paoli, appunto, poté avere, attraverso le lettere che ricevette nei primi anni del suo esilio a Londra, notizie dirette e originali su quella società inglese che tanto suggestionò tutto il pensiero illuministico; la sua anglofilia - espressa in diverse pagine delle sue opere - non fu tanto un atteggiamento alla moda, ma una meditata convinzione che lo congiungeva ad una precisa tendenza "moderata" dell'illuminismo europeo.
Il primo lavoro che gli valse una certa rinomanza fu la dissertazione presentata all'Accademia delle scienze di Mantova in seguito a un concorso bandito nel 1770 e pubblicata successivamente col titolo Dell'armonia politico-economica fra la città ed il suo territorio.
Il pregio di quest'opera è senza dubbio d'esporre i problemi trattati non solo alla luce delle dottrine economiche più avanzate del tempo (soprattutto del Genovesi), ma anche facendo tesoro della sua conoscenza particolare della situazione mantovana. I suoi principali fisiocratici, erano convalidati senza dubbio dalla sua esperienza limitata a un paese estraneo al grande processo di industrializzazione dell'Europa di quegli anni: a Mantova, persino le antiche manifatture tessili erano miseramente decadute, e l'A., nella sua polemica anti-mercantilistica, doveva esaltare più tardi, in armonia coi miti illuministici "il grande Sully", pronunziandosi contro lo sviluppo industriale di un paese agricolo (cfr. la sua Risposta al quesito: so in uno Stato di terreno fertile favorir debbasi maggiormente l'estrazione delle materie prime, ovvero quella delle manifatture, del 1780). Tuttavia, se le sole campagne vengono indicate come produttrici e della ricchezza, proprio la conoscenza diretta e profonda della situazione locale detta all'A. accenti originali e osservazioni realistiche e pertinenti, in particolare per quei che riguarda la sua polemica contro la grande proprietà ed i suoi vincoli giuridici di maggiorascato o manomorta. Essa si estendeva allora nel Mantovano su oltre un terzo della superficie e proprio nelle zone più fertili: la concentrazione delle maggiori ricchezze del paese nelle mani di poche famiglie gli appare un ostacolo insuperabile per la circolazione del denaro e per gli investimenti di capitale capaci di promuovere l'economia agricola, tanto più che non soltanto i costurni e la moda dell'epoca, ma la stessa legislazione - ereditata dai vecchi ordinamenti cittadini dello stato gonzaghesco - imponevano ai grandi proprietari la residenza in città. Pertanto le esigenze dei "lusso" congiuravano col disinteressamento dei padroni assenteisti e con la depredazione sistematica effettuata da fittavoli e coloni oberati da canoni esosi nel provocare, col depauperamento sempre più preoccupante del suolo coltivato, un abbandono progressivo delle terre, e il fenomeno dello spopolamento aveva infatti cominciato a farsi sentire gravemente nel Mantovano sin dalla seconda metà del Seicento.
Questa lucida anafisi, perfettamente rispondente a quel che conosciamo della situazione mantovana del tempo, si conclude con l'invito ai governi riformatori - in cui lo studioso illuminista ripone fiducioso le sue speranze - di promuovere la costituzione di piccole affittanze e, ancor meglio, di procedere sull'esempio toscano all'allivellamento dei latifondi.
Proprio su quest'opera dell'A. si concentrerà nei primi anni del secolo successivo la polemica di Melchiorre Gioia, che scorge in questo scritto un tipico esempio dei "bellisimi e inutili mezzi tentati dal cessato governo [austriaco] per accrescere la popolazione". L'antico rivoluzionario, divenuto funzionario napoleonico, espone nella sua Statistica del Dipartimento del Mincio - pubblicata postuma nel 1838 - un programma di rinnovamento dell'agricoltura mantovana, da realizzarsi attraverso una politica di investimenti e di espansione della mezzadria, capace di conservare intatta la grande proprietà. Indubbiamente interessante rilevare come sin da quegli anni vengano sviluppati in questi ambienti i due motivi della pubblicistica liberale sulle campagne - elogio della piccola proprietà o della mezzadria - e come al tempo stesso sia prospettata un'azione niformistica esclusivamente sul piano economico, senza che nessuno dei gravi problemi politici e sociali, che una riforma agraria avrebbe comportato, sia seriamente affrontato.
Intervenendo nella vasta polemica accesasi allora sul commercio dei grani, l'Ariprende nel 1775 - nello scritto Dell'annona - questi problemi. A quali conseguenze potesse portare la rivendicazioni dei "diritti naturali" anche uno studioso di tendenza moderata ci viene indicato dalla sua ardita affermazione che non solamente il proprietario gode di diritti sulle sue terre: esiste un "diritto del non proprietario" di vedersi garantire dalla società organizzata un minimo vitale. Se la soluzione migliore sarebbe a questo scopo la distruzione del latifondo creatosi in seguito alla concentrazione di piccole proprietà nelle mani di pochi potenti, il nullatenente deve comunque essere protetto contro le speculazioni degli esportatori e degli incettatori di grano. Spetta naturalmente al principe la tutela e la coordinazione di questi diritti. L'A. è comunque assertore del principio della libertà di commercio, con la sola eccezione per quei periodi di carestia in cui si renda necessario prendere dei provvedimenti straordinari.
La sua avversione per ogni ostacolo al commercio verrà esposta più decisamente in uno scritto del 1784, intitolato Del diritto ai transiti. Questo viene giudicato come un diritto naturale e come uno dei fondamenti della società, che gli spiriti illuminati devono riuscire a instaurare contro "gli errori dei secoli passati". Questo sostanziale coincidere di liberismo e illuminismo appare tanto più importante per l'attribuzione al commercio di un grande valore civile. Esponendo nel 1777, in una memoria presentata all'Accademia di Marsiglia, le sue riflessioni sull'Influenza del commercio sopra i talenti e sui costumi, egli eleva un vero inno alla funzione svolta da questa attività economica: non soltanto per le ricchezze e la potenza che apporta alle nazioni, ma per il suo incremento delle scienze esatte e delle tecniche, delle arti e delle più elevate attività intellettuali. Ma soprattutto egli ne esalta l'azione civilizzatrice e la stretta correlazione esistente fra le esigenze di libertà civile e politica, proprie dell'attività commerciale, e l'affermarsì di un regime liberale nei paesi - come l'Inghilterra - che più ad essa si erano dedicati.
Vale la pena di rilevare che in questo modo l'A. non soddisfece però i gusti conservatori degli accademici marsigliesi, i quali decidevano di premiare una memoria volta a dimostrare che "le commerce a toujours énervé l'esprit et depravé les møurs s. Alla sua delusione dobbiamo la decisione presa nel 1782 di pubblicare a proprie spese la sua sfortunata dissertazione.
In questo stesso scritto l'A. non esprime soltanto la tradizionale condanna dei "monopoli", ma deplora anche le attività mercantili concentrate nelle mani di gruppi ristretti. Di qui egli è spinto ad affrontare il problema ebraico nei termini in cui esso si poneva allora in numerose città dell'Italia centro-settentrionale; ma a tale questione dedicherà successivamente uno studio particolare, Dell'influenza del Ghetto nello Stato, pubblicato anch'esso nel 1782.
Questo scritto, per la risposta che suscitò da parte dei medico ebreo di Venezia, Ben-Zion Rafael Kohen (più noto con lo pseudonimo di Benedetto Frizzi) - Difesa contro gli attacchi fatti alla Nazione Ebrea nel libro intitolato "Dell'influenza del Ghetto nello Stato", Pavia 1784 - è stato esaminato da R. Bachi: L'attività economica degli Ebrei in Italia alla fine del set. XIX (sic ! leggi: XVIII), in Studi, in onore di Gino Luzzatto, Padova 1950, III, pp. 266-277, che ne critica duramente soprattutto le affermazioni ostili agli ebrei: lo stesso titolo, si asserisce, è usato in tono antisemita, "non come riferimento al quartiere ebraico esclusivo od unico", ma "con un tono di dileggio". In realtà lo studioso mantovano avverte d'essersi proposto di "esaminare qual sia l'influenza che ha la nazione Ebrea unita e raccolta in un corpo che chiamasi Ghetto..., non già quale sia l'influenza che aver possono alquante famiglie Ebree isolate e disperse per lo Stato"; tanto più, rileva, che "questa non è la condizione in cui trovasi tal nazione nell'attuale sua dispersione...". Il Bachi ha però ragione quando nota che l'A. ripete i più frusti motivi della polemica antiebraica: in effetti i sentimenti antisemitici erano radicati nello stesso movimento illumini stico, che senza rendersi conto delle ragioni storiche donde era scaturito tale problema, nutriva ostilità verso questi nuclei isolati e appartati all'intemo della società, profondamente attaccati a vincoli religiosi giudicati in netto contrasto col "progresso dei lumi". Nella generale evoluzione del tempo verso organizzazioni statali accentrate e libere da tutte le barriere che si erano stabilite al suo interno nei "secoli oscuri", anche i ghetti apparivano come una pesante eredità di un passato pieno di pregiudizi; ma persino all'intemo dell'ebraismo, nell'opera rinnovatrice di un Mendelssohn, si riteneva necessana una riforma che distruggesse tradizioni e abitudini incrostatesi nel corso delle epoche di persecuzione. Per questo si devono soprattutto sottolineare, nell'opera dell'A., più che gli aspetti negativi, frutto della mentalità e della cultura del suo tempo, le affermazioni più aperte alle nuove esigenze e assai meno comuni di quei che si possa credere nell'Europa settecentesca. Non si tratta tanto di porre in rilievo le pagine che l'A. dedica all'esame di e come il distacco del Ghetto dallo Stato nel quale esiste "deriva pur anco dalle leggi o condizioni colle quali sono gli Ebrei stati generalmente dalle nazioni ammessi ad abitare fra loro" (pp. 68-76): l'aspetto più interessante di quest'opera è senza dubbio la proposta di introdurre in tutti i paesi le disposizioni emancipatrici promulgate in Boemia da Giuseppe II. Certo, il Jewish Bill, che il parlamento inglese aveva per un momento cercato di adottare su proposta dei whigs nel 1753, è criticato duramente: l'assimilazione completa e immediata degli ebrei appare un eccesso rivoluzionario all'iuuminista mantovano. Solo una progressiva e lenta azione riformatrice gli sembra capace di distruggere le basi economiche del distacco esistente fra la comunità ebraica e la società cristiana, e d'introdurre cosí la cultura e i principi morali comuni ai popoli d'Europa fra questi gruppi fino allora appartati. In questo modo verrà "rimosso ogni vestigio dall'Ebrea nazione della condizione sua servile e precaria" (p. 131).
La prassi plurisecolare dell'espulsione e le teorie elaborate da alcuni giuristi in proposito vengono solennemente condannate per quei principi di tolleranza in nome dei quali l'Illuminismo condusse una delle sue battaglie decisive. In quanto esseri umani, gli ebrei hanno diritto ad abitare pacificamente ogni Stato, poiché "la sana Filosofia" ha liberato gli spiriti dal fanatismo religioso e ha mostrato le tristi conseguenze (anche sul piano economico, come è avvenuto in Spagna) di quei "barbari" provvedimenti (pp. 90-94). È opportuno rilevare che l'A. tenne fede a queste sue convinzioni anche nella sua difficile opera di govemo, riuscendo a impedire che alcuni torbidi provocati dall'opposizione nobiliare alle riforme di Giuseppe II degenerassero in un assalto contro il popoloso ghetto di Mantova. Un incidente dei genere si verificò invece, proprio per l'atteggiamento delle autorità, l'anno successivo alla sua destituzione.
Sino al 1785 l'A. aveva ricoperto soltanto qualche carica più onorifica che impegnativa, confacentesi al suo rango e alle sue consuetudini un po schive di studioso: membro del Magistrato camerale dal 1773, conservatore della Congregazione di patrimonio dal 1784, aveva anche retto, per il suo titolo di ciambellano imperiale, la sovrintendenza dei teatri di corte mantovani ed era stato nominato più tardi prefetto della locale Accademia delle scienze. Ma nel 1785 si era finalmente conclusa - dopo dieci anni - la grande opera del catasto teresiano, durante la quale i dirigenti mantovani avevano dato una prova ben poco edificante delle loro capacità politiche e persino della loro correttezza, e Giuseppe II decideva di riorganizzare i domini lombardi, sopprimendo le differenze ancora esistenti - e prive ormai di ogni giustificazione fra il Milanese e il ducato di Mantova. A capo della nuova provincia veniva chiamato dunque un uomo che, proprio per i suoi principi e la sua formazione intellettuale, poteva evidentemente meritare la fiducia del "filosofo in trono", anche se così si derogava alla prassi costantemente seguita dal governo austriaco di non nominare agli uffici di maggiore responsabilità una persona del luogo.
L'A. si getta con entusiasmo in questa attività per lui affatto nuova: spera di riuscire in tal modo a realizzare o a difendere - nell'ambito limitato del suo governo - quelle riforme di cui era stato convinto assertore. Egli si rende ben conto, senza dubbio, di essere l'uomo più preparato nella sua città, e forse addirittura il solo capace di svolgere il compito arduo che gli è stato affidato. Una delle sue prime azioni, dopo aver preso possesso della carica ed aver avviato il non semplice ingranaggio burocratico del nuovo ufficio, è di compiere una completa e minuziosa ispezione di tutta la provincia, stendendo alla fine una vasta relazione, dove espone con molta chiarezza la situazione in cui ha trovato i diversi distretti e i provvedimenti - generali e particolari - che caldeggia in vista di uno sviluppo economico e sociale del Mantovano.
Proprio il suo entusiasmo e la sua serietà sono destinati però a provocargli le maggiori delusioni: nella misura in cui le riforme si rivelano eversive nei confronti della posizione privilegiata dei nobili, grandi proprietari fondiari, vengono osteggiate dagli organismi cittadini dominati dai gruppi più retrivi. E l'A. è costretto a sostenere sin dal primo momento una dura e talvolta umiliante lotta con i circoli nobiliari arroccatisi intorno alla Congregazione municipale. Questo istituto, che non limitava le sue competenze alla sola città, non soltanto svolge una tenace tattica ostruzionistica contro tutte le disposizioni govemative, ma cerca di diffondere il malumore con dicerie, sobillazionli e accuse di incapacità mosse all'intendente, fino a provocare disordini e qualche tentativo di sommossa.
Le varie riforme avevano già apportato un duro colpo ai privilegi nobiliari, ma il catasto aveva coronato quest'opera che l'A. cercava di spingere avanti. Non potendo attaccarsi a queste disposizioni, i gruppi conservatori cercano di sfruttare il malcontento provocato da alcuni provvedimenti giuseppinistici in materia di culto. Gli incidenti si moltiplicano e si fanno gravi soprattutto dopo che i nobili riescono a far ricostituire una corporazione di servitori e palafrenieri, manovrata da loro come gruppo d'agitazione e provocazione. L'intendente si troverà sempre più combattuto fra la necessità di far rispettare le leggi e i decreti imperiali e l'impossibilità di porsi in urto violento con le forze più retrive della società mantovana.
La morte di Giuseppe II segnerà la fine di questa esperienza riformatrice. La Congregazione municipale, dopo aver tempestato la corte di Vienna con suppliche e richieste d'autonomia, riesce a far ricevere da Leopoldo II una sua delegazione. Inutilmente l'intendente politico fiducioso nel nuovo sovrano che aveva acquistato in Toscana fama di principe illuminato cerca di parare il colpo, con l'appoggio del governatore lombardo, conte Wilczek, e di esporre le sue ragioni: Vienna decide senza consultare i due uomini politici, noti per il loro attaccamento al regime riformatore, ed essi vengono sorpresi alla fine del gennaio 1791 da un decreto che ristabilisce l'autonomia del ducato di Mantova, destituisce l'intendente, consolandolo con il titolo di consigliere intimo di Stato, e affida il governo agli avversari dell'Arco. In questa esemplare vicenda del fallimento del dispotismo illuminato, è ben chiaro - e l'A. stesso lo rileva - come oggetto degli attacchi dei municipalisti fossero non solo le ultime riforme di Giuseppe II e le sue disposizioni accentratrici, bensì tutto il sistema che già dai primi anni di regno di Maria Teresa - sotto l'alta direzione del Kaunitz - si era venuto formando. L'età delle riforme è ormai ben chiusa e un effettivo rinnovamento degli istituti e della società dell'antico regime avrebbe potuto essere affrontato soltanto da uomini e gruppi meno vincolati ai ceti più reazionari della società italiana.
Amareggiato e deluso, l'A. si ritirerà allora nelle sue terre, dove, nei pochi mesi di vita che gli restano, si dedicherà a perfezionare le bonifiche e le colture agricole che vi aveva introdotto e a stendere una specie di apologia della sua azione di governo.
Morì il 19 ott. 1791.
Opere, oltre a quelle già ricordate: Del fondamento del diritto di punire (1775); Della forza comica (1782); Della Patria Primitiva delle arti e del disegno (Cremona 1785); De' fondamenti e limiti della paterna autorità nello stato di natura (s.d.). Le sue opere a stampa furono raccolte in tre volumi pubblicati a Cremona nel 1788. Un'ampia scelta dei suoi più importanti scritti di economia si trova nei voll. XXX e XXXI degli Scrittori classici italiani di economia politica del Custodi (Milano 1804) ;in base ad essa G. Pecchio, Storia dell'econmnia pubblica in Italia ,Lugano 1832, scrisse il capitolo dedicato al d'Arco.
Nell'archivio della famiglia d'Arco, a Mantova, sono conservate numerose lettere e altre opere inedite: fra queste, la sua autodifesa, Memoria sull'Intendenza politica provinciale in Mantova, la cui prima stesura, intitolata Frammento di memorie e considerazioni sugli strani avvenimenti dei sec. XVIII, è apparsa a cura di A. Enzi, nel Bollett. stor. mantovano, III (1958), pp. 270-296.
Bibl.: Notizie sulla sua vita in F. Arrivabene, Memoria del conte G.B.G. d'A., Mantova 1794; K. A.von Arco, Chronik der Grafen des heil. rám. Reichs von und zu Arco genannt Bogen,Graz 1886; cfr. anche C. Vivanti, Le campagne del Mantovano nell'età delle riforme, Milano 1959, passim. Il nipote, Carlo d'Arco, ha tracciato una vasta notizia bio-bibliografica di G. B. G. d'A. nella sua opera, rimasta inedita e conservata nell'Arch. di Stato di Mantova, dedicata agli scrittori mantovani.