PIAZZETTA, Giovanni Battista
PIAZZETTA, Giovanni Battista (Giambattista). – Nacque a Venezia il 13 febbraio 1682, nella parrocchia di S. Felice, dove, tre giorni dopo, ricevette il battesimo (Moretti, 1984-85, pp. 359 s.). Il padre, Giacomo, originario di Pederobba nella marca trevigiana, fu uno scultore e intagliatore, autore degli armadi e del soffitto ligneo della biblioteca dei Ss. Giovanni e Paolo di Venezia. Secondo le fonti (Longhi, 1762), Piazzetta avrebbe ricevuto la prima educazione proprio nella bottega paterna, prima di passare alla scuola del pittore Antonio Molinari, circostanza confermata anche dalla testimonianza del suocero Ubaldo Mazzioli, nella dichiarazione di stato libero del 1724 (Moretti, 1984-85, p. 361). Va a ogni modo menzionato il ricordo personale dello stesso Piazzetta, che, in una lettera del 1744 alla Veneranda Arca del Santo a Padova, rammentò Silvestro Manaigo come il suo «primo maestro» (Sartori, 1959-60, p. 235).
Appare difficile comprendere l’importanza di Manaigo nella formazione del giovane Piazzetta, sebbene quest’artista debba avere giocato un ruolo piuttosto significativo nella pittura veneziana a cavallo tra Sei e Settecento. Un possibile arruolamento di Piazzetta alla scuola di Molinari può invece datarsi intorno al 1696, anche perché, a questa data, venne commissionata al suo maestro, da Francesco Bassani, zio dello stesso Piazzetta, una pala d’altare per la chiesa di S. Marziale (Moretti, 1984-85). Non v’è dubbio che l’apprendistato presso la bottega di Molinari possa avere indirizzato l’artista verso la predilezione di ambientazioni contrastate e chiaroscurali, nella linea di gusto della tradizione tenebrosa seicentesca.
Tra le prime opere di Piazzetta vanno certamente ascritte le tele acquistate nel 1740, probabilmente dal precedente proprietario, da parte del maresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, e rappresentanti Abele morto e Il buon samaritano (entrambi in collezione privata; si consultino Binion, 1970; Ruggeri, 1981, p. 193; Moretti, 1984-85, p. 362). Queste, definite dallo stesso Piazzetta della sua «prima maniera» nell’inventario dei beni del maresciallo da lui redatto nel 1741, rivelano i contatti con Carlo Cignani e con Federico Bencovich, più che con Giuseppe Maria Crespi; sono significativi anche i riferimenti allo stesso Molinari, a cui s’accosta per più di qualche dettaglio morfologico e compositivo. Sono a ogni modo tele che si differenziano dagli altri primi lavori noti del maestro, che denunciano invece una riflessione più moderna sugli ultimi tenebrosi e un accostamento a prototipi crespiani, sì che non si dovrà escludere per esse una datazione precedente lo stesso soggiorno bolognese.
Dopo l’apprendistato presso la scuola di Molinari (morto nel 1704), le fonti sono concordi nel rammentare un viaggio di studio a Bologna, dove «fermossi per non breve spazio, studiando e osservando con somma attenzione le meravigliose opere de’ famosi Carracci, e più ancora quelle del Guercino, di cui parve che volesse imitare il gusto e la maniera» (Albrizzi, 1760, pagina non numerata dell’Introduzione). La notizia di un alunnato alla scuola di Crespi è ripresa da Luigi Lanzi (1795-96, p. 208) e da Giannantonio Moschini (1806, p. 71), ma non vi sono elementi certi a sostegno di questa ipotesi.
Sicuramente l’interesse per l’opera di Guercino fu fondamentale per l’evoluzione della sua arte e per l’accento drammatico impresso ai suoi soggetti. Una «maniera tutta fondata sul naturale e sul vero, senza elezione delle migliori forme, e caricata di un chiaroscuro da dare alle cose il maggior rilievo, e renderle palpabili», come dirà Francesco Algarotti nel suo Saggio sopra la pittura (1764, p. 236).
Nel 1711 il pittore risulta iscritto alla fraglia veneziana (Favaro, 1975). Non è tuttavia semplice proporre una cronologia sicura delle opere non documentate dalle fonti. Anche l’estensione del catalogo si presta alle problematiche determinate dalla ripresa, a distanza di anni, di tematiche e composizioni da parte dello stesso pittore, nonché dall’esistenza di una bottega che contribuì a diffondere, anche dopo la morte del maestro, lo stile e le invenzioni di Piazzetta.
Intorno al 1718-19 va datata la realizzazione di una pala con la Vergine con il Bambino e l’angelo custode, di cui si conserva oggi un frammento all’Institute of arts di Detroit. Destinata alla Scuola dell’Angelo Custode a Venezia, venne in realtà acquistata da Zaccaria Sagredo per centoventi ducati (Dezallier d’Argenville, 1762, p. 319) a seguito del rifiuto dell’opera da parte della Scuola stessa (che affidò poi l’esecuzione del dipinto a Sebastiano Ricci, il quale la portò a termine nel 1720; Moretti, 1984-85, p. 319). Del secondo decennio del Settecento devono considerarsi egualmente opere come la Susanna e i vecchioni della Galleria degli Uffizi, appartenuta a Bonomo Algarotti, o il S. Francesco in estasi già in collezione privata ginevrina, e forse pure il concitato Ratto di Elena del Musée Granet di Aix-en-Provence (così Mariuz, 1982, pp. 77, 82, nn. 10-11, 31). A questi anni possono risalire egualmente anche le prime invenzioni di genere del maestro, sulla scia di alcuni precedenti di Crespi: sono figure di contadini e pastori, colti nel sonno o in riposo, come la Contadina che si spulcia e il Giovane erbivendolo, entrambi presso il Museum of fine arts di Boston, oppure le due tele con Contadini, della Residenzgalerie di Salisburgo.
Al 1722 è possibile datare la Cattura di s. Giacomo apostolo per la chiesa di S. Stae a Venezia (Moretti, 1973, p. 319), opera che, dipinta nell’ambito di una sorta di tenzone pittorico con i più importanti maestri veneziani di quegli anni, rivela l’originalità di Piazzetta e di fatto si pone quale manifesto della pittura ‘neo-tenebrosa’ alternativa sia ai linguaggi attardati su posizioni tardobarocche sia a quelli più legati al versante rococò. La reputazione di Piazzetta fu in costante ascesa in questi anni, ed entro il 1723 deve risalire la stipula del contratto per la decorazione della volta della cappella di S. Domenico nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia, dopo avere vinto un concorso indetto dagli stessi padri domenicani e che vide partecipare anche Mattia Bortoloni e Giambattista Tiepolo (Moretti, 1984-85, pp. 365-383). La Gloria di s. Domenico al cospetto della Trinità e della Vergine Maria venne inaugurata il 14 gennaio 1727 e rappresenta l’unico intervento a carattere decorativo della carriera di Piazzetta: a olio su tela – tecnica più congeniale dell’affresco per il maestro abituato a lenti ritmi di lavoro – costituisce un’opera capitale per la decorazione soffittale settecentesca, perché importò a Venezia alcune soluzioni bolognesi come quelle di Crespi in palazzo Pepoli a Bologna, arricchendole di una luce limpida, ma percorsa di vapori rossastri e rugginosi, unitamente a una tavolozza di grande sobrietà, lontana dai modelli coevi di Sebastiano Ricci. Al 1722 si deve datare anche una delle prime commissioni internazionali giunte al pittore, che partecipò al ciclo delle tombe allegoriche – pensato dall’impresario irlandese Owen McSwiny – realizzando la Tomba allegorica di Lord Somers (oggi Birmingham, Museum and Art Gallery), in collaborazione con il Canaletto per la parte architettonica e con Giambattista Cimaroli per il fogliame. Probabilmente a causa della lentezza dello stesso Piazzetta l’opera venne consegnata solo nel 1726.
Nel 1723 venne pagata al pittore la perduta tela con un Miracolo del Crocifisso per la chiesa del Cristo nell’isola di Poveglia.
Il 22 novembre 1724 Piazzetta prese in moglie Rosa Muzzioli, dopo che nel 1721 la madre della sposa aveva presentanto formale «contraddizione» al matrimonio, poi rimossa il 1° agosto dell’anno effettivo delle nozze (Moretti, 1984-85, pp. 366-368). Ebbe da questo matrimonio sette figli: di Giacomo Giusto (1725), Barbara (1728) e Marianna (1744) si conservano ancora gli atti di battesimo. Al 1724 si può far risalire anche l’inizio della collaborazione con l’editoria veneziana: presso l’editore Recurti fu stampata la Chiesa di Gesù Cristo vendicata di Antonio da Venezia, con un’antiporta incisa da Marco Alvise Pitteri su disegno del maestro.
Nel 1726 Piazzetta ultimò la pala per chiesa di S. Maria della Consolazione, detta della Fava, rappresentante L’apparizione della Vergine con il Bambino a s. Filippo Neri. Gli oratoriani gli corrisposero in tutto 300 ducati per l’opera, di cui 200 gli furono versati già nel gennaio del 1725 e saldati infine nel dicembre del 1727 (Ravà, 1921, p. 52). Dell’opera sono note varie versioni in formato ridotto, variamente interpretate come modelli, ricordi o copie della pala (esse si conservano a Washington, presso la National Gallery; a Salisburgo, nella Residenzgalierie; in collezione privata [Mariuz, 1982, p. 85, cat. 44]).
Dopo il 1725 eseguì anche la pala con l’Angelo custode e i ss. Antonio da Padova e
Gaetano da Thiene per la chiesa di S. Vidal a Venezia. Nel 1727 l’artista fu nominato socio dell’Accademia Clementina, come risulta da una lettera di ringraziamento del 25 ottobre di quell’anno (Fogolari, 1913, pp. 245 s., nota 1).
Per le clarisse della chiesa dell’Araceli a Vicenza, Piazzetta realizzò la straordinaria Estasi di s. Francesco, da datarsi al 1729, nella quale innovò iconograficamente il soggetto, combinando il momento dell’estasi con quello della stigmatizzazione (Jones, 1981, pp. 218-222, cat. 72): perfetta summa della potenza espressiva delle opere sacre del maestro, improntate a una drammaticità che mira a una puntuale resa degli affetti e al coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Intorno alla metà degli anni Trenta avvenne un profondo mutamento nello stile di Piazzetta, osservato anche da Giambattista Albrizzi a proposito della pala con l’Assunzione della Vergine oggi al Louvre («si scostò dal suo primo modo alquanto tetro di colorire, dipingendola vagamente e con graziose tinte»; Albrizzi, 1760, pagina non numerata dell’Introduzione). La pala fu realizzata per la chiesa dell’Ordine teutonico a Sachsenhausen, vicino a Francoforte sul Meno, per commissione di Clemente Augusto Wittelsbach, elettore arcivescovo di Colonia, e spedita in Germania nel 1736, verosimilmente l’anno successivo al suo completamento, dopo essere stata esposta in piazza S. Marco, dove «riscosse l’universale approvazione» (ibid.). Come è stato notato da Adriano Mariuz (1982), questo momento di svolta può essere messo in relazione con la conoscenza delle teorie newtoniane sulla luce, rese note a Venezia da Francesco Algarotti, per il quale Piazzetta incise l’antiporta del volume Newtonianismo per dame, stampato da Albrizzi nel 1737. A questa fase, caratterizzata da una luminosità diffusa e da tonalità più chiare ma pur sempre sobrie, appartengono opere della maturità del pittore, come la pala della chiesa veneziana di S. Maria del Rosario detta dei Gesuati, rappresentante i Ss. Vincenzo Ferreri, Giacinto e Ludovico Bertrando, realizzata per i domenicani tra il 1737 e il 1738, anno in cui risulta nella sua collocazione sull’altare (Niero, 1979).
Altro capolavoro della sua produzione religiosa, l’opera si caratterizza per il rigore di un meccanismo compositivo essenziale, che alterna vedute di profilo e frontali dei santi, ciascuno rappresentato secondo un diverso temperamento e un diverso atteggiamento mistico, orientando alla luce spiovente dall’alto forme plasticamente risentite e colori che vanno dal nero al bianco e al grigio tortora.
In corrispondenza della svolta luminosa, Piazzetta intensificò il suo impegno per l’illustrazione libraria, realizzando i disegni per le antiporte, le testatine e i finalini delle Oeuvres di Jacques-Benigne Bossuet che andò illustrando ancora una volta per Albrizzi (a partire dal 1736). Per la committenza privata, negli stessi anni in cui scoprì la tematica arcadica, si ricordano le opere per la raccolta di Alvise Contarini alla Madonna dell’Orto e la Rebecca al pozzo oggi a Brera, che sono la traduzione, nel genere del quadro da stanza, di questo nuovo stile aperto, luminoso, interpretazione ‘piazzettesca’ dello stile rococò.
Nel 1739 ricevette la commissione per una pala con la Madonna con il Bambino in gloria e i ss. Urbano, Gottardo, Filippo e Giacomo minore nella chiesa parrocchiale di Meduno, poi completata nel 1744 e posta in opera probabilmente l’anno successivo. Nella corrispondenza con il parroco, Piazzetta confermava anche l’imminente invio delle teste – probabilmente disegni – che aveva in lavorazione presso la sua bottega: «elle si va facendo, e a quest’ora ne sono lavorate quatro o sia cinque, ma, come non sono del tutto da me reviste e ritoccate forché questa che gli mando, così non ho locco [sic] spedirle per hora altro che questa sola» (Pallucchini, 1947, p. 112).
Questa indicazione è di estrema importanza, non solo perché ci conferma l’esistenza di una bottega diretta dal maestro, ma anche perché attesta la fortuna dei suoi disegni a carboncino e gessetto. Il fatto che l’artista confessasse apertamente l’abitudine di ricorrere all’impiego di allievi per la preparazione di questi fogli difficili talvolta da valutare nella loro autografia, giustifica l’esistenza di un corpus grafico molto vasto e di qualità talvolta assai varia. Tra i nuclei più consistenti si ricordano quelli delle Gallerie dell’Accademia, del Museo civico al Castello Sforzesco di Milano, delle collezioni reali inglesi a Windsor, dell’Art Intitute di Chicago (nucleo, quest’ultimo, appartenuto al maresciallo Schulenburg). Si tratta di disegni concepiti per essere appesi a parete, incorniciati e protetti da un vetro, non diversamente dai pastelli di Rosalba Carriera, e che rappresentano alcuni dei vertici della grafica del Settecento europeo. Altri nuclei importanti di disegni di Piazzetta sono quelli relativi agli studi per illustrazione libraria, spesso a matita rossa, tra i quali meritano un ricordo quelli della Biblioteca Reale di Torino, della Morgan Library di New York e dell’Ermitage di Pietroburgo (Knox, 1983).
A conferma dell’attitudine dell’artista al riutilizzo di schemi compositivi e invenzioni, va ricordata la realizzazione, in questi stessi anni (1739-44; Procacci, 1947), di una pala per la chiesa di S. Andrea a Cortona (oggi nella chiesa di S. Filippo), rappresentante La Madonna con il Bambino in gloria e i ss. Giuseppe, Giovanni Evangelista e Andrea, che ripropone la stessa soluzione adottata per la parrocchiale di Meduno.
Nel 1737 Piazzetta prese accordi con la Veneranda Arca di S. Antonio per realizzare la Decollazione di s. Giovanni Battista destinata al coro della basilica padovana, in sostituzione dell’opera di Domenico Clavarini (rappresentante la Predicazione di s. Giovanni Battista), giudicata inadeguata. Il primo acconto per il dipinto si data al maggio del 1741, ma esso non venne ultimato che nel 1744, e posto in opera l’anno successivo (Sartori, 1959-60). La pala, ricordata da tutte le fonti come uno dei capolavori della sua produzione, rappresenta un ottimo esempio dello stile drammatico e sintetico dell’ultimo decennio di attività del pittore.
A partire dal 1740 si possono datare alcune sue opere a carattere pastorale, nelle quali egli seppe conferire al genere un rilievo monumentale: la così detta Indovina delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e i due dipinti, già appartenuti alla raccolta del maresciallo von Schulenburg, e comunemente noti come la Pastorale (oggi Chicago, Art Institute) e la Passeggiata campestre (conosciuto anche come Idillio sulla spiaggia, oggi Colonia, Wallraf-Richartz-Museum). Per l’uno sono noti i pagamenti effettuati nel 1740, mentre probabilmente successivo al 1741 è il pendant, saldato nel 1745 (Binion, 1970).
Sebbene le due tele Schulenburg fossero ricordate nell’inventario della collezione semplicemente con delle descrizioni dei personaggi tratti dalla vita comune che ne sono protagonisti, tali opere hanno da sempre suscitato un grande interesse nei commentatori, convinti che in esse si celi un significato allegorico. Tra le interpretazioni più fortunate vanno ricordate quelle di Donald M. White e Albert C. Sewter (1959; 1960; 1961), che vollero interpretare questi soggetti come allegoria della città di Venezia (l’Indovina), a carattere religioso (sulla scorta dei testi del Bossuet, la Pastorale) o a sfondo sociale (la Passeggiata campestre). Identificazioni per lo più respinte da Rodolfo Pallucchini (1968), fedele a un’interpretazione alla lettera del realismo di quelle immagini. Più recentemente John E. Gedo (2005) ha proposto di riconoscere nei soggetti le allegorie delle Stagioni.
Piazzetta lavorò per il maresciallo von Schulenburg anche eseguendo perizie – le così dette fedi –, coinvolto nelle transazioni e negli acquisti del maresciallo a partire dal 1738. Nel 1741 compilò l’inventario completo della raccolta: opinioni che accompagnavano l’acquisizione dei dipinti ci rivelano le preferenze di gusto di Piazzetta stesso. Nella collezione, oltre ai dipinti ricordati, v’erano altri capolavori come il Giovane mendicante dell’Art Institute di Chicago, più una serie di disegni, almeno diciannove, rappresentanti teste di carattere a carboncino e a gessetto.
La collaborazione con gli incisori valse al pittore l’occasione di sfruttare la grande richiesta di originali, in special modo disegni di teste a carboncino, al quale egli non riusciva a fare fronte. Nel 1742 Marco Pitteri richiese il privilegio editoriale di una serie di quindici teste di Cristo, la Vergine, Dio Padre e gli Apostoli derivate da originali di Piazzetta (Gallo, 1941, p. 177), mentre nel 1743 Giambattista Pasquali diede alle stampe, su iniziativa del console inglese Joseph Smith, la serie Icones ad vivum expressae comprendente quindici teste al naturale disegnate dal maestro e incise da Giovanni Cattini.
Nel 1743 anche la committenza internazionale, per tramite di Francesco Algarotti, lo sollecitò sulla tematica storica. Si impegnò infatti a realizzare un dipinto per la galleria d’arte di Augusto III di Sassonia a Dresda, rappresentante Cesare giovinetto in una grotta dell’isola Farmacura nell’atto che gli conducono innanzi i corsari di Cilicia. L’opera non venne saldata prima del 1745.
Furono anni di grande lavoro per Piazzetta: al 1744 si deve datare egualmente l’Immacolata Concezione per la chiesa dei Cappuccini di Parma (ora Galleria nazionale) e la pala con l’Assunzione della Vergine per la chiesa di S. Giacomo a Zbraslav (nei pressi di Praga), che sarebbe stata eseguita per commissione di un nobile inglese a ricordo dell’ospitalità ottenuta dal convento durante un’inondazione (Ravà, 1921, pp. 33 s.). Al biennio 1745-46 risale invece l’Adorazione dei pastori (dipinto andato distrutto) per la chiesa di Schwarzach in Franconia.
Come si evince dall’Assunta del Louvre, a distanza di circa un decennio Piazzetta tornò a prediligere intonazioni e preparazioni cupe, e a questa linea sarebbe rimasto fedele per il resto della sua attività, cercando tuttavia di spingere all’estremo le potenzialità espressive di un’arte che puntava sempre più sull’essenzialità della composizione e sulla drammaticità di gesti ed espressioni, rinunciando al superfluo. Se per Pallucchini (in partic. si v. 1934 e 1956) questa fase sarebbe stata improntata a una generale stanchezza, con cedimenti verso un secco accademismo, più recentemente Adriano Mariuz (1982) l’ha riconosciuta come uno dei momenti più felici e ricchi di ispirazione. Va però osservato che si registra talvolta, specie nelle ultimissime prove, il ricorso alla bottega: elemento questo che può falsare il giudizio in merito alla qualità della produzione tarda di Piazzetta.
A partire dagli anni Quaranta Piazzetta rinnovò il suo impegno nell’ambito dell’illustrazione libraria, in particolar modo con la progettazione dell’apparato figurativo che accompagnava la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, pubblicata da Albrizzi nel 1745. In essa Piazzetta riprese la tematica pastorale affrontata a partire dalle testatine per le Oeuvres del Bossuet, sviluppandola con maggiore coerenza e unità di ispirazione, alternando grandi tavole con i principali episodi del poema a testatine, capilettera e finalini a carattere arcadico, con figure di soldati e pastorelli in riposo. L’opera, immediatamente riconosciuta come un capolavoro dell’editoria europea, fu preceduta da numerosi studi preparatori a matita rossa e relative controprove prima dell’incisione delle lastre (a opera di maestri come l’austriaco Martin Schedl o Carlo Orsolini): fogli che si conservano ora principalmente tra la Biblioteca reale di Torino e l’Ermitage di Pietroburgo.
Intorno alla metà degli anni Quaranta va datato il momento di maggiore contatto con l’Accademia dei Concordi di Rovigo, per la quale realizzò i ritratti commemorativi di Celio Rodigino e di Gaspare Campo, oltre a una tela rappresentante S. Gaetano, patrono dell’Accademia.
Tra il 1745 e il 1746 si registrano i pagamenti da parte di Chiara Pisani per l’Alessandro contempla il cadavere di Dario (oggi Venezia, Ca’ Rezzonico; Chiappini di Sorio, 1983, pp. 269 s.), capolavoro eccezionale nel panorama della cultura pittorica veneziana della metà del secolo: meditazione sull’universale destino di morte che accompagna vincitori e vinti, l’opera è la massima interpretazione che Piazzetta diede delle istanze sostenute da Francesco Algarotti sul tema dell’espressione degli affetti.
Degli stessi anni è il Muzio Scevola di Ca’ Barbaro a Venezia, per il salone del procuratore Almorò Barbaro, che manifesta un’analoga sensibilità, non solo in termini stilistici ma anche di espressione drammatica, giocata tra la risolutezza dell’eroe romano e il contegno di Porsenna.
Nel 1750 Piazzetta venne nominato direttore dell’Accademia di belle arti di Venezia (Longhi, 1762; Fogolari, 1913) e allo stesso anno spetta anche il Sacrificio di Ifigenia della Pinacoteca civica di Cesena, probabilmente appartenuto alle raccolte di Giambattista Albrizzi (Knox, 1981).
Le ultime opere realizzate da Piazzetta furono La Visitazione nella chiesa di S. Maria della Pietà a Venezia; il Martirio di s. Cristoforo di Alzano Lombardo; la pala della chiesa di S. Salvador con S. Nicolò vescovo, s. Leonardo e il beato Arcangelo Canetoli: tutte tele completate dagli allievi attivi nella sua bottega. Più in particolare, la pala della Pietà fu ultimata da Giuseppe Angeli, colui che in qualche modo prese in consegna l’eredità di Piazzetta, mentre la pala di S. Salvador fu ultimata da Domenico Maggiotto. Tra gli altri allievi del maestro, che ne proseguirono la lezione specie sul versante della pittura religiosa, vanno ricordati Francesco Capella, detto il Daggiù, Egidio dall’Oglio, Antonio Marinetti, detto il Chiozzotto.
Morì a Venezia il 29 aprile 1754, nella sua abitazione al ponte dei Saloni a S. Gregorio. Venne sepolto nella chiesa di S. Maria della Consolazione detta della Fava, nella tomba di famiglia di Giambattista Albrizzi.
Lo stato di indigenza in cui versò negli ultimi anni della sua esistenza è testimoniato dalle numerose suppliche della famiglia al doge veneziano per ottenere aiuti (Mariuz, 1982, p. 72). Come ultimo atto di stima e gratitudine Albrizzi diede alle stampe nel 1760 gli Studj di pittura, una sorta di manuale contenente l’illustrazione di disegni del maestro per la pratica del giovane allievo, incisi da Francesco Bartolozzi al tratto e da Marco Pitteri in chiaroscuro.
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