BENTIVOGLIO, Giovanni
Nacque in Bologna il 15 febbr. 1443, unico figlio di Donnina di Lancellotto Visconti e di Annibale, il protagonista delle lunghe lotte in difesa della autonomia di Bologna contro il duca di Milano Filippo Maria Visconti, il pontefice Eugenio IV e Niccolò Piccinino.
Allorché il padre, il 24 giugno 1445, morì sotto il pugnale di B. Canetoli, in seguito ad una congiura ispirata dal duca di Milano, la fazione bentivogliesca, nella quale convergevano le più cospicue famiglie bolognesi interessate alla continuazione dell'opera autonomistica di Annibale - i Pepoli, i Malvezzi, i Fantuzzi, i Marescotti, i Castelli - dopo aver preso una spietata vendetta sulla fazione avversaria, riconobbe concordemente la necessità di attribuire il primato cittadino ad un consanguineo di Annibale, il quale nel nome, nei legami e nelle tradizioni familiari rappresentasse la continuità dell'equilibrio politico interno e della linea di difesa dell'indipendenza di Bologna di fronte al papato ed al duca di Milano di cui sino allora Annibale era stato l'autorevole e popolare esponente. Sembrava perciò che il figlio di Annibale fosse naturalmente designato alla successione politica del padre, ma poiché il B. aveva allora appena tre anni il problema era quello di affidare ad un suo congiunto l'esercizio del potere in rappresentanza, non giuridicamente stabilita, ma moralmente riconosciuta, del fanciullo.
Designato a tale funzione, dopo la rinunzia di Ludovico Bentivoglio, Sante, che era figlìo naturale di Ercole Bentivoglio, il B. venne educato sotto la sua tutela e cominciò giovanissimo a ricoprire le cariche pubbliche, preparandosi al fianco di Sante all'esercizio del potere: non ancora decenne, il 26 genn. 1452, fu creato cavaliere nella chiesa di S. Petronio dall'imperatore Federico III di passaggio per Bologna e nello stesso anno gli fu attribuito il grado senatorio, senza però il diritto di voto: questo gli venne riconosciuto al compimento del sedicesimo anno d'età, nel 1459, e da questo momento Giovanni esercitò più volte le funzioni di priore dei XVI Riformatori in sostituzione di Sante; i XVI gli concessero a più riprese, negli anni successivi, varie esenzioni da dazi e gabelle e numerose altre immunità e privilegi, tutti riconoscimenti del preminente ruolo politico al quale lo si destinava. Ancora nel 1459, durante il passaggio per Bologna del pontefice Pio II, diretto al congresso convocato a Mantova per stabilire una iniziativa comune dei principi italiani contro i Turchi, il B. fu eletto tra i Sei di Balìa incaricati di rendere omaggio al pontefice in nome della città. L'anno successivo egli figura insieme con Sante Bentivoglio in un documento imperiale, un diploma con il quale Federico III creava i due cavalieri bolognesi "Sacri Lateranensis palacii auleque nostre et imperialis consistorii comites" (F. De Bosdari, 1951-52, p. 185). Nel 1461 fu nominato capitano della porta di Strada Maggiore.
La cordialità dei rapporti tra Sante ed il B. ufficialmente non venne mai meno durante i diciotto anni di governo dei primo; tuttavia, quanto più il B. si avvicinava all'età adulta, tanto più doveva pesare su Sante l'ipoteca che il figlio di Annibale esercitava sul potere politico cittadino, e anche se Sante non mostrò mai l'intenzione di invalidare il patto con l'oligarchia senatoria su cui sin dall'inizio riposava il suo primato, non c'è dubbio che, a misura che egli veniva consolidando il suo potere ed avviandosi ad una effettiva signoria personale, la presenza del giovane cugino che condizionava ogni sua ambizione politica dovesse divenirgli sempre più incomoda.
Questo a maggior ragione da quando, nel 1459, dalle nozze di Sante con Ginevra Sforza nacque Ercole, al quale il B. precludeva ogni possibilità di assumere la successione politica del padre. Ma, se pure Sante pensò a sbarazzarsi del B., gli impedì qualunque mossa efficace l'attenta sorveglianza degli antichi partigiani di Annibale.
Forse la situazione avrebbe finito comunque per precipitare, anche perché era divenuto di dominio pubblico l'eccessiva dimestichezza tra il B. e Ginevra Sforza. Senonché nell'ottobre del 1463 la morte di Sante, dopo una breve malattia, provvidenzialmente impediva il riaprirsi delle contese faziose. Una morte, in verità, straordinariamente opportuna, che indurrebbe a qualche sospetto, anche perché assai prematura (Sante non era ancora quarantenne), se i contemporanei non l'avessero accolta senza la minima riserva, in un periodo in cui tanto frequentemente correvano le accuse di veneficio.
Il 10 novembre 1463 la fazione bentivogliesca eleggeva solennemente il B. alla carica di gonfaioniere di giustizia, affidandogli così esplicitamente la successione di Sante. Il matrimonio con Ginevra Sforza, seguito nel maggio del 1464, rinsaldava la sua posizione personale, giacché impediva, secondo quanto affermava l'apposita dispensa pontificia, che "inter comunes amicos ipsorum Ioliannis et Genevere graves dissensiones et scandala possent verisimiliter exariri" (ibid., p. 189), mentre, d'altra parte, guadagnava al nuovo signore di Bologna l'appoggio del duca di Milano Francesco Sforza, del quale Ginevra, figlia del signore di Pesaro Alessandro, era nipote. A quello del duca si aggiunsero subito altri importanti riconoscimenti: quello del pontefice Pio II e quello di Ferdinando I d'Aragona, re di Napoli, il quale sin dal 25 ott. 1463 scriveva al B. assai amichevolmente, esortandolo a continuare le buone relazioni politiche di Sante con le potenze italiane.
Sin dalla cerimonia pubblica in cui il primato cittadino era stato attribuito al B., l'oligarchia senatoria aveva ribadito la propria intenzione di esercitare attraverso lui un maggior peso nel governo cittadino, assicurando per bocca di Virgilio Malvezzi che "siccome con tanta fatica l'havevano nudrito et condotto a questo magistrato, non mancherebbono né anche nello avvenire aiutarlo et consigliarlo dove fosse il bisogno" (Ghirardacci, p. 181). La riforma delle istituzioni politiche della città, intrapresa dal B. sin dall'inizio del suo governo attraverso trattative con la corte romana, sostenute anche dal duca di Milano Francesco Sforza, che inviò come mediatore a Roma il figlio Tristano, corrispondeva alle due direttrici di fondo dell'oligarchia senatoria, quali si erano già andate delineando durante il governo di Sante: gli accordi con la Curia del 1466 stabilivano infatti, da una parte, una effettiva limitazione dei poteri del legato pontificio le cui iniziative politiche erano di fatto sottoposte all'approvazione dei Senato (decadeva talmente in questo modo l'autorità del legato che il cardinale Angelo Capranica a salvaguardia della propria dignità preferiva nel 1467 lasciare Bologna e farsi sostituire dal vice legato Giovanni d'Amelia); dall'altra affermava la dittatura delle grandi famiglie bolognesi confluenti nella fazione bentivogliesca, a danno degli antichi privilegi popolari, come simboleggiava chiaramente l'eliminazione del motto libertas dallo stemma del governo e dalle monete. Tale dittatura si rivestiva delle forme tipiche del dominio oligarchico del tempo, assumendo l'aspetto della signoria personale, sebbene il primato dei B. fosse in effetti assai più limitato che non quello dei Medici o degli Sforza: la magistratura dei XVI veniva largamente riformata, i suoi componenti - eletti a vita ed ereditariamente - portati a ventuno, dieci dei quali in esercizio per il primo semestre, gli altri dieci per il secondo ed il B., il ventunesimo, per l'intero anno. Al B. veniva anche attribuita la carica di gonfaloniere a vita. Secondo il Ghirardacci (p. 190) il pontefice Paolo II avrebbe volentieri riconosciuto questa supremazia del B. "per accendere invidia contro Giovanni, giudicando che gli altri senatori, sendo come lui nobili, non potrebbono sopportare questa cosa et che perciò fra di loro nascerebbe et invidia et discordia; il quale mezzo sarebbe poi al pontefice facile per acquistare il libero dominio della città". In effetti, sebbene taluno - come Virgilio Malvezzi - si sentisse personalmente sminuito di fronte al giovane capo della fazione, i poteri attribuiti al B. non erano di per sé tali da garantirgli la preponderanza assoluta ed in realtà per circa un ventennio il suo potere non fu se non l'espressione dell'equilibrio politico conseguito dai vari gruppi familiari dominanti a Bologna: soltanto nella fase finale del suo governo, quando tale equilibrio si era ormai sanguinosamente alterato, potè atteggiarsi ad autentico signore della città.
Proseguendo nella politica di Sante, il B. imperniò i suoi rapporti con gli stati italiani sull'alleanza con Milano e con i Medici. In occasione della congiura fiorentina di Luca Pitti e Angelo Acciaiuoli, nel 1466, egli sostenne Piero de' Medici, informandolo dei movimenti militari di Ercole d'Este, che sosteneva la fazione antimedicea, ed inviandogli un soccorso di 4.000 fanti e 1.500 cavalli: l'anno successivo il conflitto tra Milano e Venezia gli permetteva di inserirsi stabilmente nella rete di alleanze del duca, alla quale aderivano i Medici e Ferdinando d'Aragona, contro la politica espansionista della Repubblica e contro le principali signorie della regione romagnola, parteggianti per Venezia: Ferrara, Carpi, Mirandola, Faenza e Pesaro. Tuttavia, rispetto alla lega, il B. tenne a conservare una cauta indipendenza e nel gennaio del 1469, sceso in Italia l'imperatore Federico III, il quale non nascondeva le proprie simpatie per i Veneziani ed i Ferraresi, egli volle rendergli omaggio, ottenendone in compenso l'autorizzazione a fregiare il proprio stemma con l'aquila imperiale.
I legami del B. con Milano e Firenze si strinsero ulteriormente negli anni successivi ed è tipico della sua ambigua posizione di preminenza in Bologna il carattere personale degli accordi con quelle due corti, che formalmente non impegnavano la città: il B. entrava infatti il 10 marzo 1471 al servizio del duca di Milano, che gli attribuiva una provvisione annua di 7.000 ducati, giustificata dalla carica di capitano nell'esercito ducale e dal comando di 600 cavalli e 30 balestrieri, milizie queste che presero stabilmente stanza nel territorio bolognese; nel 1479 i Fiorentini lo legarono con un analogo impegno, assicurandogli una provvisione annua di 3.000 ducati in tempo di pace e del doppio in tempo di guerra.
Il B. confermò la propria fedeltà all'alleanza milanese anche dopo che a Galeazzo Maria Sforza, ucciso nella congiura del giorno di Natale del 1476, successe Gian Galeazzo II, su richiesta del quale intervenne nel dicembre dei 1477 a Faenza in sostegno di Galeotto Manfredi contro il fratello di lui, Carlo; analogamente strinse ancora di più i legami con Lorenzo de' Medici dopo la congiura dei Pazzi del 1478, così come del resto lo costringeva a fare la politica di Sisto IV Della Rovere, con il quale cominciava a delinearsi il disegno dell'eliminazione delle signorie dell'Italia centrale che per alcuni decenni caratterizzerà costantemente l'azione del papato.
Il B. pertanto aderì alla lega costituita dal Medici, da Ercole d'Este e da altri signori delle Romagne e delle Marche contro Sisto IV e contro il re di Napoli, cosa che attirò su di lui il 31 marzo 1479 una minaccia, di scomunica da parte del pontefice: e anche in questa occasione, e nelle lunghe trattative tra gli ambasciatori bolognesi e Sisto IV seguite a questa iniziativa, appare chiaro come il B. venisse ufficialmente considerato dalla Curia non più che un privato poiché le responsabilità di lui erano separate da quelle della città. In ogni caso le minacce del papa non impedirono al B. di mantenere i propri impegni militari con la lega, sebbene gli aiuti che egli inviò ai Fiorentini nell'ottobre del 1479 non gìungessero in tempo utile per partecipare alla battaglia di Colle Val d'Elsa, che confermò la sostanziale supremazia dei collegati.
La pace firmata tra i contendenti il 13 marzo 1480 (Bologna vi aderì separatamente due giorni dopo), confermando l'equilibrio stabilito nella pace di Lodi di ventisei anni prima e recuperando all'alleanza con Firenze e Milano gli Aragonesi di Napoli, non faceva però che riproporre in termini diversi il problema della autonomia delle signorie dell'Italia centrale: questa volta, oltre che contro il papa, anche contro Venezia. Lintervento della Repubblica nella contesa attribuì un ruolo ancora più importante nello schieramento dei collegati al B., stretto tra lo Stato pontificio e la pressione veneta sulle Romagne e su Ferrara.
Il B. intuì la gravità di una minaccia su due lati e non esitò, abbandonando l'abituale cautela, ad intervenire nel giugno del 1482, con l'appoggio dei Fiorentini e dei Milanesi, ma incontrando forti resistenze nel magistrato dei Riformatori, a sostegno di Ercole d'Este, fino a che l'11 genn. 1483 non si arrivò nuovamente ad un accordo.
La partecipazione dei B. alle guerre di questi anni ha un peso decisivo nell'avviare la sua posizione politica in Bologna verso la signoria personale: da una parte, infatti, egli aumenta considerevolmente il proprio prestigio per il ruolo di primo piano tra i contendenti che gli viene sia dal costituire una potente barriera tra lo Stato pontificio, i suoi alleati delle Romagne e Venezia, sia dal fatto che, intelligentemente assecondando l'opera diplomatica di Lorenzo de' Medici, finisce per assumere con lui, sebbene subordinatamente, la funzione di fulcro dell'equilibrio italiano; d'altra parte, egli comincia ad assumere una posizione straordinariamente rilevata tra i concittadini per gli importanti riconoscimenti ottenuti dai suoi potenti alleati: Gian Galeazzo Sforza e Ludovico il Moro al principio del 1480 gli fecero dono dei feudi di Covo, Antignano e Pizzighettone, donazione questa (alla quale più tardi, nel 1486, il duca di Milano aggiunse quella dei feudi di Monguzzo, San Nazzaro e Roncarolo) che secondo alcuni cronisti bolognesi aumentò a dismisura l'orgoglio di Giovanni e dei suoi figliuoli, inducendoli ad aspirare con più calore alla signoria incontrastata di Bologna; e non minore prestigio gli venne dal re di Napoli, il quale il 20 febbr. 1482 autorizzava lui ed i suoi discendenti a fregiarsi del cognome e delle armi di Aragona.
Soprattutto però le guerre modificarono i rapporti sino allora intercorsi tra il B. ed il magistrato dei Riformatori: sostanzialmente il primato riconosciuto al B. nella suprema magistratura bolognese non aveva espresso per il passato se non la sostanziale unità delle famiglie confluenti nella fazione bentivogliesca, concorde nelle linee generali sia della politica interna sia delle relazioni con gli stati italiani e specialmente con quello pontificio, informata, pur nella effettiva ricerca dell'autonomia, all'ossequio verso il papa, di diritto tuttora signore della città. L'atteggiamento del B., costantemente ostile a Sisto IV negli anni dal 1478 al 1483, determinò la prima frattura tra i maggiori esponenti politici bolognesi ed il gonfaloniere a vita; invano i Riformatori tentarono di frenare l'impegno dei B. a favore della lega, in nome di una politica più cauta e più coerente con le tradizioni della città: la doppia minaccia veneziana e pontificia indusse il B. a perseguire sino in fondo la politica dei suoi alleati fiorentini e milanesi, e, poiché non incontrava la solidarietà dei Riformatori, a fare a meno del loro consenso e quindi ad esautorare di fatto il legittimo governo cittadino.
L'accordo, durato circa un ventennio, tra l'oligarchia senatoria ed il B. era di fatto pregiudicato e l'insofferenza dei B. verso ogni limite costituzionale alla propria autorità minava ormai senza rimedio il vecchio equilibrio. D'ora in poi diventa facile leggere in ogni atto del governo del B. la preoccupazione di consolidare contro i notabili bolognesi la propria posizione personale, sia allargando le proprie relazioni con i potenti signori vicini, sia cercando una base popolare al proprio potere ed a quello della propria famiglia con ì prestigiosi espedienti del fasto e della beneficenza., secondo il magistrale, vicino modello di Lorenzo de' Medici.
Nella prima direzione il B. moltiplicò i legami di parentela con le più potenti famiglie della regione, gli Estensi, i Manfredi, i Malatesta, i Pio, i Rangoni, i Gonzaga, gli Sforza, i Riario. Nella seconda diede l'avvio ad una politica di splendido mecenatismo per la quale il Rinascimento fece la conquista anche di Bologna, ultima tra le grandi città italiane a perdere i propri connotati gotici, così come era tra le ultime a rinunziare alle tradizioni politiche dell'antico Comune per avviarsi al regime signorile. Le cronache bolognesi del tempo traboccano di relazioni di feste, tornei, partite di calcio e cacce di uno splendore senza precedenti nella vita cittadina. L'università sembrò riacquistare l'antico prestigio, mentre da Filippo Beroaldo ad Antonio Urceo, a Sabatino degli Arienti gli umanisti gareggiavano nelle lodi dei Bentivoglio, instancabili animatori, tra l'altro, dell'arte della stampa. La costruzione del palazzo della famiglia, che era stato iniziato da Sante, riceveva un decisivo impulso dal B., così come quella delle chiese di S. Giacomo e di S. Cecilia e le ville del territorio, il "Bentivoglio" di Budrio e quello di Ponte Poledrano. la favolosa "Domus iocunditatis", la "Viola", la "Giovannina", la "Foggianora", che si popolarono delle pitture dei Costa, del Cossa, del Francia. Più direttamente il B. sollecitò il favore popolare intervenendo munificamente in occasione di carestie, come nel 1482, allorché per l'opera di alcuni speculatori il prezzo del grano a Bologna aumentò smisuratamente: allora "per acquistarsi maggior benevolentia presso il popolo, ogni giorno di mercato mandava alla casa della biada cento et dugento corbe di grano alla metà di manco del prezzo che si vendeva; et per questa cagione ognuno del popolo, alzando le mani al cielo, benedicevano Iddio che gli havesse donato signore sì amorevole et pieno di carità et pregavarilo che per longo tempo glielo conservasse sano et felice..." (Ghirardacci, p. 227).
Così il B. poté esautorare di fatto, a proprio vantaggio, le antiche magistrature cittadine, riservando le cariche pubbliche a se stesso, ai propri figli e partigiani, anche al di là dei limiti fissati dalle leggi e consuetudini vigenti.
Se da Roma si guardava certamente con sospetto a questo processo che minacciava di sottrarre definitivamente Bologna all'autorità pontificia, non si volle tuttavia intervenire massicciamente contro il B. poiché il sistema di alleanze col quale egli si tutelava prometteva di allargare immediatamente la contesa; Sisto IV preferì piuttosto legarsi il potente magnate bolognese con l'abituale sistema della condotta militare, attribuendogli nel 1483 una provvisione annua di 5.000 ducati con il comando di 400 uomini d'arme, e riservandogli altri segni di considerazione, come l'elezione lo stesso anno del figlio di lui, Antongaleazzo, appena undicenne, alla carica di protonotario apostolico. Anche la Repubblica di Venezia preferì seguire con il B. la strada degli accordi e degli alti riconoscimenti come, al principio del 1488, la nomina a patrizio veneto con tutti i privilegi inerenti a tale qualità. Così il B. si assicurava nei confronti delle due potenze che più potevano irunacciare il suo Stato, mentre il vecchio alleato, il duca di Milano, gli confermava nel 1488 la propria fiducia creandolo governatore generale delle armi ducali.
Anche l'infelice episodio dell'uccisione di Galeotto Manfredi servi a confermare il notevole favore conseguito dal B. sia tra il popolo bolognese sia tra i signori italiani. Una figlia del B., Francesca, aveva sposato nel 1482 il signore di Faenza, dal quale aveva avuto un figlio, Astorre. La relazione di Galeotto con una dama ferrarese, Cassandra Pavoni, offese a tal punto Francesca Bentivoglio che la notte del 31maggio 1488 fece uccidere da alcuni sicari il marito, avendo in precedenza, a quanto afferma il Machiavelli (Istorie fiorentine, p. 572), "di questo suo pensiero fatto partecipe il padre, il quale sperava dopo che fusse morto il genero divenire signore di Faenza": probabilmente, però, questa non è che una illazione del segretario fiorentino, derivata dal corso successivo degli avvenimenti. Francesca, infatti, dopo l'uxoricidio, si rifugiò nella rocca di Faenza con il figlio e mandò ad informare il padre dell'accaduto. Il B. accorse a Faenza con le sue milizie e proclamò signore della città il piccolo Astorre; ma i Faentini videro nella presenza del signore di Bologna una minaccia alla propria libertà, insorsero in armi, uccisero alcuni Bolognesi al seguito del B. e presero lui stesso prigioniero, consegnandolo al commissario fiorentino Antonio Boscoli, al quale raccomandarono la città.
L'episodio in generale e la prigionia del B. in particolare suscitarono tra i contemporanei uno scalpore enorme. Ma proprio in queste sfavorevoli circostanze si poté vedere quanto consistente fosse la posizione del B.: mentre a Bologna il popolo insorgeva chiedendo che fosse vendicato l'affronto mettendo a ferro e a fuoco Faenza, e Ginevra Sforza poteva subito radunare 15.000 uomini a Castel Bolognese per irrompere nel territorio fiorentino e liberare il marito, il re di Napoli, il duca di Milano e quello di Ferrara chiedevano l'immediata liberazione del B. a Lorenzo de' Medici; il quale, per proprio conto, era tutt'altro che animato da cattive intenzioni nei riguardi dell'alleato, che costituiva un cardine essenziale del sistema politico orchestrato dal signore di Firenze: infatti, fattolo onoratamente condurre a Firenze, qui lo rnise in libertà il 9 giugno seguente insieme a Francesca, dando soddisfazione ai Faentini col trattenere sotto la propria tutela Astorre Manfredi.
La trasformazione del primato del B. in una signoria personale, anche se senipre nella forniale dipendenza della Santa Sede, ebbe il suo crisma definitivo con la repressione della congiura organizzata dai Malvezzi nel novembre del 1488, Ultimo, disperato sussulto di orgoglio di una famiglia che aveva svolto per lunghissimo tempo un ruolo eminente nella vita cittadina, alla quale in parte notevole lo stesso B. doveva la propria fortuna e che ora vedeva oscurato ogni proprio prestigio ed influenza politica dall'ascesa inarrestabile del nuovo signore.
Scoperto casualmente il complotto ed accusato pubblicamente dal B. in Senato, Giovanni Malvezzi replicò fieramente con gli stessi accenti che i tirannicidi facevano echeggiare in tutta Italia in questo scorcio dei secolo decimoquinto. In questa occasione il B. si dimostrò di una decisione e di una spietatezza imprevedibili in lui, uomo solitamente accomodante e pacifico. Soprattutto i suoi figli Annibale e Alessandro infuriarono in una caccia indiscriminata agli avversari, veri o presunti. Le numerose esecuzioni capitali con qualche parvenza di legalità furono ben poca cosa in confronto al massacro compiuto dai partigiani del B. contro i semplici sospetti. Gli alleati del B., il duca di Milano, Lorenzo de' Medici, il duca di Ferrara, si prodigarono in proteste di solidarietà e profferte di aiuto. Venezia, Napoli, Rimini, dove si erano inizialmente rifugiati i Malvezzi scampati al massacro, su richiesta del D. li espulsero o li imprigionarono.
Il pericolo corso dai Bentivoglio accelerò il processo di trasformazione politica già iniziato, sia perché il B. non tollerò più alcun limite al proprio potere e venne assumendo anche nelle manifestazioni esteriori gli atteggiamenti del "tiranno", sia perché l'oligarchia senatoria, spaventata dalla terribile sorte dei Malvezzi, non osò più opporglisi. A sancire il carattere ereditario della signoria, il 10 nov. 1489 il B. creò il primogenito Annibale gonfaloniere di giustizia, afflinché "riuscisse nel governo della repubblica huorno pratico" (Ghirardacci, p. 255). E, contemporaneamente iniziava, "con il parere degli astrologi" (ibid.), la costruzione di una torre imponente a simbolo del proprio potere e ad anirnonimento degli avversari.
Gli anni immediatamente successivi furono anni di pace all'intemo e all'esterno e rafforzarono la posizione dei B. in Bologna sino a permettergli poi di affrontare validamente la lunga crisi dell'ultimo scorcio del secolo e dei primi anni dei successivo. Sin dal luglio del 1488, nella dieta tenutasi a Parma con Gian Galeazzo Sforza, Lodovico il Moro, Ercole d'Este e Francesco Gonzaga, aveva rinnovato l'alleanza con il duca di Milano, bilanciandola al contempo con l'amicizia di Lorenzo de' Medici e poi dei figlio di lui, Piero; dall'imperatore Massimiliano d'asburgo ottenne un pieno riconoscimento della propria autorità in Bologna e il diritto di battere moneta; da Alessandro VI, nel 1492, la conferma dei privilegi ottenuti dai precedenti pontefici, mentre perduravano cordiali le sue relazioni con gli Aragonesi di Napoli.
Ma quale posizione di rilievo il B. avesse conseguito nella vita politica italiana si vide soprattutto allorché, nell'imminenza della spedizione di Carlo VIII, Bologna divenne centro di un serrato gioco diplomatico per guadagnare il B. ad una delle due parti contendenti. La sua forza militare, che era andata considerevolmente aumentando negli ultimi anni, la sua influenza sui signori della Romagna e soprattutto la posizione geografica del suo Stato, che sbarrava la via dalla Romagna al Regno di Napoli, preoccuparono infatti inegual misura da una parte il sovrano francese e Lodovico il Moro, dall'altra Alessandro VI, Piero de' Medici e Alfonso d'Aragona. Personalmente il B. era tutt'altro che consenziente con la spregiudicata politica del Moro, che, chiedendo l'intervento francese, spezzava defirùtivamente il tradizionale sistema dell'equilibrio italiano. Al Moro, infatti, scriveva "Considerate questa venuta dei Francesi in Italia, quello potrà portare di bene o di male" (Patrizi Sacchetti, p. 113) e giudicava "se dovesse cercare migliore occasione di vendicarse contro li adversari et tra nui italiani non dovere mischiare altra gente" (C. De Rosmini, Dell'istoria intorno alle militari imprese e alla vita di Gian Iacopo Trivulzio... libri XV, II, Milano 1815, p. 194). Ma a questo motivo generale si aggiungevano, ad impedirgli di aderire decisamente alla parte milanese, alla quale lo legavano i tradizionali impegni diplomatici e militari, i non meno tradizionali legarni con Firenze e col Regno di Napoli e quelli con la Santa Sede, particolarmente questi ultìmi non tanto per la ormai del tutto formale dipendenza di Bologna dal papato, quanto perché da Alessandro VI il B. si attendeva quello che considerava un definitivo attestato della propria qualità di principe, la concessione al figlio Antongaleazzo della dignità cardinalizia che mai la famiglia Bentivoglio aveva ottenuto, mentre l'avrebbe innalzata al medesimo prestigio degli Sforza, dei Medici e degli Estensi.
Perciò senza sosta gli inviati dei contendenti si susseguirono alla corte bolognese: per Carlo VIII Perron de' Baschi e poi i quattro oratori che il re aveva mandato successivamente a tutte le corti neutrali; per il Moro - il quale fece anche ricorso alla mediazione di Ercole d'Este - Francesco Tranchedino e l'arcivescovo di Milano Guidantonio Arcimboldi; per Alfonso d'Aragona. Iacopo Pontano e Luigi Gattola; per Piero de' Medici Antonio Dovizi da Bibbiena, fratello del cancelliere mediceo Piero e di Bernardo, e A. Alabandi., generale dei Servi: oltre a questi un nugolo di agenti ufficiosi, personaggi influenti o sconosciuti e, talvolta, innominati. Mano a mano che la situazione si svolgeva e più urgente diveniva, per una parte e per l'altra, una decisione del B., si moltiplicavano le promesse e le assicurazioni: Piero de' Medici impegnava tutta la sua influenza sul pontefice per indurlo a concedere il famoso cappello cardinalizio e, sempre per il protonotario Antongaleazzo, le abbazie di Colle Val d'Elsa; analoghe richieste faceva al papa Alfonso d'Aragona, e prometteva nel Regno una fortuna pari a quella che il B. avesse perduto nello Stato di Milano, Alessandro VI, per proprio conto, non attendeva che un esplicito impegno antifrancese del B. per concedere quanto gli si chiedeva, e anzi prometteva ad Antongaleazzo il vescovato di Bologna e la carica di legato pontificio nell'esercito aragonese del duca di Calabria; questo, poi, offriva al B. "mania et montes" (Picotti, p. 234); dall'altra parte Lodovico il Moro assicurava, anche lui, ma non si sa su quali basi, la concessione del cappello e per buon mercato aggiungeva l'impegno di rimettere in Faenza Francesca Bentivoglio, prometteva quante abbazie vacassero nel Milanese e finalmente - con il trasparente proposito di compromettere il B. nei confronti del papa - lasciava intendere che volentieri gli avrebbe ottenuto da Massimiliano d'Asburgo l'ufficio di vicario imperiale in Bologna.
A tutte queste offerte, a tutte queste pressioni, il B. non replicò mai con una netta negativa: tutti, anzi, andava lusingando ed assicurando, con un sapiente gioco che si condusse per mesi, nel quale sembrava che egli non desiderasse se non vendere il proprio appoggio al miglior offerente. Ma si trattava di ben più che di qualche abbazia nel ducato di Milano o nel Regno di Napoli, e neppure del cappello cardinalizio, come si vide chiaramente alla fine. Erano in gioco - ed il B. ne era ben consapevole - assai più sostanziali interessi, intrinsecamente connessi aRa stessa natura della signoria bentivogliesca in Bologna. Questa - priva di ogni giustificazione giuridica - riposava, più che sulla preponderanza dei Bentivoglio sulle altre famiglie magnatizie, più che sugli accordi diplomatici, sul favore popolare che soltanto una pace duratura poteva garantire. Che egli salvasse durante questa gravissima crisi la città dagli orrori e dai danni della guerra era quanto i Bolognesi si attendevano dal loro signore e per questo soltanto erano disposti - come per il passato - a consegnarglì tutto intero il potere politico e a rinunziare alle antiche libertà comunali.
Il B. avvertiva perfettamente che dietro le oscillanti simpatie dei Bolognesi per questo o quello schieramento dei contendenti non c'eraaltro se non il "suspecto de havere la furia de la guerra a casa loro et generarse la carestia" (Picotti, p. 226). Ed era sospetto ben giustificato poiché durante la campagna i due eserciti sfiorarono più volte il territorio bolognese e se non vi produssero quei danni che si temevano fu proprio perché su ciascuno dei capi pesò costantemente la preoccupazione di non decidere finalmente per l'opposta parte il B., al quale la neutralità non impediva di continuare ad armarsi e di moltiplicare le difese della città. E, finalmente, la politica del B. otteneva il risultato tanto laboriosamente cercato quando i due eserciti abbandonarono la Romagna. L'atteggiamento ambiguo mantenuto durante tutta la vicenda procurò naturalmente al B. i più sfavorevoli -giudizi delle due parti; e non è mancato tra gli storici chi - come la Ady e il Picotti - ha aspramente criticato la neutralità bolognese nella crisi che iniziava la decadenza italiana. Il Picotti rimproverava al B. una visione politica angustamente provinciale, "bolognese e non italiana", che avrebbe la sua "parte non leggiera nella terribile responsabilità di aver aperto agli stranieri così facile via alla conquista d'Italia" (p. 245). Certo non pare che si possa assennatamente deprecare che "la grande idea della Patria "non trovasse ancora ospitalità nella piccola corte di Bologna, né che il B. preferisse dirottare la minaccia francese dai vigneti del Reno ad altre "terre sacre d'Italia" (p. 246). A chi accetti di valutare la situazione dall'"egoistico" punto di vista del signore di Bologna non rimane che paragonare i risultati della sua politica con quelli ottenuti dal suo vicino, Piero de' Medici, per apprezzare adeguatamente un atteggiamento che del tutto a torto può essere valutato come inerte e passivo. Che il B. non perseguisse una posizione di neutralità a tutti i costi appare del resto chiaramente dalla sua partecipazione alla lega contro i Francesi seguita alla conquista di Napoli, che il 20 giugno del 1495 gli fruttò anche la concessione da parte di Lodovico Sforza del feudo di Gallarate.
In effetti, nel generale tracollo politico dei maggiori Stati italiani in occasione della troppo facile impresa di Carlo VIII, il B. fu tra i pochi che nulla persero del proprio prestigio. Egli poteva così parlare sprezzantemente a Piero de' Medici quando questi, scacciato da Firenze, si rifugiò a Bologna con i fratelli Giuliano e Giovanni: "mordacemente lo riprese che, in pregiudizio non solo proprio ma non meno per rispetto dell'esempio di tutti quegli che opprimevano la libertà delle loro patrie, avesse così vilmente e senza la morte di uno uomo solo abbandonata tanta grandezza" (Machiavelli, Istorie fiorentine, I, p. 88).A quanto riferisce il Nardi (I, p. 35), il B. avrebbe anzi soggiunto che "quando egli udisse dire di sé per alcun tempo che ei fusse discacciato di Bologna, non lo dovesse mica credere, ma più tosto, che fusse stato tagliato a pezzi, essendo così resoluto d'aspettare la morte nell'animo suo". E pure se è vero, come soggiunge il Nardi, che "anche al Bentivogli al tempo destinato successero le cose altrimenti che ei non si pensava", e che il Guicciardini ebbe in definitiva ragione di rinfacciargli di aver desiderato "in altrui quel vigore di animo il quale non rappresentò poi nelle sue avversità", al momento tuttavia egli poteva veramente ergersi di fronte a Piero come il modello del signore cittadino accorto e deciso.
La migliore testimonianza alprestigio ed alla forza del B. la diedero del resto nel 1496 la Repubblica di Venezia, Alessandro VI e Lodovico Sforza, i quali, "conoscendo essi di quanta importanza fosse l'havere a sua divotione Bologna" (Ghirardacci, p. 289), si prodigarono per reinserire il B. nell'equilibrio effimeramente ricomposto dopo la conclusione della troppa facile avventura di Carlo VIII e lo assoldarono collettivamente con un soldo di 30.000 ducati annui.
Ma l'alleanza nuovamente stretta con il B. non valse al Moro ad otteneme l'aiuto quando fu aggredito più di quanto non gli fosse valsa quando era aggressore: iniziata infatti da Luigi XII la conquista del ducato, il B., dopo un primo invio di soccorsi al comando del figlio Alessandro, si guardò bene dal continuare a sostenerlo quando le cose volsero al peggio. Insediato Luigi XII a Milano, il B. sperò di poter stringere con il nuovo signore del ducato i rapporti politici che lo avevano in passato legato agli Sforza, traendo tutto il vantaggio possibile, cioè, dalla necessità, tradizionale nella politica milanese, di spingersi verso la Romagna. Questa volta però la situazione era profondamente mutata, per l'intervento del nuovo elemento dinamico costituito dalle vaste ambizioni politiche di Cesare Borgia. E questa. volta il B., se volle essere garantito contro le mire pontificie su Bologna dal signore di Milano, dovette rassegnarsi a pagare un pesante tributo di 40.000 ducati, egli che sino allora da Milano era stato sempre stipendiato. Fu questo il primo minaccioso segno della decadenza, anche agli occhi dei Bolognesi, che assai faticosamente si rassegnarono a pagare il pesante tributo. Del resto la protezione di Luigi XII non era una garanzia assoluta: per quattro anni il B. e la sua città vissero sotto l'incubo delle imprevedibili iniziative del Valentino di cui non era impenetrabile il proposito di fare di Bologna la capitale del suo ducato delle Romagne. E mentre intomo a Bologna i Varano, gli Sforza, i Manfredi, i Montefeltro, i Malatesta cadevano uno per uno sotto i colpi del figlio di Alessandro VI, il B. faceva appello a tutte le sue risorse finanziarie e diplomatiche, a tutta la sua popolarità tra i Bolognesi, e più al loro timore di cadere nelle mani del Borgia. per sottrarsi ad un destino che sembrava inevitabile: nell'autunno del 1501 sacrificò ad un assai dubbio tentativo di alleanza col Valentino lo stato e la vita del giovane nipote Astorre Manfredi; quando il Borgia prese di sorpresa Castel Bolognese e minacciò da vicino la città, riuscì a far leva sull'orgoglio dei Bolognesi armando il popolo intero e, accoppiando la minaccia di una resistenza ad oltranza all'offerta di un pesante tributo, poté allontanare l'avversario; con la feroce strage dei Marescotti - i cui segreti contatti con il Valentino erano stati perfidamente rivelati al B. dallo stesso duca - si liberò di ogni minaccia interna; promosse la rivolta dei condottieri del Borgìa contro di lui, inviando il figlio Ermes al convegno della Magione con Vitellozzo Vitelli, Giampaolo Baglioni, gli Orsini e gli altri ribelli, ma determinò poi il fallimento dell'alleanza quando poté ottenere dal Valentino un accordo separato; giuntogli da Alessandro VI l'invito di recarsi a Roma con i figli per trattare una pacificazione definitiva, seppe leggere come si doveva nell'animo del pontefice; non cedette insomma né alla forza né ai raggiri e alla fine di quella gara mortale di perfidie, quando l'improvvisa fine di Alessandro VI concluse anche la breve avventura del Valentino, il signore di Bologna appariva ancora una volta vincitore.
In realtà si trattava di un momentaneo successo. La posizione del B. nella sua città si era notevolmente indebolita, in conseguenza del regime di sopraffazioni e di violenze che, durante la crisi, più che il B. i figli di lui avevano imposto. L'eccidio dei Marescotti, una famiglia tra le più illustri della città, tradizionalmente amica deì Bentivoglio verso i quali sin dai tempi di Annibale poteva vantare grandi benemerenze, era stato assai sfavorevolmente accolto dalla cittadinanza, tanto più che le prove fornite contro di loro dal Valentino erano tutt'altro che inoppugnabili. Era inevitabile che in conseguenza di ciò sì diffondesse tra i Bolognesi un forte senso di insicurezza, il che era il peggio che ad un regime come quello del B. potesse capitare. Lo stesso B., del resto, capì subito quali negative conseguenze potessero derivare dalla strage che a sua insaputa era stata organizzata dal figlio Ermes. Non ebbe però la forza di prendere un provvedimento rigoroso contro gli assassinì e fu costretto ad assumersi la responsabilità politica dell'accaduto. Altri tristi avvenimenti, in parte conseguenza della guerra, funestarono negli anni successivila vita bolognese: una gravissima carestia, la peste, il "mal mazucco", un terremoto che danneggiò in più parti la città. Soprattutto però era la posizione finanziaria delB. che si era indebolita, minando la sua stessa posizione politica.
Le fortune politiche dei Bentivoglio erano andate crescendo parallelamente all'accumulazione di un ingente patrimonio familiare, realizzato vincolando sempre più strettamente alla persona dei signore, da Annibale a Giovanni, la finanza cittadina. Il fondamento primo della fortuna dei B. era stata infatti la concessione da parte dei Comune, nel 1443, ad Annibale Bentivoglio, per premiarlo di aver liberato la città dal Piccinino, del dazio delle "carteselle", un'imposta del 5 per cento su tutti i contratti di compra e vendita e sulle doti matrimoniali; Annibale aveva ottenuto tale concessione per cinque anni; essa era poi stata rinnovata a tempo determinato a Sante ed a Giovanni, fino a che Innocenzo VIII l'aveva attribuita a quest'ultimo a vita, con diritto di trasmetterla nella stessa forma al suo primogenito. Altre forme di partecipazione personale del B. alla finanza cittadina, in particolare alla tassa "degli Ebrei" ed al contratto di fornitura dei sale alla Repubblica di Venezia, facevano ascendere sul finire della sua signoria tale partecipazione a circa un quarto del capitale della tesoreria cittadina. Per fare fronte alle spese eccezionali del periodo della resistenza ai Borgia, il B. era stato costretto ad impegnare tutta la propria influenza finanziaria: quando il pericolo costituito dal Valentino finalmente cessò, il B. aveva perduto completamente la propria quota di partecipazione alla amministrazione finanziaria della città ed il patriziato cittadino poteva guardare a lui come ad un signore di fatto esautorato.
Ma probabilmente queste condizioni soggettive di debolezza non sarebbero state sufficienti a determinare la fine, a breve scadenza, della signoria del Bentivoglio. Questa va soprattutto valutata nel quadro di un processo nel quale il risentimento di una frazione sempre più larga della cittadinanza verso i figli dissoluti e prepotenti di Giovanni, le pressioni dei fuorusciti Malvezzi e Marescotti sul nuovo pontefice e la stessa animosità di Giulio II verso il B., colpevole, a quanto pare, di aver tramato col Valentino ai danni del cardinale di S. Pietro in Vìncoli, esercitano un ruolo del tutto subordinato, meramente occasionale. In realtà la sopravvivenza di Bologna come città politicamente autonoma era chiaramente incongruente all'evoluzione dello Stato pontificio propugnata dai Borgía ed energicamente riproposta da Giulio II; il B. a torto aveva potuto credersi vincitore del Valentino: tre anni dopo cadeva vittima di quello stesso programma di elimìnazione delle signorie particolari dell'Italia centrale e di riorganizzazione dello Stato della Chiesa che era stato del duca di Romagna.
Di fronte a questo programma Bologna non poteva ormai contare più sull'appoggio dei duchi di Milano che sino allora era stato in definitiva la sua principale difesa contro le pretese dei pontefici di ristabilirvi la propria autorità: con i Francesi a Milano l'antico equilibrio italiano che rifiutava una forte presenza ecclesiastica nella valle padana si era profondamente alterato, a vantaggio di una visione politica ormai più ampia, che inseriva in una dimensione europea i rapporti tra i nuovi signori del ducato e la Santa Sede. Questa nuova situazione era chiaramente presente a Giulio II sin dal momento della sua ascesa al pontificato: di qui l'estrema decisione con cui egli affrontò il problema della sottomissione di Bologna. Egli comprendeva che al dominio della città era legata ogni possibilità di effettiva ricomposizione dello Stato della Chiesa nelle Romagne: l'aiuto dato dal B., dopo la morte di Alessandro VI, ai Riario, ai Manfredi, ai Malatesta perché recuperassero le loro antiche signorie lo dimostrava ampiamente. E la forte presenza dello Stato ecclesiastico nella valle padana era essenziale, il Della Rovere lo vedeva bene, al ruolo significativo che doveva svolgere di fronte alle grandi potenze europee.
Occorsero a Giulio II tre anni di preparazione prima di dare inizio all'impresa contro Bologna: tre anni durante i quali egli affermò decisamente in Roma il proprio potere contro le fazioni dei Colonna e degli Orsini e contro i cardinali, ma soprattutto condusse le trattative con Luigi XII e con la Repubblica di Venezia per impedire che frapponessero ostacoli al suo progetto. Incontrò dall'una e dall'altra parte forti resistenze che furono solo parzialmente vinte con la concessione di vari privilegi ecclesiastici: in realtà, tanto la Repubblica che il re cercarono di dissuadere il papa e ritardarono in ogni modo la stipulazione di un accordo. Ma il pontefice pose fine ad ogni tergiversazione con una decisione che piacque molto al Machiavelli e nell'agosto del 1506 aprì le ostilità contro il B., affermando nel concistoro del 17 di quel mese di voler marciare su Bologna per liberare la città "a iugo Bentivolorum" (Patrizi Sacchetti, p. 121).
Il B., che aveva da tempo intuito la minaccia, si lasciò tuttavia sviare al principio dell'anno dai favorevoli pronostici degli astrologi, respingendo le previsioni di "gran iattura" di uno solo di loro, Luca di Gaurico, contro il quale "disdegnatosi Giovanni, il fece pigliare et darli tre squassi di corda, et poi il diede nelle mani dell'inquisitore di San Domenico per invocatore de' demoni et heretico et rinnegatore di Cristo; et veramente egli meritò di questo, perché egli voleva predire le cose altrui et non sapeva le sue" (Ghirardacci, p. 342).
Quando il B. ebbe notizia delle intenzioni del pontefice corse ai ripari radunando milizie e inviando ambasciatori al papa, al re di Francia ed a Venezia. Le trattative col papa non ebbero risultati perché il B., così come aveva fatto con Alessandro VI, rifiutò di recarsi a Roma, dove Giulio voleva che egli si giustificasse delle accuse dei fuorusciti. L'erronea convinzione, poi, che il re di Francia non potesse permettere l'insediamento del papa a Bologna lo indusse a rifiutare ogni altro possibile compromesso. Ma l'irruenza di Giulio II aveva messo Luigi XII e Venezia di fronte al fatto compiuto e mentre la Repubblica, per non peggiorare i rapporti col papa, si asteneva da ogni intervento, il re francese addirittura aderiva alla richiesta del pontefice di aiutare militarmente la spedizione, inviando un esercito al comando dello Chaumont. Il B. rimaneva così solo di fronte al pericolo, mentre Giulio II, dopo aver sottomesso Perugia, marciava su Bologna e, giunto a Forlì, il 10 ottobre emanava una bolla contro i Bentivoglio, dichiarandoli ribelli e ponendo una taglia di 12.000 ducati su Giovanni, se consegnato vivo, e di 6.000, se morto, e rispettivamente della metà per ciascuno dei figli di lui; contro Bologna il papa minacciava l'interdetto, e la scomunica a coloro che avessero aiutato i Bentivoglio: provvedimenti questi ultimi presi poi effettivamente nove giorni dopo, alla data imposta dal papa ai Bolognesi per consegnargli la città.
I Bolognesi non rimasero indifferenti alle minacce papali e se non osarono prendere alcuna iniziativa contro i Bentivoglio, questi non poterono però trovare nella cittadinanza la solidarietà che si aspettavano. Gli ultimi giorni del B. a Bologna furono di dubbi angosciosi, di volta in volta di scoraggiamento e di improvvisi ritorni di orgoglio. Da quell'esperto politico che era, il B. vedeva bene che la partita era perduta, stretta come era ormai la città tra i pontifici ed i Francesi dello Chaumont: perciò, dopo un segreto accordo con il marchese di Mantova, luogotenente generale dell'esercito ecclesiastico, cominciò a far uscire dalla città nottetempo alcuni familiari con i tesori della famiglia; d'altra parte Ginevra Sforza ed i figli, speciàlmente Ermes, lo spingevano ad una resistenza ad oltranza e certamente egli stesso non aveva dimenticato la promessa fatta a Piero de' Medici: perciò continuava a raccoglìere quante più truppe poteva e ad esse prometteva solennemente di non abbandonare la città. Quando però perse anche le ultime speranze di poter ottenere la protezione dello Chaumont si rassegnò all'inevitabile, accettando l'ultima offerta del papa, di uscire dalla città con tutti i suoi familiari, stabilendosi fuori dello Stato della Chiesa e conservando a questo patto tutti i propri beni.
Così, nella notte tra il 1° ed il 2 nov. 1506, il B. abbandonava definitivaniente Bologna, avviandosi verso la Lombardia. Non aveva perduto, forse, la speranza di ritornare a Bologna, sia pure da semplice privato: infatti qualche mese dopo mandava un ambasciatore a Giulio II, chiedendo di esservi riammesso ed impegnandosi in cambio ad "ogni ubbidienza e sodisfatione" (Ghirardacci, p. 362). Ma l'inviato non ottenne per risposta dal papa che un sorriso sprezzante. Meno del B. tolleravano l'esilio Ginevra Sforza ed i figli: la moglie lo esortava, uscito il papa da Bologna e scioltosi l'esercito ecclesiastico, a fare un tentativo per ritornare, ma egli non volle assumersi il rischio senza il consenso diLuigi XII ed al re, che si trovava a Genova, inviò da Milano il figlio Alessandro per chiedere l'assenso francese all'impresa. Ad Alessandro Luigi rispose ambiguamente e parve al figlio di Giovanni una velata esortazione all'audacia. Così Alessandro poteva assicurare i fratelli Annibale, Ermes e Antongaleazzo, e questi, radunando un piccolo esercito nei feudi delle famiglie amiche dei Pio e dei Rangoni, nel maggio del 1507 marciarono su Bologna. Affrontati però a Casalecchio da un esercito pontificio furono sconfitti: in conseguenza di questo fallito tentativo Ercole Marescotti in Bologna conduceva la plebe a distruggere completamente il palazzo Bentivoglio; e a Milano il governatore francese, su richiesta di Giulio II, imprigionava Giovanni. Qualche giorno dopo il B., riconosciuto innocente, venne liberato; invitato da Luigi XII a recarsi in Francia per giustificarsi completamente, inviò il figlio Alessandro, adducendo a sua scusa una malattia. Questa in effetti ne provocava la morte di lì a poco, nel febbraio dei 1508.
Il Guicciardini nella Storia d'Italia (II, p. 233) commentava la morte del B. con un giudizio su di lui che appare eccessivamente duro, ma nel quale probabibnente consentirono largamente i contemporanei: "... Era in quegli dì morto Giovanni per dolore di animo, non assueto, innanzi fusse cacciato di Bologna, a sentire l'acerbità della fortuna, essendo stato prima, lungo tempo, felicissimo di tutti i tiranni d'Italia ed esempio di prospera fortuna; perché in spazio di quaranta anni ne' quali dominò ad arbitrio suo Bologna (nel qual tempo, non che altro, non sentì mai morte di alcuno de' suoi) aveva sempre avuto, per sé e per i figlioli, condotte provisioni e grandissimi onori da tutti i principi d'Italia, e liberatosi sempre con grandissima felicità da tutte le cose che se gli erano dimostrate pericolose: della quale felicità pareva che principalmente fusse debitore alla fortuna, oltre alla opportunità dei sito di quella città, perché secondo il giudizio comune non gli era attribuita laude né d'ingegno né di prudenza né di valore eccellente".
Fonti e Bibl.: C. Ghirardacci, Della historia di Bologna Parte terza, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXXIII, 1, a cura di A. Sorbelli, passim; S. De' Conti, Le storia de' suoi tempi…,II, Roma 1883, passim; P. De Grassi, Le due spediz. militari di Giulio II, a cura di L. Frati, I, Bologna 1886, passim; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, Firenze 1888, passim; F. Guicciardini, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931, passim;Id., Storia d'Italia, a cura di G. Panigada, Bari 1929, passim; N. Machiavelli, Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di S. Bertelli, Milano 1960, pp. 22, 77, 100, 499; Id., Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, pp. 177, 229; Id., Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 21, 41, 143, 160, 161; Id., Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano 1962, pp. 570, 572, 573; l'unica monografia d'insieme sul B. è quella, invecchiatissima, di G. Gozzadini, Memorie per la vita di G. II Bentivoglio, Bologna 1839; di una biografia che era stata annunziata da G. De Bosdari, con il titolo G. II B., signore di Bologna, sono stati pubblicati i primi due capitoli, con il titolo I primordi della signoria di G. II B. a Bologna (1463-1477), in Atti e Mem. d. Deputaz. distoria patria per le prov. di Romagna, n.s., III (1951-1952), pp. 181-203; dello stesso v. anche Relazioni. tra Bologna e Firenze dal 1478 al 1482, ibid., XXII (1932), pp. 113-163; sulla storia della famiglia, C. M. Ady, The Bentivoglio of Bologna. A study in despotism, London 1937, passim (della stessa v. anche Francesco Puteolano, maestro dei figlioli di G. II B., in L'Archiginnasio, XXX [1935], pp. 156-159); sui rapporti tra il B. e la finanza del Comune di Bologna, G. Orlandelli, Note di storia economica e sulla signoria dei Bentivoglio, in Atti e Mem. d. Deputaz..di storia patria per le prov. di Romagna, n.s., III (1951-1952), pp. 295 ss.; sull'atteggiamento del B. nei confronti di Carlo VIII, G. B. Picotti, La neutralità bolognese nella discesa di Carlo VIII, ibid., IX (1919), pp. 165-246; sui rapporti tra il B. e la Santa Sede, L. von Pastor, Storia dei Papi, II, Roma 1925, pp. 547, 563; III, ibid. 1925, passim; IV, ibid. 1929, passim;in particolare sui rapporti con Giulio II, E. Rodocanachi, Historie de Rome. Le pontificat de Jules II (1503-1513), Paris 1928, passim;R. Patrizi Sacchetti, La caduta dei Bentivoglio e il ritorno di Bologna al dominio della chiesa, in Atti e Mem. d. Deputaz. di storia patriaper le prov. di Romagna, n.s., II (1950-1951). pp. 109-156.