GOINEO, Giovanni Battista
Nacque a Pirano, località costiera dell'Istria veneziana poco a sud di Capodistria, intorno al 1515.
Suo padre Francesco Goina era ancora in vita nel 1550; un fratello più giovane, Nicolò, nacque nel 1519 o nel 1520 e morì dopo il 1579. La famiglia, il cui vero nome era Goina (il solo G. adottò la forma latineggiante), apparteneva fin dal XIV secolo al ceto cittadino di Pirano, tradizionalmente ostile al patriziato locale. Nel 1578 Nicolò Goina capeggiò un tumulto dei "popolari" contro l'oligarchia che dominava la città.
Grazie alle buone condizioni economiche di cui godeva la famiglia, il G. poté seguire un ottimo corso di studi, prima a Pirano, con Giovanni Antonio Petronio, e poi a Bologna, dove ascoltò le lezioni dell'umanista Romolo Amaseo. Forse il G. era già in quella città nel 1529-30 (mancano però notizie sicure), quando il pontefice Clemente VII incontrò Carlo V ed ebbe luogo l'incoronazione imperiale.
A Bologna nel 1537, con la data del primo settembre, per i tipi di V. Bonardo e Marco Antonio da Carpi, il G. pubblicò una Defensio pro Romuli Amasaei auditoribus adversus Sebastiani Corradi calumnias, contro le critiche che S. Corrado aveva mosso alla scuola dell'Amaseo nella sua Quaestura, stampata a Venezia nello stesso anno. Il breve scritto (33 carte in tutto) si collega direttamente alla polemica sull'imitazione di Cicerone, riaccesa dieci anni prima dall'uscita del Ciceronianus di Erasmo da Rotterdam (1528). Il G., dedicando la sua opera al filologo brabantino Arnoldo Arlenio (che a quel tempo risiedeva a Ferrara), ha parole di grande elogio per Erasmo, di cui segue in gran parte l'impostazione. Nel suo insieme, però, la Defensio vuole essere una celebrazione collettiva dell'insegnamento dell'Amaseo, come testimoniano i versi latini e greci di due altri condiscepoli, Pietro Angeli da Barga e Francesco Robortello, posti all'inizio e, alla fine, il catalogo di tutti gli allievi del maestro bolognese.
Unitamente alla Defensio, quasi come sua appendice, il G. pubblicò una Disputatio de coniungenda sapientia cum eloquentia, scritta probabilmente in precedenza. In essa si immagina che Gianfrancesco Pico della Mirandola, giunto a Bologna per l'incoronazione imperiale, riferisca agli alunni dello Studio un dialogo avvenuto quasi quarant'anni prima a Firenze tra il suo grande zio Giovanni Pico, Angiolo Poliziano e Marsilio Ficino. Anche quest'opera, in realtà, ha lo scopo di celebrare l'insegnamento dell'Amaseo, indicato come diretto continuatore del Poliziano; nuova è invece la dura polemica contro la filosofia e la teologia scolastiche, alle quali viene contrapposta la lettura dei Padri della Chiesa greci e latini.
Nella prefazione della Defensio il G. ammette che le dispute letterarie lo avevano distolto da una regolare prosecuzione degli studi. In effetti, dopo il 1537 (se non addirittura prima) lasciò l'Università di Bologna per passare a quella di Padova, ma la data del suo trasferimento rimane incerta. Nell'estate 1539 era a Pirano, dove il 17 agosto incontrò il giurista friulano Cornelio Frangipane, che lo descrisse come "un giovene molto dotto ne le lettere greche latine et volgari et di grandissime speranze" (Antonini, p. 39). Con il Frangipane, il G. si recò in barca a Trieste, leggendogli durante il viaggio "alcune sue opere incominciate in prosa et in verso" (ibid., p. 40): il Savio Orlando, forse un poema in ottave d'ispirazione ariostesca; un trattato italiano, il Cavaliere, e uno latino, De optimo patre Reipublicae Christianae. Di questi scritti, se mai furono completati, si è persa notizia.
Durante il viaggio in Istria, C. Frangipane aveva ricevuto dal vescovo di Capodistria, Pietro Paolo Vergerio, due prediche "contra gli heretici di Germania" (ibid., p. 37). Probabilmente si riferisce ai due testi una lettera del G. al Vergerio, senza data, pervenutaci tra le carte di quest'ultimo. In essa il G. accusa il vescovo di aver sostenuto nelle sue omelie il primato pontificio, contro l'evidenza della storia (al riguardo sono citate le Istorie fiorentine di N. Machiavelli) e delle Sacre Scritture. La lettera rappresenta la prima chiara testimonianza di posizioni antiromane del G. e rende così esplicito il significato di alcune velate espressioni di dissenso religioso contenute nella Defensio del 1537. Una forte presenza luterana era stata segnalata a Pirano fin dall'inizio degli anni Trenta; nel gennaio del 1534 G.A. Petronio, il maestro di scuola del G., e due suoi concittadini erano stati processati per eresia a Venezia, davanti al nunzio pontificio G. Aleandro. Certamente il G. anticipò di molti anni il Vergerio nell'adesione alle idee della Riforma: nell'ottobre del 1546 questi, ancora indeciso sull'atteggiamento da assumere, non esitò a citarlo tra i testimoni a suo discarico nel processo davanti al S. Uffizio veneziano, forse contando di esibire la lettera di alcuni anni prima. Ma il G. non venne convocato.
Dopo l'estate del 1539 il G. compì un lungo itinerario in Austria, Ungheria, Germania e Belgio, di cui diede in seguito notizia nel De situ Histriae: in particolare riferì di avere avuto quotidiana relazione in Germania con il cardinale Marcello Cervini, impegnato nelle trattative di riconciliazione con i protestanti. è probabile, però, che egli abbia viaggiato tra gli accompagnatori di qualche influente personaggio della corte di Ferdinando d'Asburgo: già a quel tempo infatti le sue posizioni religiose appaiono inconciliabili con la rigorosa ortodossia cattolica del cardinale. Il legame del G. con Ferdinando è invece testimoniato dall'Epistola ad invictissimum Romanorum regem Ferdinandum, etc., a religione et pace missa, senza indicazioni tipografiche, ma datata dalla Selva Nera ("ex Hercyniae solitudine"), 20 maggio 1540. In essa egli invita Ferdinando a promuovere la pace tra le fazioni religiose in lotta, salvando la Germania dalla rovina: deve bastare un solo battesimo, una sola fede, al di fuori di ogni disputa teologica o controversistica.
I rapporti con la corte di Ferdinando sono confermati da un piccolo libro che il G. fece stampare a Vienna all'inizio del 1541, con dedica a Martín de Guzmán, consigliere segreto di Ferdinando. Esso comprende due orazioni: quella composta nel 1513 in onore dell'imperatore Massimiliano I da Paul von Oberstain e quella scritta da Girolamo Ricci (Ritius) nel 1527 per l'incoronazione di Ferdinando I come re di Boemia (Pauli ab Oberstain, Carni, Viennensis praepositi, de Maximiliani Romanorum imperatoris fe. memo. Laudibus… Adiecta Hieronimi Ritii baronis in Sprintzenstain Oratio habita in coronatione Regni Bohoemiae, excusum Viennae Pannoniae per Ioannem Singrenium, anno Domini MDXLI). Si trattava di due personaggi influenti: Paul von Oberstain, carniolino (1480-1544), era preposito del duomo di Vienna e cancelliere dell'Università; il G. nella prefazione non esita a chiamarlo "meorum studiorum unicum Moecenatem". Girolamo Ricci era figlio di Paolo, un ebreo convertito di origine pavese, medico personale di Ferdinando e autore d'importanti trattati teologici.
Sul finire del 1541 il G. tornò in patria, per completare il corso di studi all'Università di Padova. Seguì le lezioni di filosofia tenute da Marcantonio Genua e quelle di medicina di Francesco Frigimelica. A Padova fu anche membro dell'Accademia degli Infiammati, dove si discutevano prevalentemente questioni letterarie. Si laureò in arti e medicina dopo due anni, il 5 giugno 1543. Il 28 agosto successivo intervenne come testimone alla laurea in medicina del concittadino Giovanni Antonio Apollonio.
Allo stesso Apollonio il G. dedicò il libro che raccoglie le sue riflessioni degli anni padovani: il Medici enchiridion ad quotidianam medendi exercitationem ex Galeno excerptum, pubblicato senza indicazioni tipografiche, ma sicuramente a Venezia. La data di stampa va collocata nella prima metà degli anni Quaranta, se non addirittura prima del giugno 1543: nel frontespizio, infatti, l'autore si definisce "accademico infiammato", ma né per sé, né per l'amico fa riferimento alla laurea conseguita. L'opera, in realtà, contiene cinque testi in prosa su diversi argomenti, e un'ecloga latina dedicata, come la Defensio del 1537, ad Arnoldo Arlenio. Lo scritto più famoso è il secondo della raccolta, il De situ Histriae, una concisa descrizione geografica della penisola istriana, che però presenta anche un importante capitolo sugli uomini illustri che vi sono nati, compresi i contemporanei dell'autore (seconda edizione con prefazione di G. Fontanini in J.G. Graevius, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, VI, 4, Lugduni Batavorum 1722; ristampata in P. Kandler, Corografia dell'Istria, in Archeografo triestino, II [1840], pp. 45-71). Il G. riserva parole di grande elogio a Pietro Paolo Vergerio ("Evangelicae lectionis studiosissimus"), per suo fratello Giovanni Battista, vescovo di Pola, ma anche per i propri concittadini che erano stati implicati nel processo di eresia del 1534.
Gli altri testi della raccolta hanno avuto minor fortuna rispetto al De situ Histriae: il primo e il terzo trattano temi di filosofia e medicina, in riferimento alle lezioni del Genua e del Frigimelica (che vi sono esplicitamente citati); gli altri due sono paradoxa, probabilmente discussi all'interno dell'Accademia degli Infiammati. Nel quarto testo, Quod Latino potius quam vulgari sermone scribendum sit, il G., rifacendosi all'insegnamento dell'Amaseo, condanna l'uso letterario del volgare, che nel 1542, sotto la presidenza di Sperone Speroni, era divenuto esclusivo nei lavori dell'Accademia.
Dopo il periodo di studi, il G. ritornò a Pirano e in apparenza abbandonò l'attività letteraria. Prese moglie, venne assunto dalla Comunità come medico condotto ed esercitò attivamente la sua professione; non faceva però mistero delle sue opinioni religiose, certamente assai più intransigenti di quelle che negli stessi anni Vergerio andava diffondendo nella diocesi capodistriana. Evitò di essere coinvolto nel processo inquisitoriale del vescovo, ma nel febbraio del 1549 non poté sfuggire all'inchiesta che Annibale Grisonio condusse a Capodistria e a Pirano, nelle vesti di commissario speciale del S. Uffizio. Le testimonianze contro di lui furono numerose e concordi: particolarmente circostanziate e compromettenti quelle di due francescani del locale convento, ma anche di parecchi concittadini appartenenti al patriziato.
Il G. fu l'unico piranese a essere convocato a Venezia, davanti al S. Uffizio, nel gennaio 1550. Una serie di impegni professionali, poi il parto della moglie e la malattia del padre, gli consentirono di presentarsi solo il 6 maggio: intanto cercò qualche raccomandazione autorevole, chiedendo tra l'altro aiuto a Paolo Manuzio, che conosceva fin dai tempi di Bologna. Arrivato a Venezia, ottenne dai giudici di rimanere in casa del fratello Nicolò, invece di venire incarcerato. Nel primo interrogatorio, il 28 maggio, gli furono presentate le accuse: avere negato il primato papale e il purgatorio, difeso la comunione sub utraque specie anche per i laici, sostenuto che tutti i fedeli potevano compiere funzioni sacerdotali, non aver rispettato l'astinenza e i digiuni nei giorni prescritti.
Il G. aveva preparato una linea di difesa precisa: era uomo di grande cultura, parlava in modo dialettico, con molte citazioni di auctoritates; poteva darsi che i suoi ascoltatori, gente ignorante, lo avessero frainteso. I giudici, però, non rimasero impressionati dalla sua eloquenza: gli sottoposero le dichiarazioni incriminate e gli chiesero se confermasse o no di averle fatte. Messo alle strette, il G. poté solo rispondere: "El non mi soviene" (Processi…, p. 197).
Il primo interrogatorio si concluse assai male per l'imputato; il giorno dopo (29 maggio) egli inviò un memoriale ai giudici, appellandosi alla loro clemenza. L'udienza successiva era fissata il 10 giugno, ma il G. scelse di non presentarsi, fuggendo da Venezia. La sentenza, emessa il 5 luglio, lo dichiarò "heretico notorio, et stante la sua contumacia et prout in processu ostinato et confesso" (ibid., p. 208). Con la notificazione della sentenza a Pirano, il 20 luglio successivo, egli era definitivamente messo al bando dai domini della Repubblica.
Probabilmente il G. non mise più piede nell'Istria veneziana, né abbiamo notizie precise sugli anni successivi. Nel settembre del 1557 fra Giulio Morato, un francescano di Capodistria a sua volta inquisito per luteranesimo a Venezia, riferì che il G. era fuggito a Lubiana, aggiungendo: "De quela volta in qua mai più l'ho veduto; intendo esser morto" (Meneghin, p. 137).
Ancora nel 1577 il fratello del G., Nicolò, fu accusato di avere "in casa gran numero di libri prohibiti, et quelli istessi che haveva il fratello heretico, quali dopo la sua morte insieme con li suoi mobili et vestimenti li furono portati di terra todescha, ove morse detto suo fratello bandito fra heretici" (Morteani, p. 47).
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