MACCARI, Giovanni Battista
– Nacque a Frosinone il 19 ott. 1832 da Antonio e da Eleonora Bracaglia. Il padre, originario della Liguria, era segretario della Delegazione provinciale e possedeva un piccolo podere.
Da lui il M. ricevette da bambino, come i suoi quattro fratelli, i primi impulsi allo studio e soprattutto il gusto per il verseggiare alimentato dalle letture dei classici. Ciò spiega come mai, dopo essere stato allievo ad Alatri dei padri delle Scuole pie ed essere nel 1847 passato a Roma per iscriversi ai corsi di giurisprudenza dell’ateneo romano, il M. cominciasse a seguire parallelamente anche le lezioni dell’abate L.M. Rezzi, professore di eloquenza latina e italiana ben noto per la lunga battaglia antiromantica a difesa del classicismo e della tradizione letteraria italiana.
Fu appunto il Rezzi che il 25 apr. 1849 gli rilasciò un attestato «di buono ingegno, d’ottimi costumi, d’assiduità e amore agli studi», qualità che facevano sperare che potesse diventare un giorno «eccellente scrittore in verso e in prosa» (Roma, Biblioteca nazionale, ARC, 15 I C, n. 18). Da questo insegnamento il M. trasse l’estetica che, ricalcata da un lato sulle letture dei poeti del Due-Trecento e soprattutto di F. Petrarca e di F. Sacchetti, dall’altro sugli Idilli di G. Leopardi, sarebbe stata alla base delle sue prime prove di poeta.
Il conseguimento della laurea in legge il 13 genn. 1851 precedette di pochi mesi la morte del padre. Costretto a provvedere al sostentamento della famiglia rimasta a Frosinone, il M. accettò per un compenso irrisorio di difendere in tribunale le cause civili affidategli da un procuratore che lo aveva assunto come sostituto. Intanto riempiva i quaderni di abbozzi di tragedie, di traduzioni dal latino, di versi in cui spesso spiccava una dolciastra ispirazione religiosa, e frequentava le accademie, entrando in contatto con altri spiriti inquieti che a quella cultura erano ancora legati ma ai quali non sfuggiva la necessità di superare, innovandola, una poetica ormai esangue come quella dell’Arcadia o della Tiberina. Tuttavia proprio in Arcadia il M. lesse i suoi primi componimenti, prevalentemente sonetti e canzoni che, riecheggiando palesemente i modelli poetici del Trecento ovvero riproponendo un Leopardi di maniera, erano più un esercizio di stile che l’espressione di un sentimento sincero: caratteristica, questa, che si coglie senza difficoltà nel suo primo volume, Poesie, pubblicato nel 1856 a Firenze grazie al generoso contributo di Giovanni Torlonia, poeta anch’egli e principale elemento di coagulo di quel sodalizio che fu detto Scuola romana e che, raccogliendosi nelle sale del Caffè Nuovo al pianterreno di palazzo Ruspoli, includeva, oltre al M. e a suo fratello Giuseppe, A. Monti, B. Gasparoni, G. Tirinelli, P.E. Castagnola. Molti di loro erano segnati da un destino di morte precoce, e tutti percorsi da un vago senso di inquietudine che per scelta o per il forte condizionamento ambientale consegnavano al verso piuttosto che alla protesta politica, solo concedendosi di tanto in tanto qualche «impennata innocente» (Il secondo Ottocento, p. 13).
Bastò comunque la raccolta del 1856 per fare del M. la personalità di punta di una tendenza presto celebrata da F. Gregorovius come una manifestazione di anticonformismo e quasi d’avanguardia. Mutata la propria condizione con il posto di archivista al ministero degli Interni procuratogli dalla protezione del card. L. Altieri e fatta venire la famiglia a Roma, il M. prese a studiare gli antichi poeti greci: la versione delle Odi di Anacreonte e delle Opere e giorni di Esiodo, che con l’aiuto del fratello Giuseppe pubblicò a Roma nel 1864, rappresentò il momento di passaggio verso una poetica più raccolta, in cui la classicità era rivissuta «come intima misura della realtà spirituale e naturale» (Filosa, p. XXI) e la fonte di ispirazione era cercata nel paesaggio o negli affetti familiari, con toni minimalisti e spesso popolareschi che, messo da parte ogni accademismo, erano il preannunzio di quella che sarebbe stata la poetica dei crepuscolari. Si distinguevano, per adesione alla realtà del vissuto quotidiano (tanto che tre li avrebbe lui stesso soppressi), i capitoli in terza rima, dove i toni satirici adombravano un ideale civile fino allora trattenuto, e poi le odi, che appunto offrivano rievocazioni paesaggistiche più fresche e stati d’animo più sinceri. Era questa l’ultima produzione del M. che in vita riuscì a vederla accolta in minima parte da alcuni opuscoli e periodici letterari romani, in particolare Falconetto, dove apparve nel 1864 La notte d’inverno nel villaggio, e Il Buonarroti, nel quale nel giugno 1867 uscirono La cantinetta e A Pietro Codronchi, e pochi mesi dopo un componimento dedicato Alla cara memoria di Benvenuto Gasparoni. Fu proprio Codronchi che, morto il M., diede alle stampe i suoi scritti degli ultimi anni nel volume Nuove poesie (Imola 1869).
Vi risuonava, rispetto al volume del 1856, la nota agreste ed elegiaca, sostituita, nelle composizioni più recenti, da accenti di contenuta disperazione e da un presentimento di morte, giustificata la prima dalla scomparsa a breve distanza di tempo (e sempre per la tisi) dei due fratelli minori, Leopoldo, morto il 4 luglio 1866, e Giuseppe; a spiegare il presentimento furono invece i primi segni della malattia, comparsa anche per lui nell’estate del 1867 e combattuta inutilmente prima con l’omeopatia e le cure termali, quindi con un soggiorno estivo a Imola, in casa dell’amico Codronchi, soggiorno che lo indebolì ulteriormente.
Il M. morì a Roma il 19 ott. 1868.
Il fratello del M., Giuseppe, nacque a Frosinone il 19 ott. 1840. Seguito nella sua prima educazione da un sacerdote e dallo stesso M. che nel 1855 lo portò con sé a Roma, studiò da autodidatta le lingue classiche e acquistò nel greco una tale padronanza da essere ammesso tra i membri dell’Istituto di Prussia e da guidare il fratello nelle sue incursioni nelle liriche di Anacreonte. Più tardi si guadagnò da vivere dando lezioni private ai rampolli di alcune famiglie romane. Sembra, inoltre, che fosse il solo tra i suoi fratelli a seguire con partecipazione le vicende dell’unificazione nazionale. Stando alla testimonianza di un amico, G. Tirinelli, «al nome solo di Garibaldi si esaltava, come al pensare le gesta degli antichi eroi» (pp. 202 s.); dal canto suo D. Gnoli racconta un episodio che vide Giuseppe arrestato dalla polizia romana e tenuto in carcere per circa un mese senza che ce ne fosse motivo. Questo clima di persecuzione fu all’origine della distruzione precauzionale di molte delle carte di Giuseppe, incluse quelle contenenti le sue prime prove di verseggiatore; non è da escludere che discendesse da lì anche il lento ma graduale avvicinamento al protestantesimo in cui, con l’incoraggiamento del pastore della legazione prussiana, il suo rigorismo morale e la sua fede cercavano quella distanza dalle cose terrene che la Chiesa cattolica non era più, a suo giudizio, in grado di offrire.
Nel 1865 l’editore Barbera di Firenze diede alle stampe il suo primo e unico volume di versi, intitolato semplicemente Poesie. Lontano da ogni tentazione di tipo arcadico ma non meno del fratello sensibile alla lezione di Leopardi e più di lui attento all’eleganza stilistica e alla purezza della lingua, Giuseppe rivelava nei 34 componimenti un’anima capace di commuoversi di fronte alla grandezza del creato, fino a sconfinare in una «sorta di panteismo mistico» (Filosa, p. 183), al quale riusciva peraltro funzionale il tributo pagato alla poesia greca attraverso la ripresa del verso delle anacreontiche. Estraneo alla polemica antiromantica, egli cercò e talvolta trovò nei suoi rapidi schizzi e nei suoi bozzetti naturalistici un impasto tra una classicità rivissuta con ingenuità e sincerità quasi infantili (questa notazione è del fratello Giovanni Battista) e una volontà di sottrarsi al peso della tradizione attingendo anche alla sensibilità romantica. Al di là del dato stilistico e come in controluce si intravedeva in lui la difficoltà di trovare una collocazione sicura in una realtà come quella romana dei tardi anni ’60 e in una città che non era ancora Italia ma che ormai non era nemmeno più la capitale del Papato temporale.
La profonda dedizione alla ricerca estetica ebbe per Giuseppe un prezzo assai alto, in quanto l’applicazione assidua allo studio non fece altro che aggravare lo stato della sua salute piuttosto gracile procurandogli continue emicranie. Nel 1865 si ammalò più seriamente e di lì a poco la morte del fratello Leopoldo non lo aiutò certo a riprendersi. Continuò tuttavia a comporre versi con la furia creativa di chi sente vicina la fine, che per lui arrivò a Roma il 19 marzo 1867; secondo il M., si era da pochi giorni riconciliato con la fede cattolica e in punto di morte aveva ricevuto i sacramenti. Qualche mese dopo uscì a Firenze un volumetto di Poesie e lettere di Giuseppe Maccari comprendente le 34 poesie da lui scritte dopo il 1865, alcune traduzioni in versi da Omero e Apollonio Rodio e 46 lettere a corrispondenti vari del periodo 1859-66.
Fonti e Bibl.: Malgrado il giudizio negativo di B. Croce (La letteratura della nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 230-232) e di G.A. Borgese (I poeti della Scuola romana, in Studi di letterature moderne, Milano 1915, pp. 47-55), la Scuola romana e i fratelli Maccari, che ne furono i maggiori rap;presentanti, hanno trovato un certo spazio nelle storie della letteratura sull’Ottocento e nelle raccolte antologiche, a partire dalla rievocazione di D. Gnoli, I poeti della Scuola romana (1850-1870), Bari 1913, pp. 10-12, 16-18, 28, 35-41, 217-267; altre ampie selezioni in L. Baldacci, Poeti minori dell’Ottocento, Milano-Napoli 1958, pp. XI, XX, 377-406; F. Flora, Storia della letteratura italiana, V, Milano 1962, ad ind.; I poeti della Scuola romana dell’Ottocento. Antologia, a cura di F. Ulivi, Bologna 1964, pp. 7 s., 16-23, 28-36, 83-128, 165-193; Storia della letteratura italiana (Garzanti), diretta da E. Cecchi e N. Sapegno, VIII, Dall’Ottocento al Nove;cento, Milano 1968, pp. 553-557; Il secondo Ottocento. Lo Stato unitario e l’età del positivismo, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, VIII, 2, Roma-Bari 1975, ad indicem. Espressamente dedicato ai fratelli Maccari e molto informato è il lavoro di C. Filosa, I due poeti «principi» della Scuola romana. Saggio biografico e critico su G.B. e Giuseppe Maccari, Venezia 1958. Sul magistero del Rezzi: F. Picco, L.M. Rezzi, maestro della Scuola romana, Piacenza 1921, pp. 50-56 e passim. Tra le fonti, una busta di Carte Maccari (contenente qualche autografo, quaderni di appunti, abbozzi di poesie ed estratti di articoli a stampa) è conservata a Roma nella Biblioteca nazionale, ARC, 15. I. C (vi si leggono tra l’altro D. Gnoli, Ricordo di Giuseppe Maccari, in Nuova Antologia, aprile 1867, pp. 787-790, e G. Tirinelli, Giuseppe Maccari, in La Scuola romana, III [1885], pp. 169-178, 202-212).