VECCHIONE, Giovanni Battista
– Nacque a Pozzuoli il 14 febbraio 1757 da Nicola e da Lucrezia Migliarese Patrizi.
Fu battezzato Salvatore Giovan Battista Romualdo Valentino Francesco Ignazio Benedetto Maria Giuliano Aniello Raffaele. I Vecchione erano una famiglia della nobiltà togata originaria di Nola che nel corso del Seicento si trasferì a Pozzuoli ottenendo, nel 1744, l’aggregazione al Sedile dei nobili dell’antica città del Napoletano. I Migliarese appartenevano al patriziato puteolano dal XV secolo.
Vecchione si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Napoli. Esercitò la professione di avvocato, per poi essere nominato, nel 1797, giudice della Gran corte civile. La competenza con cui svolse l’incarico gli valse una serie di nomine ai vertici nell’amministrazione borbonica: governatore del Real Albergo dei poveri, consigliere del Sacro Regio Consiglio, vicedelegato dell’Amministrazione dei viveri e foraggi dell’esercito per le province di Terra di Lavoro, L’Aquila e Chieti e, subito dopo, direttore generale dell’Amministrazione dei viveri e foraggi dell’esercito in campagna.
Sposatosi con Maria Rosa Catalano, ebbe un figlio, Nicola, che nel 1817 si legò a sua volta in matrimonio con Nicoletta Muscettola dei principi di Leporano, famiglia dell’antico patriziato di Ravello.
Il 1799 segnò per Vecchione l’ingresso nella vita politica attiva. Sotto la Repubblica Napoletana iniziò a collaborare con il mondo reazionario legittimista, scelta che lo avrebbe condotto, da quel momento in poi e in maniera alterna, a cospirare per il ritorno dei Borbone e a occupare posizioni di rilievo nelle istituzioni ogni volta che la dinastia si reinsediò. Nel 1799, così, partecipò alla congiura filorealista dei fratelli Gerardo e Gennaro Baccher.
Il piano fu ordito dalla famiglia omonima al fine di far scoppiare una rivolta finalizzata a conquistare il forte di Castel Sant’Elmo e a liberarvi i napoletani che in gennaio avevano combattuto, soccombendo, contro i francesi.
Fu quindi arrestato. Dopo il 13 giugno 1799, con il ritorno sul trono di Ferdinando IV di Borbone, venne ricompensato ottenendo la nomina di presidente del tribunale dell’Ammiragliato, caporuota del tribunale di Commercio, in seguito di consultore della Curia del cappellano maggiore e delegato ordinario della Pubblica Istruzione. Nel 1806, con la seconda occupazione francese che sarebbe durata fino al 1814, il sovrano Giuseppe Bonaparte lo nominò in qualità di giureconsulto a far parte della giunta laico-ecclesiastica che si occupò di risolvere la disputa plurisecolare fra la diocesi di Pozzuoli e l’arcidiocesi di Napoli circa il possesso della chiesa di S. Maria Libera nos a Scandali sita in Quarto (Napoli). Di lì a poco si scoprì che Vecchione manteneva la corrispondenza con i Borbone esiliati in Sicilia. Nel tentativo di organizzare di concerto con la regina Maria Carolina una cospirazione volta a scacciare i francesi da Napoli, Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, lo aveva indicato nella lista dei possibili ministri dell’eventuale governo borbonico come una delle persone «più degne e autorevoli presso il trono» (Barra, 1981, p. 166). Vecchione fu quindi destituito dall’incarico, nuovamente arrestato, processato e questa volta condannato a morte. La pena gli fu commutata da Bonaparte nell’esilio, che Vecchione trascorse in Piemonte, affiliandosi all’Accademia dei Pastori della Dora (uno dei luoghi d’incontro degli intellettuali antifrancesi) con lo pseudonimo di Alcone. Nel 1811 Gioacchino Murat, succeduto a Giuseppe nel 1808, gli concesse la grazia.
Nel 1815, in seguito alla sconfitta definitiva di Napoleone Bonaparte a Waterloo e il ritorno sui troni degli Stati europei di gran parte delle dinastie spodestate, Ferdinando IV si reinsediò a Napoli e divenne il sovrano del Regno delle Due Sicilie, nel quale confluirono i territori del Regno di Napoli e la Sicilia, con il nome di Ferdinando I. Vecchione ritornò quindi alla ribalta come procuratore generale della Corte suprema di giustizia (15 giugno 1815), componente della Commissione temporanea consultiva nella parte deputata alla disciplina del clero (17 giugno 1815) e presidente della Gran Corte dei conti (16 marzo 1816). Fu tuttavia soltanto con il governo controrivoluzionario del 1821 che poté portare a compimento le proprie aspirazioni politiche.
Nel 1820 il Regno fu nuovamente agitato da una rivoluzione, sostenuta in massa dai ceti medi professionisti, dagli intellettuali e dai militari. Il moto portò all’adozione della costituzione spagnola di Cadice del 1812, ma, sulla scorta dell’accordo raggiunto dalle potenze europee nelle conferenze di Troppau e Lubiana, nel marzo del 1821 le truppe austriache avanzarono su Napoli spingendo alla revoca della costituzione. Il governo controrivoluzionario venne quindi composto il 24 marzo da uomini di fede legittimista, fra cui Tommaso Di Somma, marchese di Circello, presidente del governo e ministro degli Affari esteri. Vecchione vi ottenne l’incarico di direttore della Real Segreteria di Stato degli Affari interni e, nei primi mesi del 1822, di direttore della Real Segreteria di Stato di Grazia e Giustizia, insieme a quello di ministro della Polizia assunto dopo la destituzione del principe di Canosa.
La concentrazione di cariche gli consentì un massiccio intervento nell’ambito della prevenzione e repressione del crimine politico con un timbro personale: per un verso, la pedanteria nel disciplinamento dell’ordine pubblico da direttore degli Affari interni; per altro verso, l’intransigenza verso i reati politici abbinata a un atteggiamento pratico e razionale, volto ad alleggerire l’emergenza giudiziaria nella congiuntura repressiva, che invece lo caratterizzò da ministro di Grazia e Giustizia. Sono rilevanti, in tal senso, il decreto del 15 giugno 1821 con cui si obbligarono gli studenti universitari a frequentare le Congregazioni di Spirito nei giorni festivi pena il mancato ottenimento dei gradi dottorali, quanto il decreto del 22 marzo 1822 con cui si autorizzarono le corti criminali delle province continentali del Regno a effettuare sconti di pena ai condannati per reati comuni, eccetto coloro per i quali era stato previsto l’ergastolo o la pena di morte.
La sua parabola ministeriale volse al termine il 5 giugno 1822, quando il rimpasto di governo vide il ritorno a Napoli delle personalità del Decennio francese, e cioè di Donato Tommasi al ministero di Grazia e Giustizia e Luigi de’ Medici alle Finanze, insieme alla destituzione del principe di Canosa, dapprima da ministro della Polizia e poi da membro del Consiglio di Stato.
La destituzione di Vecchione fu dovuta alle pressioni esercitate dall’Austria affinché Ferdinando I imprimesse al Regno una svolta moderata. Si trattava di un passaggio che Metternich considerò incompatibile con la permanenza al potere di esponenti schiettamente reazionari. In segno di stima e di riconoscimento per la lunga fedeltà politica, Vecchione venne comunque ricompensato dai Borbone con una pensione equivalente allo stipendio percepito da direttore e l’assegnazione della gran croce del Real Ordine Costantiniano.
Con la revoca del mandato Vecchione si ritirò a vita privata nella dimora di Pozzuoli, dove morì colpito da un ictus cerebrale il 13 febbraio 1826.
Come osservò il principe di Canosa, suo amico e sodale dal 1799, a proposito della progettualità politica che lo accompagnò fino agli ultimi giorni, «egli sarebbe tra poco rientrato nel ministero, come si è conosciuto dalla ispezione delle sue carte dopo morto. Egli scrivendomi mi dava qualche lampo di ciò e di altre cose, nulla però mai mi spiegò precisamente, e ciò mi fa conoscere essersi obbligato forse a mantenere alto silenzio con tutti» (Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, a Giuseppe Caracciolo, principe di Torelli, 1° marzo 1826, in Maturi, 1944, p. 236). Nell’universo del legittimismo borbonico, quello di Vecchione fu un profilo di tipo teorico arricchito dalla lunga esperienza amministrativa e giurisdizionale: diverso, dunque, sia dal mobilitatore Canosa, sia da uomini con prevalenti capacità di governo quali il marchese di Circello o Marzio Mastrilli, marchese del Gallo. Prova della profondità intellettuale di Vecchione sono gli stralci di due opere rimaste inedite che egli inviò al re nel biennio 1814-15, custoditi presso l’Archivio di Stato di Napoli: le Memorie di Giovan Battista Vecchione a guisa di Giornale sugli affari politici di Napoli e dell’Europa, 1814-1815 (Archivio Borbone, b. 625) e i Discorsi pratico politici sopra la rivoluzione di Francia e quella di Napoli (ibid., b. 685). In particolare, per ciò che riguarda i Discorsi, essi furono pensati in tre volumi, che avrebbero dovuto ripercorrere le tappe delle due rivoluzioni e soffermarsi sulle politiche da adottare per disciplinare la società napoletana. Nelle parti rinvenute, il pensiero di Vecchione appare lontano dalla soluzione tipicamente reazionaria del ‘ritorno al passato’. Se vi è infatti, per un verso, la valorizzazione del ruolo dell’arcivescovo e dei parroci come strumenti dell’educazione diffusa ai principi dell’ordine sociale e politico tradizionale, per altro verso compare la cauta apertura all’amnistia verso i collaboratori del regime francese, insieme alla proposta di un’articolata riforma della polizia che, secondo l’autore, avrebbe dovuto ricorrere alla capacità di controllo sociale di figure non professionali.
Fonti e Bibl.: Pozzuoli, Archivio storico diocesano, Atti di nascita, ad nomen; Archivio di Stato di Napoli, Stato civile della Restaurazione (quartieri di Napoli), San Ferdinando, Morti (4 febbraio 1826-31 dicembre 1826), consultabile on-line sul portale antenati.net.
P. Panvini, Cenno biografico di G. V. insigne giureconsulto e letterato scritto dall’abate cav. Pasquale Panvini, Napoli 1826; B. Croce, Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher. Narrazione storica, Trani 1888, passim; W. Maturi, Il Concordato del 1818 tra la Santa Sede e le due Sicilie, Firenze 1929, pp. 36-43; R. Moscati, Il Regno delle Due Sicilie e l’Austria. Documenti dal marzo 1821 al novembre 1830, I, Napoli 1937, pp. 4-8; W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad ind.; R. Romeo, Momenti e problemi della Restaurazione nel Regno delle Due Sicilie, 1815-1820, in Rivista storica italiana, LXVII (1955), 3, pp. 367-417; F. Leoni, Storia della controrivoluzione in Italia (1789-1859), Napoli 1975, ad ind.; F. Barra, Cronache del brigantaggio meridionale 1806-1815, Salerno 1981, pp. 161-169; A.M. Rao, La Repubblica Napoletana del 1799, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso - R. Romeo, IV, 2, Roma 1986, pp. 469-539; L. Sansone Vagni, Una dimora filosofale in Pozzuoli del nobile puteolano G.B. V., Foggia 1994, pp. 31-40; E. Nappi - C. Francobandiera, L’albergo dei poveri. Documenti inediti XVIII-XX secolo, Napoli 2001, p. 129; F. Barra, Il decennio francese nel Regno di Napoli. Studi e ricerche, Salerno 2003, pp. 28 s.; C. Castellano, Il mestiere di giudice. Magistrati e sistema giuridico tra i francesi e i Borboni (1799-1848), Bologna 2004, pp. 186, 196; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, XV, 5, Torino 2007, ad ind.; F. Cutolo, Santa Maria Libera Nos a Scandali. Mille anni tra storia e fede, Quarto 2016, pp. 61-63.