BOGINO, Giovanni Battista Lorenzo
Nacque a Torino il 21 luglio 1701 da Giovanni Francesco, notaio collegiato e commissario alle ricognizioni, e da Giulia Petronilla Cacciardi. Negli anni in cui Vittorio Amedeo II dava il definitivo avvio alla politica delle riforme, il B. portò a termine il curriculum studiorum tipico del nuovo ceto dirigente. Dopo aver frequentato le scuole dei gesuiti, si laureò in "ambe leggi" nell'università di Torino il 29 ag. 1718 e subito si dette all'avvocatura. Anch'egli, con il Caissotti, il Maistre e altri, dovette essere un promettente patrocinatore di cause, se Vittorio Amedeo, per distorglierlo dalla difesa dei nobili colpiti dall'editto di avocazione dei feudi, lo nominò, l'11 nov. 1723, sostituto procuratore generale, poi amministratore della casa del principe di Carignano (fino al 1º dic. 1730) e, il 10 ag. 1730, pochi giorni prima dell'abdicazione, primo consigliere e referendario nel Consiglio dei memoriali con la facoltà di "supplire alle veci del gran cancelliere": incarico dei più delicati e ambiti, che pose il B., non ancora trentenne, direttamente a contatto col sovrano.
In questa posizione egli poté partecipare all'ultima fase preparatoria dell'editto di perequazione del 5 maggio 1731 e mostrarsi subito intelligente interprete della politica ecclesiastica e feudale della monarchia. Un parere, inedito, del 10 genn. 1731, che reca anche la sua firma, difende i diritti regi in merito alla "collettabilità" dei beni retrofeudali della Chiesa.
Accorto, a quanto si può intuire, nel muoversi entro il piccolo ma difficile mondo della corte e delle "aziende", il B. riuscì ad accattivarsi le simpatie dell'Ormea, diventato, col nuovo re Carlo Emanuele III, l'onnipotente dominatore della politica piemontese. Il 21 ott. 1733, quando era alle sue prime battute la guerra di successione polacca, il B. fu nominato auditore della regia armata con la giurisdizione di auditore generale di guerra. Le campagne in Lombardia del 1733-35 si possono considerare il primo, riuscito tirocinio del B. nell'apprendimento dei problemi propriamente logistici della condotta militare e anche un'indiretta lezione tattica e strategica. Il 29 marzo 1735 venne promosso auditore generale delle "milizie e genti di guerra di S.M." e primo referendario del Consiglio dei memoriali e nel 1737 fu incaricato dell'ispezione superiore delle leve dei reggimenti provinciali: tutto il problema della costituzione e dell'organizzazione dell'esercito - problema centrale per lo Stato assoluto sabaudo - fu così affidato al Bogino. Il titolo di conte di Migliandolo, trasmissibile in linea maschile, di cui il re lo infeudò (con la "finanza" di L. 5.500) il 25 ott. 1737, fu la sanzione più evidente del suo inserimento nel ristretto gruppo dei supremi dirigenti del regno. Ai compiti strettamente militari - come quello (documentato dal carteggio inedito, fra il 1737 e il 1741, col colonnello Amedeo di Diesbach e col conte de Viry: Torino, Arch. di Stato, Racc. Balbo, 1 e 2) di arruolare truppe nel cantone di Berna - se ne aggiunsero quasi subito altri di natura finanziaria e politica, come la trattativa con la Francia per le pendenze finanziarie della guerra e il delicato negoziato a Bologna col cardinale Prospero Lambertini in merito al concordato firmato il 1º genn. 1741.
L'ormai collaudata fedeltà all'Ormea e la sollecitudine ognora mostrata verso la persona del sovrano valsero al B., il 13 febbr. 1742, la desideratissima nomina a primo segretario di guerra (con "pensione" di L. 1.500) in luogo del dimissionario marchese Fontana. Di due giorni dopo è la designazione a "primario ispettore delle levate e rimpiazzamenti dei reggimenti provinciali". Con il primo ministro, col Saint-Laurent e col de Gregori, il B. fu, in tal modo, alla testa del governo, pochi giorni dopo la firma della convenzione militare con l'Austria (avvenuta il 1º febbr. 1742), all'inizio della guerra di successione austriaca.
Dai copialettere della segreteria di guerra (Torino, Bibl. Reale, Mil. 113) e dalle carte militari (Arch. di Stato di Torino, Racc. Balbo, 13) risulta in piena luce l'importanza della sua opera: dal campo, ove Carlo Emanuele III lo portò seco, il 19 marzo 1742, col figlio e con l'Ormea, il B. si occupò degli organici, degli spostamenti di truppe, dei rifornimenti, degli arruolamenti, degli armamenti, della costruzione e manutenzione delle fortezze, delle informazioni, dei pagamenti e assai spesso anche degli schieramenti strategici e dei rapporti con l'alleato. Meticolosi, precisi e prudenti, i suoi interventi personali piacciono al sovrano, sul quale comincia a diminuire l'influenza dell'estroso e audace Ormea. Quando, nel 1744, la guerra si fa più dura con l'avanzata franco-ispana nella valle della Stura, con la resa di Demonte e l'assedio di Cuneo, al B. vengono presentate proteste e autodifese dei maggiori responsabili delle sconfitte: particolarmente significativo è il fatto che a lui si rivolga il Bertola, con lettere del 1º dic. 1744 e del 6 febbr. 1745, per difendersi dalle accuse di errori e difetti nel suo disegno architettonico del forte di Demonte.
La morte dell'Ormea, nel 1745, diede al B. un'influenza decisiva su tutta la politica dello Stato. Prima conseguenza fu una maggior cautela nel considerare i rapporti di forza e un più "onesto" rispetto dei patti. Di fronte al gioco del ministro degli Esteri francese d'Argenson, volto a staccare Carlo Emanuele da Maria Teresa col miraggio di una "confederazione" di principi italiani fondata sull'esclusione degli imperiali dalla penisola, il B. si dichiarò fermamente per la fedeltà all'alleato.
Anche quando il pericolo di un attacco francese si fece gravissimo, egli, in un consiglio ristretto tenutosi la sera del 2 febbr. 1746, ribadì il suo parere e apprestò, con la consueta minuzia e abilità, un piano che consentisse, rompendo la linea Asti-Moncalvo-Casale-Valenza tenuta dai Francesi, di correre a difendere, scaduto l'armistizio, la cittadella di Alessandria, la più esposta alle rappresaglie nemiche. Il 3 marzo, dinanzi al testo francese d'un armistizio definitivo, il B. insisté ancora, solo fra i consiglieri del re, perché lo si respingesse. Il mattino del 5 il Leutrum, incaricato di eseguire il piano boginiano, iniziò, con l'attacco ad Asti, la più brillante manovra della guerra, costringendo alla resa il presidio francese in Asti, il 7, e liberando Alessandria il 9. La discesa dei soccorsi imperiali dalla Germania confermò ed estese il successo, che permise di liberare l'intero Piemonte e di ottenere, il 16 maggio, l'importante vittoria di Piacenza sui FrancoSpagnoli. Certo, la fedeltà del B. ai patti fece naufragare il "grande disegno" federalistico-autonomista del d'Argenson, nel quale i futuri storici nazionalisti vedranno un anticipo di Risorgimento, ma non si può dimenticare che la più prudente e prosaica versione boginiana della tradizionale politica della "bascule" ha le sue valide basi in una giustificata sfiducia nelle promesse francesi, in un ponderato scetticismo verso le mire di predominio indiretto dei Borboni, in un fondato timore di immediata reazione austriaca.
Il B. era, del resto, anche animato dallo scrupolo di non ripetere senza assoluta necessità i disinvolti voltafaccia di Vittorio Amedeo II: perciò egli disapprovò la protezione accordata segretamente dal re ai ribelli corsi contro Genova e - sembra - sconsigliò l'impresa di Provenza dell'autunno 1746. Nel luglio 1747, quando il Bellisle stava per penetrare in Piemonte attraverso il Monginevro, il B. fu, per la fiducia guadagnatasi con la sua politica a Vienna, l'uomo più adatto a invocare con la massima urgenza, a Milano, il soccorso austriaco. Di minor importanza pare il suo contributo personale ai negoziati che si svolsero per la pace di Aquisgrana.
Alla morte del Gorzegno, il 24 giugno 1750, subentrò quale ministro degli Esteri l'abile Ossorio, ma il B. rimase il consigliere di maggior credito in tutte le questioni principali: un primo ministro di fatto, anche se di diritto non ottenne altro titolo (il 15 marzo 1750) che di Ministro di Stato, col nuovo riconoscimento nobiliare di conte di Vinadio (per decr. del 21 ag. 1749 e con "finanza" di L. 12.000, alla quale s'aggiungerà, il 22 ag. 1751, un altro appannaggio di L. 2320 l'anno). A lui, infatti, Carlo Emanuele III affidò, il 18 febbr. 1751, le trattative, condotte anche di persona a Milano nella primavera dello stesso anno, per regolare le numerose questioni riguardanti le province "smembrate" dal ducato di Milano con le paci del 1738 e del 1748: specialmente le tariffe doganali, i contingenti di esportazione e importazione, la manutenzione del canale Naviglio, le condizioni dei "sudditi misti", le convenzioni per i "malviventi", le pensioni degli alunni del collegio Ghislieri, i debiti e i crediti delle comunità e delle città passate ai Savoia, il pagamento dei debiti austriaci di guerra verso il Piemonte. L'amicizia col gran cancelliere di Milano, il conte Beltrame Cristiani, facilitò la conclusione del negoziato e permise di elaborare, con la convenzione del 14 ott. 1751, un patto che avrà una vitalità secolare.
Le carte boginiane (Racc. Balbo, 3 e 12) documentano la diligenza della preparazione e la consumata perizia dei rilievi e delle proposte fatte dal Bogino. Anche la "convenzione per il transito dei sali", di cui è incaricato l'intendente generale Rubatti, vede il suo frequente intervento, mentre il difficile negoziato per il trattato "per la tranquillità d'Italia", firmato ad Aranjuez il 14 giugno 1752, ha nel B. il portavoce diretto d'un vero e proprio "secret du Roi". Le sue lettere al Cristiani (Milano, Bibl. Ambr., dal 23 ott. 1751 al 29 luglio 1752, ma specialmente quelle del 19 nov. 1751, dell'8, 15, 27 gennaio, 26 febbraio, 20 maggio 1752) testimoniano che le decisioni definitive passano per il B., il quale non soltanto si permette di criticare liberamente i diplomatici ufficiali, ma anche dà all'amico e fiduciario di Maria Teresa per ordine del re e all'insaputa del titolare degli Esteri notizie riservatissime.
Consulente principale nelle questioni degli spogli dei benefici vacanti e dell'elevazione alla porpora cardinalizia del nunzio pontificio a Torino (si veda, oltre alle Materie Ecclesiastiche dell'Arch. Stato di Torino, anche Racc. Balbo, 13), il B. riuscì a far prevalere la neutralità quando scoppiò la guerra dei Sette anni. Il rovesciamento delle alleanze impedì il vecchio gioco dell'altalena, e perciò il B. ritenne preferibile astenersi (vedi lettere del Cristiani del 1756-58 in Racc. Balbo, 6 e 7) e due anni dopo consigliò di rinunciare al Piacentino anziché rischiare mosse imprudenti. Fra il 1758 e il 1763 molte occasioni di impadronirsi dell'ambito ducato furono lasciate cadere e ci si contentò, forse con soverchia saggezza, di rinsanguare le finanze del regno con gli oltre nove milioni assegnati a Torino dalle due convenzioni del 10 giugno 1763 che conclusero la lunga vertenza.
Ascoltatissimo, dopo la pace di Aquisgrana, anche nei problemi internazionali, il B. lasciò però l'impronta personale più profonda nella politica interna. Sistema monetario, apparato difensivo, ordinamento scolastico, governo della Sardegna: questi sono i settori dove il suo apporto fu assolutamente determinante.
Grosse cartelle di "sentimenti", "riflessioni", "promemoria", appunti storici e tecnici, memoriali sulle esperienze straniere restano (Racc. Balbo, 9, 10, 11) ad attestare il contributo di grande impegno dato dal B. alla soluzione dei problemi connessi col disordine monetario in Piemonte e anche nel resto d'Italia. Non si riscontrano, neppure nei due memoriali più impegnativi del 4 ag. 1754 e del 20 genn. 1755, e nei commenti al Ragionamento di Pompeo Neri, orientamenti nuovi, ma l'esigenza di riparare alle conseguenze della guerra in questo delicato settore è tradotta in norme che, nel loro empirismo, sono, come sempre, ingegnose e prudenti. L'amicizia col Cristiani (vedi le molte lettere in Racc. Balbo, 3, 4, 5) giova anche qui per lo scambio di utili informazioni, anche se il tentativo comune - impostato nel 1751 e condotto innanzi con l'aiuto del Neri, del de Gregorio e del de la Chavanne - di eliminare il più possibile la moneta erosa e di stabilire una circolazione in qualche misura uniforme tra Piemonte, Lombardia e Toscana fallisce. Positivo è però lo sforzo del B. per condurre in porto la riforma almeno nel regno sardo. L'editto del 15 febbr. 1755 (alla cui esecuzione viene preposto lo stesso B., con decreto del 18 febbr. 1755, come "sovrintendente alla nuova monetazione e alla zecca") stabilisce infatti le nuove monete base d'argento e d'Oro, fissa la percentuale dei metalli nobili e la parità con le monete straniere, elenca gli "spezzati", specifica le specie abusive e la quantità massima di erose ammissibili, emette due milioni di biglietti di credito senza interessi per poter ritirare le vecchie monete dichiarate fuori corso: è un atto importante nella storia finanziaria subalpina. Collegato col riordinamento monetario è anche un progetto, inedito, del B. per un "Banco de' prestiti" al 3% (Racc. Balbo, 8), che rivela una più ampia attenzione al problema del reperimento dei capitali.
L'interesse preminente del B. resta tuttavia quello militare. Il restauro delle fortezze danneggiate dalla guerra, specie di Alessandria e Cuneo, la ricostruzione di quelle distrutte, in primo luogo quella di Demonte, il rafforzamento delle altre situate nei luoghi decisivi dell'ultimo conflitto, come Exilles, Fenestrelle, La Brunetta, Casteldelfino, Mirabocco, avvengono sotto la direzione tecnica del Bertola, ma per impulso diretto del Bogino. Mentre riconduce sul piede di pace gli organici dell'esercito, egli progetta, nel 1757, di istituire scuole di reggimento e, se tempera gli entusiasmi del principe ereditario per il modello prussiano, accetta però di modificare fucili e baionette, pistole e spade, divise e modalità di addestramento, per uniformare gli equipaggiamenti e snellire i movimenti delle truppe. La difesa delle coste del Nizzardo e della Sardegna dai pirati algerini e tunisini è il movente principale alla formazione d'una marina militare: il segretario di guerra acquista due fregate in Inghilterra e fa costruire il porto di Limpia.
Non manca al ministro la visione dei problemi commerciali: egli fa concedere a Nizza, Sant'Ospizio e Villafranca il privilegio di porti franchi e ordina ai comuni di procedere alla riparazione delle strade (nel 1755 e nel 1758 specialmente). Ma certo predominano in lui le ragioni militari: la prova decisiva è nel fatto che egli lascia cadere il progetto di una via Limone-Nizza per l'espresso timore di aprire un nuovo varco ai Francesi. Il ricordo del drammatico novembre 1745 perdura fortissimo e anche l'apertura delle strade di Pinerolo e di Cuneo è in stretto rapporto con una concezione militare di carattere difensivo.
In gran parte subordinata all'esigenza di perfezionare l'esercito è la non scarsa attenzione rivolta dal B. agli studi. Fedele interprete, anche in questo, della politica culturale già iniziata da Vittorio Amedeo II, egli manda il capitano d'artiglieria conte di Robilant con quattro giovani ingegneri a studiare, nel 1749, le scuole di metallurgia della Sassonia, dell'Hannover, del Brunswick, dell'Ungheria e del Tirolo, e affida al Robilant, due anni dopo, una scuola, presso l'Arsenale di Torino, con museo e laboratorio di chimica e metallurgia, istituendo un Magistrato delle miniere: si preoccupa di metter meglio a frutto i giacimenti della Val d'Aosta per rafforzare l'armamento dell'esercito.
Mentre coopera col Caissotti a difendere le prerogative regie nel campo della censura religiosa e dell'insegnamento secondario e universitario, il B. si impegna specialmente a migliorare la scuola per ingegneri e artiglieri diretta dal Papacino d'Antoni, nella quale insegnano il matematico Luigi Lagrange, il chimico Giuseppe Angelo Saluzzo e il medico Gian Francesco Cigna, i fondatori dell'Accademia delle scienze; consiglia l'invio in Egitto del professore di botanica Donati a raccogliere "cose naturali" per il Museo dell'università; patrocina i calcoli del fisico G. B. Beccaria per fissare la meridiana del Piemonte e gli esperimenti idraulici del professore di matematica Michelotti per misurare le acque decorrenti. Stimoli e protezioni vanno, dunque, agli studiosi "utili", gli scienziati, e le simpatie per la storia, che vedremo più manifeste dopo il ritiro dalla vita pubblica, restano un fatto di gusto personale.
Il 12 nov. 1759 il B. ricevette (con una nuova "pensione" di L. 2.180) l'incarico al quale è legata la sua maggior fama: il governo della Sardegna. Già prima si era occupato delle tristissime condizioni dell'isola, rovinata dal lungo malgoverno spagnolo e poco curata nel primo trentennio del dominio sabaudo. Aveva consigliato il re, nel 1751, di non procedere alla convocazione degli Stamenti; aveva compilato un riassunto sintetico delle relazioni dei viceré, degli intendenti generali e dei magistrati nell'isola; aveva presieduto, nel 1755, un "congresso" investito del compito di proporre provvedimenti atti a migliorare le condizioni dell'isola.
La corrispondenza con il viceré e le altre autorità preposte alla Sardegna e l'incompiuta relazione stesa da Pier Antonio Canova sotto la sua guida sono i più chiari documenti della meticolosa cura del ministro nell'ideare le riforme e della sua risoluta energia nel curarne l'esecuzione, anche contro l'iniziativa personale dei funzionari. Controllo dal centro, empirismo, efficienza pratica sono i caratteri di quest'opera riformatrice: gli stessi di quella dei suoi maestri, Vittorio Amedeo II e l'Ormea, fuori d'ogni ispirazione illuministica.
Il primo settore affrontato è quello dell'ordine pubblico e dell'amministrazione della giustizia. Convinto che la piaga del brigantaggio si possa curare soltanto con l'uso della forza, il B. non solo conferma, con l'editto del 13 maggio 1759, il sistema giudiziario preesistente, ma aggrava le pene e ordina di pubblicare l'elenco dei banditi condannati in contumacia. Accelera, tuttavia, la procedura; nomina luogotenenti-giudici in ogni villaggio per sbrigare i casi più urgenti; prescrive ai magistrati di presentare due volte l'anno l'elenco delle cause pendenti e di quelle espletate, per poter controllare la celerità dei tribunali. Con altre disposizioni del 24 febbr. 1765 perfeziona il meccanismo, senza però ostinarsi nel metodo repressivo, quando s'accorge che non dà soddisfacente rendimento: nel 1767, infatti, fa emanare un indulto a favore degli imputati minori per invogliarli a riprendere il lavoro dei campi. Aumentato il numero dei giudici e fissate ai baroni le regole per la nomina dei giusdicenti locali, nel 1770 fa costituire due consolati per le cause di commercio a Sassari e a Cagliari; recupera dai privati, a cui erano state alienate, le segreterie della Reale Udienza, della Giunta del regionale e del Giudice delle contenzioni; ordina la conservazione degli archivi e fa raccogliere in un corpo organico, dal Sanna-Lecca, le leggi dell'isola, che saranno pubblicate più tardi dal Pes, durante il regno di Vittorio Amedeo III; il 2 apr. 1771 fa promulgare un editto che stabilisce il riassetto delle carceri regie e impone inoltre ai baroni l'obbligo di curare il restauro delle proprie entro un anno.
Il problema delle interferenze ecclesiastiche viene affrontato dal B. con la medesima energia usata dal primo re. Nel 1759 e nel 1761 egli ottiene da Clemente XIII la condanna, con i due brevi Pastoralis officii e Paternae, dei chierici coniugati, che erano ormai il doppio dei veri chierici, riducendo così il numero degli ecclesiastici immuni. Con le sue insistenze strappa per mezzo della bolla del 15 luglio 1763 ricche prebende ai seminari diocesani dell'isola per migliorare sedi e insegnanti. Fra il 1763 e il 1767 lotta con energia contro i disordini e gli scandali dei conventi sardi e nel 1767 istituisce una giunta permanente per la sorveglianza dei "regolari", preponendole a segretario l'abile Giuseppe Cossu. Anche più risoluta è la battaglia combattuta contro i privilegi abusivi dei feudatari nobili, i quali, specialmente in campagna, spadroneggiano incontrollati e, mentre fanno spesso lega con i banditi, taglieggiano duramente i contadini, aggravando le già misere condizioni dell'agricoltura isolana. A questo fine il B. tenta un elenco degli aventi diritto; fa limitare, nel 1770, la facoltà di istituire fedecommessi, superando le proteste dei baroni spagnoli avallate da Madrid; fa imporre a tutti i paesi la costituzione di consigli comunali posti direttamente sotto la protezione regia (con l'editto del 24 sett. 1771).
Un intervento più diretto in materia d'economia si ha con la riforma dei Monti frumentari, già sorti per distribuire gratuitamente grano per la semina, ma amministrati in modo disordinato e arbitrario: sottoposti a giunte presiedute da vescovi, vengono controllati da una giunta generale in Cagliari (istituita nel 1767) composta da rappresentanti del governo e da esponenti degli Stamenti. La bonifica della costa di Bonaria, la regolazione delle acque torrentizie, le misure contro l'usura, i progetti di un'accademia agraria, l'incentivo alla coltivazione del tabacco e del gelso sono altri tratti della politica agraria boginiana in Sardegna. Convinto che la vastità dei beni comuni favorisca i reati contro la proprietà e il disinteresse per l'agricoltura, il B. si dedica, infine, a preparare la loro divisione ed assegnazione ai privati. Di questo progetto, troncato dalla morte di Carlo Emanuele III, non resta però altra traccia che l'opera del gesuita F. Gemelli sul Rifiorimento della Sardegna... (Torino 1776), con la quale il ministro pensava di avviare una campagna "psicologica" per preparare i Sardi alla grande riforma.
Qualche miglioramento il B. introduce anche nell'economia industriale, occupandosi delle saline, delle miniere, della produzione di indaco, della fabbricazione di polvere da sparo, e nel commercio, con provvedimenti per i porti, le poste, le monete; né trascura l'attrezzatura ospedaliera. Ma soprattutto vigorosa è la sua opera nel campo dell'istruzione. Non solo costituisce una tipografia regia, fa eseguire scavi archeologici, incarica padre Cetti di studiare la zoologia dell'isola, il Plazza di studiare la flora, il Belli la mineralogia. Egli prescrive l'uso dell'italiano e, se lascia a gesuiti e scolopi le scuole secondarie, li invita ad assumere anche all'estero insegnanti idonei, li sottopone a programmi e regolamenti precisi, fa stampare direttamente i testi e li fa vendere a basso prezzo o distribuire gratuitamente ai più poveri. Stanzia, inoltre, somme cospicue a favore dell'università di Cagliari e per essa ottiene una ricca rendita pontificia; la dota d'una sede adeguata e di una biblioteca pubblica; la riordina secondo il modello delle costituzioni piemontesi di Vittorio Amedeo II; si impegna di persona a chiamare professori idonei da varie parti d'Italia. Il suo fervore è vivissimo, sebbene non si ispiri a un'apertura ideologica maggiore di quella mostrata dal primo re e di questo condivida le cautele verso l'ortodossia e l'esigenza della disciplina. Tipica è, a questo proposito, la vicenda di G. B. Vasco: affidategli con riluttanza le cattedre di teologia scolastico-dogmatica e di storia ecclesiastica, il B. teme il di lui "naturale alquanto fervido", dà ascolto alle proteste locali per certe lezioni non prive di echi dell'Enciclopedia e finisce con l'accettare, nel 1766, le dimissioni del domenicano, "testa leggera, incostante e senza un capitale di dottrina". Anche più largo con i gesuiti, che lo controllavano, è nel riordinare lo Studio di Sassari, pur prescrivendo, col decreto del 4 luglio 1765, l'adozione di ordinamenti simili, nelle linee essenziali, a quelli stabiliti per Cagliari.
Un Mémoire concernant divers moyens pour contribuer à rendre l'île de Sardaigne florissante e un Progetto ed abbozzo d'un editto per le granaglie (Racc. Balbo, 13) furono forse gli ultimi atti importanti del B. ministro, prima che la morte di Carlo Emanuele lo privasse bruscamente del potere. Dal 1744, quando talune voci l'avevano definito "pensionario dei Gallispani" (Torino, Bibl. Reale, Mil., 125, 10), l'energia, l'inflessibilità, talora la durezza con la quale aveva sempre respinto le richieste di favori particolari, e la sua stessa onnipotenza di fatto avevano infittito le schiere degli "emoli" a Corte e nell' esercito, raccogliendole intorno al principe ereditario, che gli attribuiva la decisione del padre di tenerlo lontano dagli affari. Scomparso il vecchio re, il B. ricevette immediatamente, il 26 febbr. 1773 (Ibid., Vern., 30), la "giubilazione", e in termini alquanto secchi e perentori.
Decorato dal 12 apr. 1771 della gran croce dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, insignito in pari tempo della commenda di Gonzole presso Stupinigi, non privato da Vittorio Amedeo III dei cespiti precedenti, fornito d'una ricca fortuna accumulata con gli anni (dal testamento archiviato il 10 ag. 1778 - si trova nella Bibl. Reale di Torino, Misc. 118, 2 - risulta possessore di una casa in Torino, due cascine a Carignano, una vigna e una cascina a Cavoretto e Moncalieri, due cascine a Vigone, luoghi di Monte per un totale di L. 103.425, rendite varie per oltre 4.000 lire e molti oggetti preziosi), il B. poté tuttavia, superata l'amarezza del congedo, chiudere in tranquillità la lunga vita operosa.
Perduta la moglie (nel 1739) e i due figli (il primogenito Vincenzo Francesco nel 1759, il secondogenito Alessandro nel 1754), privo di nipoti, visse prevalentemente nella sua vigna di Moncalieri con la seconda consorte, che gli sopravviverà fino al 1810, Teresa Maria Cristina, figlia del primo presidente conte Filippo di Pralormo e vedova dal 1748 del conte Gaetano Maria Benso di Mondonio. Riempì il vuoto degli affetti filiali la presenza d'un nipote di lei, Prospero Balbo, il futuro ministro, al quale, adottato come figlio, egli dedicò i consigli della propria esperienza di governo, lasciandogli poi per testamento "libri e scritture", quadri, oggetti preziosi, i feudi di Migliandolo e Vinadio e il diritto di ereditare, alla morte della moglie, la maggior parte dei beni mobili e immobili.
Ormai i suoi pareri politici sono l'espressione d'una voce privata: così le previsioni sulle conseguenze della spartizione della Polonia, del disinteresse inglese per l'acquisto francese della Corsica, dell'intransigenza di Londra verso le colonie americane. L'accentuato interesse per la cultura acquista però il valore di un'autorevole manifestazione di appoggio ai dotti, ai quali il governo di Vittorio Amedeo III prepara giorni non propizi.
Se è omaggio alla moda il gusto per i versi dialettali che il Borrelli dedica al SôrCônt Bogin e per i quadri che Giovanni Michele Graneri dipinge per la villa collinare con scene di costumi, feste o cerimonie sarde (ventotto di essi si conservano al Museo Civico di Torino), significato più preciso rivela l'ostentata amicizia col fisico Beccaria e specialmente con lo storico Denina, al quale ridona coraggio dopo la "disgrazia" del 1777. Oltre ai conversari con questi dotti, il B. intensifica il carteggio col Tiraboschi e la lettura di opere storiche, vecchia passione. Già nel 1749 aveva inviato al Muratori preziose note sull'abdicazione di Vittorio Amedeo II; nel 1750 (Racc. Balbo, 3 e 4, lettere del Cristiani del 20 e 27 gennaio) aveva sollecitato la spedizione dei tre ultimi volumi degli Annali d'Italia; nel 1751-52 (Milano, Bibl. Ambr., sue lettere del 25 dic. 1751 e dell'8 genn. 1752; Racc. Balbo, lettera del Cristiani dell'8 febbr. 1752) aveva chiesto un esemplare dell'Istoria della Repubblica di Genova "fatta bruciare per man di boia" dal governo genovese; nel 1756-57 (Racc. Balbo, 6 e 7, lettere Cristiani, passim) aveva registrato con diligenza le vicende diplomatiche e militari della guerra dei Sette anni. Ora si fa attento correttore di "errori sostanzialissimi di fatto" contenuti nei capitoli della Storia universale, stampata in Olanda, che riguardano i Savoia (lettera all'abate Guido Ferrari del 4 genn. 1777); commenta taluni passi della Storia degli anni 1730 e seguenti, edita ad Amsterdam fino al 1766 e poi a Venezia; riprende più volte in mano gli Annali e i numerosi volumi Delle rivoluzioni d'Italia. I sei grossi tomi in 8º pubblicati in Genova tra il 1778 e il 1781 dall'abate ex gesuita spagnolo Francesco Saverio Lampillas lo vedono censore risoluto: l'opera, che vuol esaltare la letteratura spagnola contro quella italiana, "è ben lontana dal reggere al confronto di quella dell'illustre autore, cui intraprese a contradire", il Tiraboschi (lettera al Ferrari del 14 giugno 1780). La vita di Carlo Emanuele III compilata per epigrafi dall'abate Guido Ferrari viene da lui seguita passo passo nella sua elaborazione: consigli sulle fonti, correzioni e modifiche di fatto, dati sulla guerra del 1742-1748 si ritrovano in molte lettere fra il 1776 e il 1780; il 10 ott. 1778 rimprovera bensì al Ferrari talune espressioni troppo riguardose per la S. Sede, che "avrebbe[ro] potuto passarsi al principio di questo secolo, non che in tempi di tanto lume, come i correnti", ma subito aggiunge che di quel lume "sembra eziandio che se ne porti in qualche parte l'uso anche troppo innanzi".
Il B. morì a Torino il 9 febbr. 1784.
Egli restò, fino all'ultimo, uomo nel quale, come scrisse Prospero Balbo, "cosa rarissima fra gli statisti, la sublime politica non fu disgiunta mai dalla buona morale, né questa dalla soda religione". La sua leale serietà nel mantenere, la minuziosa diligenza nell'eseguire, la prudente energia nel decidere contribuirono alla costruzione del Piemonte moderno, nel positivo come nel negativo, non meno della disinvolta spregiudicatezza, dell'incalzante impazienza e dell'audace genialità d'un Vittorio Amedeo II e d'un Ormea.
Fonti e Bibl.: Non esistono biografie del B., e perciò si deve ricorrere, oltre che alla documentazione generale della storia sabauda del Settecento (specie a quella conservata nell'Arch. di Stato di Torino: Sez. I, Materie politiche, Materie milit., Materie eccles., Sardegna [Sez. I e Sez. Riunite], Materie econom., ecc.), a materiali inediti sparsi, quali i volumi contenuti nell'Arch. di Stato di Torino, Sez. I, Raccolta Balbo iunior, Ms. Bogino, 1-13; nella Bibl. Reale di Torino, Misc. 1, 114, 118, 133, 221; Mil. 113, 125; Vern. 30; nella Bibl. Ambros. di Milano, p. 218. Parte sup.; Z. 247 Sup. La bibliografia edita si riduce alle poche pagine della Vita del Conte G. B. ministro di Carlo Emanuele III, Milano s.d. (con ritratto del ministro), dovuta a P. Balbo (è pubblicata anche in appendice a G. B. Semeria, Storie del Re di Sardegna, Carlo Emmanuele Il Grande, II, Torino 1831, pp. 217-224), a C. Calcaterra, I Filopatridi, Torino 1941, pp. 21-23, e alle sommarie Annotazioni alla iscrizione funeraria in Chieri dettata dallo stesso Balbo nel 1786, il cui testo si conserva nella Bibl. Reale di Torino, Vern., Miscellanea Patria,Biografie,221. Trattano in qualche misura dell'attività del B.: E. de Tipaldo, Biografia degli italiani illustri..., II, Venezia 1831, pp. 97 ss.; D. Carutti, Storia del regno di Carlo Emanuele III, Torino 1859, passim; Relazione del Piemonte del segretario francese Sainte-Croix, annotata da A. Manno, in Misc. di storia ital., XVI, Torino 1877, passim; C. Negroni, Quaranta lettere del conte G. L. B. all'abate G. Ferrari con alcune poscritte del conte P. Balbo,ibid., XXI, Torino 1883, passim; A. Pino Branca, La vita economica della Sardegna sabauda, Padova 1929, passim; F. Venturi, G. B. Vasco all'Univ. di Cagliari, in Arch. stor. sardo, XXV (1957), pp. 15-41; G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena 1957, ad Indicem; L. Bufferetti, Le miniere sarde alla metà del secolo XVIII, in Studi stor. in onore di F. Loddo Canepa, I, Firenze 1959, pp. 67-86; A. Boscolo-L. Bulferetti-L. Del Piano, Profilo stor. econ. della Sardegna dal riformismo settecentesco al "Piano di rinascita", Padova 1962, passim; F. Venturi, Il conte B., il dottor Cossu e i Monti frumentari…, in Rivista storica italiana, LXXVI (1964), pp. 470-506.