TEMPESTI, Giovanni Battista
– Nacque a Volterra il 9 agosto 1729 dal pittore Domenico, di Pisa, e da Maria Stefania Angeli, volterrana (Renzoni, 2012). Trasferitasi la famiglia a Pisa intorno al 1735, Giovanni Battista esordì collaborando con Domenico nell’esecuzione degli affreschi nel chiostro di S. Donnino, dove in una cappella eseguì una Vergine col Bambino e s. Francesco, di cui sopravvive solo il disegno, che tuttavia dimostra come, verso la fine degli anni Quaranta, egli guardasse al neoseicentismo dei fratelli Francesco e Giuseppe Melani, i più importanti pittori pisani del primo Settecento, alla cui scuola era stato posto dal padre. Intorno al 1747, morti i Melani, Tempesti iniziò a frequentare la bottega di Tommaso Tommasi, il quale, orientato verso la pittura fiorentina di Anton Domenico Gabbiani e di Vincenzo Meucci, ne completò la formazione.
Dopo aver realizzato, agli esordi degli anni Cinquanta, un ciclo di affreschi con episodi cristologici, perduto, nella chiesa pisana di S. Giovanni in Spazzavento, nel 1754 Tempesti eseguì due scene affrescate nella chiesa di S. Bernardo: Natività della Vergine, Annunciazione. Opere di calligrafica sostenutezza formale, da artista ancora alla ricerca di una propria lingua, le due scene si articolano in fraseggi di sapore teatrale, con franche aperture verso la pittura fiorentina d’inizio Settecento, forse dettate da Tommasi.
Nel 1756 Tempesti fu impegnato nella sala terrena del palazzo Alla giornata, dove Giovan Battista Lanfranchi Lanfreducci gli commissionò un breve ciclo composto nella volta dal Trionfo di Paride e, nelle due sovrapporte, dalle Allegorie della Pittura e della Poesia.
Sovvenzionato da un gruppo di nobili pisani, nell’aprile del 1757 Tempesti andò pensionato a Roma, presso l’Accademia di S. Luca, dove restò fino all’autunno del 1760 con l’esplicito compito di emanciparsi artisticamente al fine di poter poi fondare una scuola pittorica pisana. A Roma frequentò assiduamente la Scuola del nudo in Campidoglio, e si formò nella bottega di Placido Costanzi, pur non disdegnando interesse per Domenico Corvi e Marco Benefial (questi esplicitamente copiato) e naturalmente per Pompeo Batoni (di cui, alla morte di Costanzi, frequentò brevemente la bottega, pur senza mai diventarne allievo). A Roma si distinse anche per un’insospettata attenzione per il naturalismo caravaggesco (disegno della Deposizione nel sepolcro, in collezione privata: Renzoni, in Contributi alla pittura toscana del Settecento, 2014), ma soprattutto per il classicismo temperato di Benedetto Luti e per quello canonico di Raffaello, di cui copiò su tela il Concilio degli Dei della Farnesina. Grazie alle risorse di uno stile accorto e compassato, vinse in Accademia alcune medaglie.
A Roma collaborò con il pittore inglese Nathaniel Dance, assieme al quale eseguì un Ritratto dell’arpista Cristiano Giuseppe Lidarti dove egli stesso si raffigurò (1757; Yale Center for British art, Paul Mellon collection). Tale sodalizio è importante anche per spiegare la futura apertura dell’artista pisano verso il mercato inglese.
Tornato definitivamente a Pisa, Tempesti fece della sua nuova abitazione in via Tavoleria il caposaldo del rilancio della tradizione pittorica locale, ospitandovi una scuola di disegno. La rinnovata verve culturale ebbe come sigillo le volte di cinque stanze al piano nobile della sua abitazione, dove dipinse i Quattro Elementi e l’Allegoria della Pace, condotte in modo scolastico e talvolta sciapo, che potrebbero essere state realizzate su cartoni messi a punto prima del soggiorno romano, e con la collaborazione del padre.
Nel 1761 Tempesti conquistò finalmente il diritto a poter rivendicare la propria genealogia artistica, ottenendo di completare quel Martirio di s. Torpè iniziato a Roma da Costanzi e destinato all’interno della cattedrale pisana, ma rimasto incompiuto per la morte dell’artista (1759). L’intervento, che si concluse solo nel 1767, fu condotto diligentemente sulla base del modello redatto dall’artista romano, e Tempesti poté esibire un mimetismo stilistico accortamente accademico, che incontrò consensi in città.
A questo periodo risale la prima grande commissione pubblica, che, articolata in quattro vasti teleri, attraversò poi tutta la carriera dell’artista: dal 1761 al 1802. Si tratta delle tele con la Vita della beata Chiara Gambacorti destinate alle pareti laterali della chiesa di S. Domenico a Pisa, dove Tempesti, già a partire dalla prima – Chiara Gambacorti impedita di farsi monaca –, mostrò di saper rielaborare in modo originale quanto imparato nell’esperienza romana: una tensione narrativa sciolta in ritmi cadenzati e persuasivi, con cui si confrontò con il ciclo di S. Clemente, i bianchi intensi alla Pierre Subleyras, e un disciplinato ipercorrettismo nei particolari fisionomici caro al classicismo di Costanzi e Batoni.
L’orientamento classico di Tempesti trovò conferma nella Discesa dello Spirito Santo (1764), dipinta per l’omonima Compagnia (ora negli uffici dell’Opera del duomo di Pisa), tela composta e ipercorretta, che sarebbe poi piaciuta al pubblico di orientamento puristico.
Il classicismo non metodologico di Tempesti si prestava comunque a inflessioni popolari, con un senso per una solennità espressiva spesso abbreviata in mossette e sorrisi agrodolci. Fu così quando nel 1765 egli fornì il disegno per il gruppo scultoreo dei Putti per la fontana in piazza del duomo di Pisa, scolpiti da Giovanni Cybei, e siglati in un barocchetto accostante e scenografico.
Gli orientamenti stilistici di Giovanni Battista si arricchirono di altre esperienze che, anche se non divergenti, mostrarono come il presidio del classicismo romano s’integrasse volentieri a soluzioni diverse. Quando il veronese Giambettino Cignaroli fu a Pisa per dipingere in cattedrale (1766), Tempesti si misurò con certi suoi volti e teste di carattere, che rimeditavano sulla lezione di Pietro Rotari (e di Benedetto Luti). Se ne ricordò in una serie cospicua di teste (Pisa, palazzo Blu), che gli servì come galleria di espressioni e mimiche facciali utili al campionario di bottega: opere fatte spesso con la man rovescia. Un disegno di un Uomo con turbante (Christie’s, London 1986), indicato come realizzato dall’artista «bevendo il caffè», denuncia una perizia noncurante e sprezzata.
In quegli anni, non oltre il 1766, Tempesti s’iscrisse alla Colonia Alfea, serbatoio pisano dell’Arcadia, dove assunse il nome di Clinio Tessalideo. È affatto probabile che l’elegantissima Allegoria della Poesia (Pisa, Palazzo Reale) sia stata concepita nell’occasione come pièce de réception.
Durante il soggiorno romano, Giovanni Battista era entrato in contatto con la famiglia cortonese dei Venuti, e grazie a Benvenuto ottenne l’importante commissione del vasto telero (perduto) con la Conversione di s. Margherita da Cortona (1764), destinato all’omonimo santuario.
Un disegno passato sul mercato antiquario londinese ed erroneamente identificato come un’Agar e l’angelo documenta tuttavia quello che fu ‘il primo pensiero del quadro’, e l’ampia scollatura della santa ci restituisce tutto il senso delle polemiche che accolsero la tela finita, accusata di essere sconcia e immorale.
Alla fine degli anni Sessanta è da datare anche il Transito di s. Romualdo, già nella chiesa dei Ss. Ippolito e Lorenzo a Faenza, di cui sopravvive una riproduzione fotografica. Era un’opera di misurato e quasi dogmatico classicismo, improntato alla rilettura di quella cultura figurativa romana postmarattesca (con un’occhiata a Benefial e a Cristoforo Unterperger) che era stata il verbo condiviso con il vescovo di Faenza, Antonio Cantoni, a Roma negli stessi anni di Tempesti.
La cauta rilettura del classicismo marattesco si esasperò intorno al 1770 nell’Immacolata Concezione dell’oratorio di S. Gregorio a Pisa, stilisticamente vicina a una tela di analogo soggetto di Agostino Masucci, e nella coeva S. Marta che chiede la Resurrezione di Lazzaro (Pisa, S. Marta), con ricordi di Francesco Trevisani; mentre nella tela con i Ss. Crispino e Crispiniano (collezione privata; Renzoni, 2012), firmata e datata 1772, già sull’altare della cappella della villa di Giovanni Battista Lanfranchi Lanfreducci a Crespignano, la ripresa delle formule marattesche approdò a strutture di smaltata e statuaria solennità. L’opera piacque molto al committente, che negli anni successivi (1779-80) assegnò all’artista la decorazione di gran parte della propria villa.
Alla metà degli anni Settanta, Tempesti iniziò una lunga collaborazione con Francesco del Testa (grazie soprattutto alla moglie di questi, Giovanna Cataldi, poetessa dilettante e amante delle arti), e assieme al quadraturista Mattia Tarocchi dipinse il salone della villa Belvedere presso Crespina. Fu questa una permanenza scandita da numerosi lavori, come la decorazione ad affresco dell’oratorio annesso alla villa, con una serie di Santi a grisaglia (1780-84). Anche la canonica dell’oratorio, abitazione dell’abate Ranieri Tempesti, fratello del pittore, fu completamente affrescata da Giovanni Battista e allievi (1782-84).
Questa intensa attività di Tempesti fu resa possibile dall’ormai raggiunto riconoscimento pubblico del suo talento, documentato dal telero con La Messa di Eugenio III per il duomo di Pisa (1770-79), capodopera della sua produzione matura, perché capace di rielaborare in modo sostanzialmente personale un’organizzazione spaziale memore di Corrado Giaquinto, condotta con inasprimenti tonali prossimi al Corvi. La scena è rilegata con una sintassi solenne, che venne ripresa nel 1792 nel Giuramento del Consiglio Comunale di Pontremoli durante la peste del 1622 (Pontremoli, cattedrale).
In quegli anni Tempesti, con l’aiuto di Tarocchi per le quadrature, affrescò in patria numerose stanze di palazzo Silvatici, con uno spettacolare salone centrale che risentiva delle coeve sperimentazioni scenografiche fiorentine, e con ricordi delle sue esperienze romane, evidenti nel ciclo dei Fiumi, grato a Corvi.
Gran parte di questa impresa pisana deve datarsi entro il 1783, anno di morte di Tarocchi, e in prossimità devono datarsi anche due importanti soffitti affrescati nel palazzo arcivescovile pisano: S. Ranieri invocante su Pisa la protezione della Vergine (1782) nella cappella di S. Ranieri; S. Paolo brucia i libri pagani e La Fede e la Mansuetudine allontanano Minerva e precipitano la Vanità e l’Invidia (1782-83) nella sala dell’Udienza. Sono affreschi di grande impatto scenografico, ma il cui effetto fu almeno in parte diminuito dalla concettosa impaginazione, riflesso dell’azione pastorale dell’arcivescovo Angiolo Franceschi, impegnato nella lotta antigiansenista. Tale circostanza si ripeté nel 1786 nell’affresco La Divina Sapienza che illumina Pisa, nella sala delle lauree dello stesso palazzo, di più quieto classicismo e con evidenti prelievi da Costanzi.
A una data prossima agli anni Novanta, Tempesti, assieme al quadraturista Pasquale Cioffo, affrescò il vano scale di palazzo Franco, con un’Allegoria delle Arti corredata dal verso oraziano della «Aequa Potestas» delle arti medesime (motto, peraltro, dell’Accademia di Roma), allegoria che torna anche negli affreschi che, sempre assieme al Cioffo, Tempesti eseguì nel salone di palazzo Malaspina (1801).
Dalla fine degli anni Ottanta, il lavoro di prosciugamento formale condusse Tempesti a forme di temperato neoclassicismo, fino a permettergli di congedarsi parzialmente da quel barocchetto che ne aveva segnato la carriera. Il punto di svolta fu l’Allegoria delle Arti (1788) affrescata in una volta di palazzo Roncioni, dove si è voluta vedere la ripresa di moduli mengsiani.
L’adozione di un linguaggio neoclassico avvenne in occasione dell’affresco con l’Istituzione dell’Eucarestia (1793) per il duomo a Pisa, dove è possibile rintracciare un accostamento alla pittura dei francesi romanizzati, in particolare François-Hubert Drouais, ma anche Jean-Baptiste-Frédéric Desmarais, operoso in città.
A sigillo di una notorietà oramai toscana, nel 1795-97 Tempesti venne chiamato a Firenze per affrescare con quattro scene la sala della Musica a palazzo Pitti, dove la persistenza dei toni alabastrini e pastello cedette a una laconicità compositiva che poco aveva della leziosa definizione della prima produzione, e che manifestava perfino una ripresa della pittura cinquecentesca.
Morì a Pisa il 16 novembre 1804 (Renzoni, 2012).
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