BENTIVOGLIO, Giovanni
Figlio di Antoniolo e fratello di quel Salvuzzo che fu a capo della rivolta dei Raspanti nel 1376, il B. nacque a Bologna poco dopo la metà del sec. XIV, quasi sicuramente nel 1358. Della sua vita, fin verso la fine del secolo, si sa soltanto che fu gonfaloniere nel 1382 e nel 1392, che nel 1397 fu degli Anziani (da ciò appare come egli si fosse assai presto messo in vista nelle competizioni cittadine), e che, con i suoi due successivi matrimoni, il primo con Elisabetta di Cino da Castel San Pietro (da cui ebbe tre figli: Ercole, Antongaleazzo e Giovanna), il secondo con Margherita Guidotti, si era imparentato con due influenti famiglie della nobiltà della cui alleanza successivamente egli si valse.
Di ingegno sottile e di carattere risoluto, era solito affrontare con decisione le difficoltà che incontrava, riuscendo quasi sempre nei suoi intenti, e, poiché era fornito di notevoli doti oratorie, era ascoltato e seguito nelle discussioni delle assemblee e dei consigli. La sua personalità tuttavia cominciò a influire in maniera veramente decisiva nella vita politica di Bologna soltantonegli ultimi anni del secolo.
Membro del collegio dei Dieci della Pace dal genn. 1399, il B., verso la fine di febbraio, fu incaricato dallo stesso collegio di risolvere una questione riguardante la terra di San Pietro. Assolto questo incarico, il B., che allora poteva già contare su di un considerevole seguito fra i suoi concittadini, nella notte tra il 10 e l'11 marzo 1399 tentò, insieme con Nanne Gozzadini, d'impadronirsi di una delle porte della città per farvi entrare le truppe di Giovanni da Barbiano e abbattere la signoria di Carlo Zambeccari. L'impresa fallì per il mancato intervento del Barbiano, e il B., scoperto, fu costretto ad andare in esilio insieme col Gozzadini e con gli altri congiurati; i suoi beni vennero confiscati.
Tuttavia il B., per nulla scoraggiato, dal suo esilio a Zara manovrò per tornare in patria. Difatti, morto il 13 ott. 1399 Carlo Zambeccari, colpito dalla peste che infieriva in quel periodo anche a Bologna, una rivolta popolare, scoppiata poco dopo, il 27 ottobre, instaurò nella città un governo delle Arti con alla testa Ugolino Scappi, il quale il 17novembre decise il richiamo dei fuorusciti; tra questi si trovavano anche il Gozzadini e il Bentivoglio.
Tornato a Bologna nel mese di dicembre, il B. fece subito un secondo tentativo per impadronirsi del potere: profittando di una nuova sommossa popolare, egli riuscì col Gozzadini a cacciare dalla città la fazione dei Maltraversi, fino allora dominante (2dic. 1399). Nella magistratura dei XVI Riformatori, che venne creata all'inizio del nuovo anno, il B. e il Gozzadini furono i membri più influenti. Tuttavia il loro accordo si rivelò fragile e di non lunga durata.
Il B., che per indole mal si adattava a dividere il potere col Gozzadini, timido e irresoluto di carattere, si venne a trovare spesso in disaccordo col suo alleato anche per contrastanti interessi personali. Motivi ben più gravi di dissidio fra i due furono, però, l'elezione dei magistrati del Comune (da cui avrebbe potuto derivare a una delle due parti la preminenza sulla città) e la guerra che allora i Bolognesi combattevano contro Astorre Manfredi, signore di Faenza, guerra voluta dal Gozzadini e osteggiata invece dal B., amico del Manfredi. Col B. erano i nobili e alcune delle Arti minori (tra cui quella dei Beccai); col loro aiuto egli disegnò pertanto di impadronirsi del potere, eliminando l'avversario. Prima di muoversi, tuttavia, sentì il bisogno di procurarsi anche altri alleati, per essere sicuro della vittoria. Questi furono gli Zambeccari e, il loro partigiani, rientrati nel frattempo in Bologna per opera sua, il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, con cui era in segreti accordi, e Astorre Manfredi.
Il 24 febbr. 1401 il B. s'impadroni del palazzo dei Comune, vincendo, in una sanguinosa zuffa, combattuta sulla piazza, il Gozzadini e i suoi partigiani; quindi, eliminato ogni altro ostacolo, il 14 marzo si fece proclamare signore di Bologna. La vittoria gli aveva dato in mano anche il suo diretto avversario: il B., forse sperando di rafforzare il proprio dominio con un gesto magnanimo, non volle eliminarlo, anzi, lo fece rimettere in libertà dopo una breve prigionia. È assai probabile, tuttavia, che la vittoria riportata non infondesse in lui sufficiente sicurezza circa la solidità del suo potere, e che, per quanto la sua posizione fosse stata legalizzata il 17 marzo dal Consiglio dei Seicento con la nomina a gonfaloniere perpetuo, confermatagli il 19 dal Consiglio dei Quattromila, egli non si sentisse tanto forte da tentare di eliminare violentemente tutti i suoi avversari.
Certamente il ricorso all'assenso popolare, espresso dai due Consigli, per legittimare la, propria autorità era anche dovuto alla teoria, affermatasi presso gli studiosi di diritto pubblico nel corso del sec. XIV, secondo la quale era da considerarsi legittimo il potere - anche se conquistato con la violenza -, qualora fosse intervenuta poi la sanzione della volontà popolare. Però è da notare che non solo non vennero modificati gli ordinamenti comunali, ma che anzi, quasi per controllare l'operato del gonfaloniere e moderame il potere, tra i XVI Riformatori (certo in base a un accordo intervenuto tra il B. e i suoi alleati) vennero eletti insieme con alcuni fautori del B. anche Niccolò Zambeccari, Giovanni Canetoli e lo stesso Nanne Gozzadini.
Accettando tali condizioni il B. non intese affatto rinunziare allo scopo propostosi; già la scelta della carica di gonfaloniere perpetuo mostrava, nell'aggettivo "perpetuo", la volontà d'instaurare un regime signorile di diritto oltre che di fatto. Secondo la notizia tramandataci da Fileno della Tuata, il B. inviò al papa, il 9 apr. 1401, un'ambasceria composta da Musotto Malvezzi, suo fautore, e da Floriano di Castel San Pietro, suo cognato, per ottenere solo per sé il titolo di vicario pontificio che, secondo le capitolazioni del 29 ott. 1392, era stato conferito unitamente al gonfaloniere e agli Anziani. Risulterà chiaro il significato e il valore che il B. attribuiva alla carica di gonfaloniere perpetuo - cui egli avrebbe desiderato aggiungere anche le funzioni di vicario pontificio - qualora si rifletta che il titolo di vicario pontificio fu spesso l'etìchetta sotto cui fece i suoi primi esperimenti la signoria in Italia.
Sebbene il vicariato gli venisse rifiutato, la carica di gonfaloniere era già di per sé un ottimo strumento di potere, strumento che permise al B. di imporre la propria volontà sotto il velo delle legalità tradizionali; una prova del mutamento istituzionale che si stava compiendo in Bologna è nel fatto che non tardò a prender piede l'uso di chiamarlo col titolo di dominus anche negli atti pubblici sebbene, almeno in apparenza, nulla fosse mutato nelle istituzioni comunali. Mutamenti radicali avvennero invece nel contado, dove il potere del B. si affermò rapidamente (la sua insegna venne dipinta sulle mura delle rocche più importanti: a Imola, a Castel Bolognese, a Cento) come conseguenza della nomina di vicari a lui direttamente legati da giuramento; e nell'esercito, nel quale gli stipendiarii erano alle immediate dipendenze del signore. Assai significativo, infine, il fatto che il B. fece coniare monete con la sua effigie.
La politica estera, e in particolare i rapporti col Comune di Firenze e col duca di Milano, fa però il campo in cui s'impegnò di più l'abilità del Bentivoglio. Certamente quando, nel 1401, egli si accordò con il Visconti per conquistare il potere, si rese conto dei pericoli che potevano derivargli da questa alleanza; era ad ammonirlo, se non altro, il caso recentissimo e clamoroso di Iacopo Appiani, signore di Pisa per il quale l'alleanza del duca di Milano era divenuta un laccio mortale. Forse il B. sperava di liberarsi, una volta raggiunto il suo scopo, del troppo potente alleato senza dovergli pagare lo scotto.
In questa situazione il B. non esitò ad accettare l'offerta di alleanza fattagli subito dopo il suo avvento alla signoria dai Fiorentini, preoccupati di impedire il passaggio del nuovo signore di Bologna dalla parte del Visconti, nemico accanito della Repubblica - Tuttavia il B., non volendo inimicarsi il duca, cercò di tergiversare con lui finché poté; ma quando, nel giugno dei 1401, l'ambasciatore milanese gli presentò per la firma i patti della lega con il duca, il B. si vide costretto ad aderire apertamente alla lega antiviscontea capeggiata da Firenze. Nonostante l'aperta rottura però la guerra, divenuta inevitabile, tardò ancora a scoppiare perché le forze militari dei Visconti erano impegnate nella lotta contro il re dei Romani, Roberto, disceso in Lombardia (estate-autunno 1401). Sventato dunque per il momento il pericolo esterno, il B. si vide però costretto a fronteggiare una situazione assai difficile all'interno.
Già da qualche tempo era sorto in Bologna un vivo malcontento, che traeva origine da varie cause, tra cui era il fatto che il B. aveva concluso la pace con Faenza quando pareva che la guerra volgesse più favorevole ai Bolognesi (luglio 1401), e il fatto che i cittadini cominciavano a provare avversione contro il regime signorile. Varie congiure erano state tentate per questo contro il B., mentre nel contado - percorso e saccheggiato dalle bande di Alberico da Barbiano - molti castelli importanti (Pieve di Cento, San Giovanni in Persiceto, Poggio, Minerbio, Sant'Agata ed altri) si erano ribellati ed avevano accolto i fuorusciti.
All'inizio dei 1402 il pericolo di guerra si fece di nuovo acuto: nel marzo fu stretta solennemente una lega di tre anni fra Bologna e Firenze, ma - fatto significativo - l'invio di duecento lance da parte dei Fiorentini provocò nella città una sommossa che il B. represse nel sangue. Tuttavia i suoi giorni erano contati: nel giugno del 1402 le truppe viscontee - più di diecimila uomini - condotte da Alberico da Barbiano e da Iacopo dal Verme invasero il territorio bolognese, dirette contro la città. Il B. si rese conto allora che gli era venuta meno la fiducia popolare e che i suoi stessi seguaci più fidati erano incerti; perciò, ricevuti aiuti dai Fiorentini e dai Padovani, condotti da Iacopo e Francesco III da Carrara, ritenendo che solo un'importante vittoria militare avrebbe potuto ristabilire il suo prestigio in città, decise di tentare la sorte affrontando in campo aperto i nemici. Ma nella battaglia, avvenuta presso Casalecchio sul Reno il 26 giugno 1402, venne completamente sconfitto.
Ritiratosi in Bologna per tentare una estrema difesa, fu sorpreso da una sollevazione popolare e, dopo un'accanita lotta in cui, come racconta il cronista, si comportò "como uno lione molto fiero, et otto n'amazò de soa mano", sul far della notte cercò lo scampo nella fuga. Scoperto e imprigionato, venne barbaramente trucidato il 30 giugno 1402.
Fonti e Bibl.: Pietro di Mattiolo, Cronaca bolognese, a cura di C. Ricci, Bologna 1885, pp. 60 s., 77-83, 86-88, 90, 94, 96 s., 100, 102-112, 116; Matthaei de Griffonibus Memoriale historicum de rebus Bononiensium, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XVIII, 2, a cura di L. Frati-A. Sorbelli, ad Indicem; G.Ronco, Compendio della storia di Bologna dal, 610 al 1400, a cura di L. Frati, in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il Medio Evo,XXXII (1912), p. 55; Corpus chronicorum Bononiensium, in Rer. Ital. Script., 2 ediz., XVIII, 1, vol. III, a cura di A. Sorbelli, ad Indicem; C. Ghirardacci, Della historia di Bologna; II, Bologna 1657, ad Indicem; F. Bosdari, Il comune di Bologna alla fine del secolo XIV, in Atti e Mem. d. R. Deputaz. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, IV (1914), pp. 158, 160-171; Id., Giovanni I Bentivoglio signore di Bologna, ibid., s. 4, V (1915), pp. 199-307 (con doc.); C. M. Ady, The Bentivoglio of Bologna. A study in Despotism., London 1937, pp. 8-10.