BERCHET, Giovanni
Nacque a Milano il 23 dicembre 1783, da Federico e da Caterina Silvestri, primogenito di otto figli.
Il padre era un modesto commerciante di origine svizzero-francese (gli avi erano di Nantua, presso Ginevra), il quale negoziava tessuti con tutto l'impegno del cittadino di poco capitale e molti figlioli. Governava autoritariamente la famiglia, ed educava i figli a un inserimento dignitoso e redditizio negli affari, seguendo l'indirizzo mercantile e borghese della società lombarda sotto il regno di Giuseppe II.
La fanciullezza del B. fu torpida e distratta; ne fu scosso dal primo educatore, un prete amico di casa, e avviato agli studi classici sotto la guida dell'abate Pietro Mazzuchelli, custode e poi prefetto della Biblioteca Ambrosiana, passando in seguito a frequentare le classi di umanità dei barnabiti, che gestivano allora le scuole Arcimbolde, aperte alla gioventù meno ricca o addirittura povera di Milano.
I successi scolastici gli consentirono di coltivare più a lungo del previsto la sua vocazione letteraria, riconosciutagli dai maestri e confermata al padre anche dalla stima che amici e familiari mostravano per i componimenti del B., componimenti che in realtà sono in forme di stanca ed ovvia maniera arcadica (come nel caso di certe quartine scherzose indirizzate al padre) o di non meno ovvia maniera neoclassica (quale è quella dell'Inno per le nozze Rovida-Forni); ma se non consentono una autenticazione di valori poetici, pure riescono utile indicazione della attrazione originaria del B. verso quella concretezza dei sentimenti che, specie nell'Inno, si avverte sotto la superficie dilettantesca dell'ornato formalistico.
Il rinvio dell'inserimento del B. nel negozio familiare di pannilani non durò oltre i primi anni del secolo: egli fu ritirato dalla scuola prima che compisse i corsi, e posto in bottega ad apprendere la tecnica del commercio, mentre i fratelli proseguivano la loro carriera di studenti. Contemporaneamente il padre volle che imparasse lingue straniere, e gli fece studiare (a parte il francese, che per i Berchet era la lingua degli avi, ed era allora notissima in Milano) il tedesco e l'inglese. Se il suo orgoglio uscì mortificato dal freno impostogli, certo l'abbandono della scuola fu compensato dal suo precoce contatto pratico e diretto con le cose, dall'esperienza di uomini e di idee che contribuirono più della scuola a formare poi l'aspetto moderno della sua cultura, quella spregiudicatezza cioè, quel bisogno di confronto con le culture straniere, quel senso dello studio vitale e concreto che alimentarono il suo "romanticismo". Ebbe frequenti contatti con quei giovani scrittori di satire (Taverna, Gori, Arrivabene, Cobianchi e Bossi) che, nella Milano dei primi anni del secolo, trovavano facili e frequenti motivi di canzonatura, di denuncia e magari di arguto pettegolezzo; venne anche in contatto con la tradizione dialettale e, forse tramite il Bossi, con Carlo Porta.
Delle escursioni dei B. nei domini del burlesco e dell'osceno rimangono le Ottavea rime obbligate, scritte a quattro mani insieme al conte Giuseppe Taverna, ed un'ode All'ulcera, edita ancor oggi solo parzialmente per remore moralistiche. L'uno e l'altro scritto sono precedenti al 1807 e, pur mediocri quanto al risultato, testimoniano una sperimentazione di linguaggio condotta verso la immediatezza spregiudicata dell'immagine.
Dal 1807 in poi si viene precisando la natura degli interessi culturali e letterari del Berchet. In quell'anno pubblicò la traduzione in endecasillabi sciolti del Bardo di Thomas Gray, cui tennero dietro, nel 1808, una satira nello stesso metro (I funerali), nel 1809 un'altra satira dal titolo Amore, poi nel 1810 la traduzione del romanzo di Oliver Goldsmith, Il curato di Wakefield.
Non si è in grado di attribuire con sicurezza al B. altre traduzioni; ma in ogni caso sembra che egli avesse assunto con l'editore Destefanis, che inaugurava a Milano una raccolta di romanzi stranieri (nella quale non s'indicavano i nomi dei traduttori), impegni non saltuari, sicché sembra illegittima l'ipotesi che del B. sia solo la traduzione del Goldsmith.
Traduzioni di moderni scrittori europei; nello stesso tempo approfondimento di temi che giustificassero un intervento diretto nell'ambito della cultura letteraria italiana, cosa che il B. fece assumendo la voce del poeta censore e moralista. Sia l'uno che l'altro aspetto dell'esordio dei B. richiamano ad una esigenza prima pratica che poetica, ad una volontà di divulgazione critica innovatrice, di rivalutazione etico-civile del discorso letterario, che egli avviò con più coraggio che perizia, dopo aver compiuto una definitiva scelta di valori orientativi (i grandi contemporanei, dall'Alfieri al Foscolo) in seno alla tradizione italiana, e con un programma, rispetto a quella, di rinsanguamento.
La traduzione dei Bardo non per caso lo tenne impegnato quasi più nelle note, vibranti di eloquenza e di immagini drammatiche, che nel testo, ammantato di alfiereggiante cupezza e sostanzialmente stonato, pur nella significativa intenzione di offrire al lettore italiano non già un bardo elegiaco, ma "di vera bardica schiatta", maledicente al crudele invasore "e quindi non garrulo, ma pieno di maschia eloquenza". Intenzione approvata dal Foscolo in una recensione dei lavoro, col rimprovero però di aver fallito lo scopo poetico e civile, sia per la scelta del verso sia per la scarsa perspicuità delle note. Era tuttavia importante per il B. l'attenzione del Foscolo, che egli si venne facendo sempre più vicino ed intimo maestro, rispetto anche alla lezione alfieriana e pariniana (cfr. le due satire sopra ricordate) ed alle inevitabili suggestioni montiane. Tra il 1807 e il '10 si affaccia insomma al mondo della cultura un B. certamente immaturo, ma abbastanza definito quanto alla base dei suoi interessi ed allo svolgimento della sua personalità. Nel suo impegno "satirico" si avverte, infatti, una violenza sentimentale di protesta che ha, almeno per il momento, il semplice e pre-politico orizzonte civico del costume; nelle traduzioni si riconosce, insieme agli interessi etico-sociali ed alla precisa volontà di costituire una circolazione più vivace dei problemi e dei gusti europei in Italia, una decisa ricerca di linguaggio nuovo, che pur nelle approssimazioni di un gusto indeciso, appare già un linguaggio di rottura tenuito fuori dalla pura linea stilistica della tradizione classica italiana ed avviato già verso una nuova espressività.
Le occupazioni di bottega si accordavano male con i sempre più accentuati impegni culturali. Se ne dovette persuadere anche il padre, che nel 1810 (il B. aveva ormai 27 anni) gli procurò un modesto impiego, come secondo commesso di amministrazione presso la cancelleria del Senato del Regno italico. Dal 1510 al 1814 si hanno di lui poche notizie. Nel 1811 fece un viaggio a Firenze e a Roma, non si sa bene perché, forse per dimenticare una disavventura amorosa. Nel 1813 partecipò alla polemica sulla musica contemporanea a cui aveva dato luogo la rappresentazione, alla Scala, del Demetrio e Polibio di G. Rossini. Nella Lettera, pubblicata al riguardo alla fine di luglio di quell'anno, il B. si schierava dalla parte dei "melodisti" o italianisti, contro gli "armonisti" o tedeschizzanti.
Nel 1814 giunsero la grande crisi napoleonica con la fine del Regno italico, il linciaggio del ministro Prina e poi l'occupazione austriaca di Milano. Dai grandi avvenimenti di quell'anno anche la vita del B. fu toccata - più che sconvolta - poiché egli non aveva, fino a quel momento, una consapevolezza politica tale che lo facesse intimamente partecipe del dramma a cui assisteva.
Né si trattava di indifferenza: la dignità italiana moderna che gli stava in mente era più culturale e individualistica che altro. Risentiva anch'egli, ma senza approfondimento critico, della diffusa insofferenza per la dominazione francese, che aveva tratti più offensivi della tradizionale monarchia asburgica, e del resto in lui, come in molti altri patrioti, che diventarono più tardi protagonisti della lotta per l'indipendenza.. non c'era affatto la coscienza, inizialmente, del valore eversivo delle proprie idee.
Sarà ancora necessario più di un quinquennio prima che il B. si renda conto di aver assunto una posizione propriamente politica e che ne accetti tutte le conseguenze e le responsabilità. Intanto, date le dimissioni dal vecchio impiego, si affrettò a chiedeme un altro alla Reggenza del cesareo governo fino dal 25 giugno 1814, mentre continuava a coltivare quella che, nella supplica pel nuovo impiego, definiva "particolare predilezione alla coltura delle belle lettere". La polizia dava riscontri positivi del suo comportamento di onesto e buon cittadino che, se mai, appariva un poco troppo orgoglioso delle poche cose pubblicate e "di alterigia e supposizione scientifica oltre il vero merito". Sulla base di innocuità politica e di relativa efficienza "scientifica", il B. fu assunto con un incarico non ben precisato alle dipendenze della Commissione degli studi, istituita dal Bellegarde. L'impiego correva dal 27 sett. 1814, e fu sicuramente connesso con la capacità del B. di tradurre dal tedesco. La conoscenza delle lingue straniere lo impegnò anche presso gli uffici dell'Alta Polizia, diretti in quel tempo dal marchese Ghislieri; se poté svolgere qualche azione sfruttando le indicazioni che gli giungevano attraverso i documenti da tradurre, il B. lo fece - probabilmente - solo a favore del Foscolo e dei suoi più intimi amici. Nel maggio del 1816 fu trasferito, come traduttore, presso la Delegazione provinciale di Milano.
Era tornato, intanto, alla poesia, proprio nel periodo che seguì subito al trapasso dei poteri tra "Italici" ed Austriaci. Ospite, durante l'estate del 1814, del fratello Carlino, che era viceprefetto di Como con casa a Menaggio, trasse dalla visione del lago una ispirazione idillico-elegiaca, libera da motivazioni moralistiche e palesemente sorretta dall'esempio delle Grazie foscoliane; essa fruttò i quattro Frammenti di un poemetto sul lago di Como, pubblicati il 30 nov. 1815 su Lo Spettatore. Compose anche un carme di argomento storico, I Visconti, nel quale immaginò il Petrarca reduce dall'esilio ed ospite di Milano, turbato dai sanguinosi eccessi viscontei e più ancora sconvolto dai vaticini di due maghe, che in sogno gli mostrano di quali scempi sarà teatro la terra milanese fino all'età di Francesco Sforza. La Epistola a Felice Bellotti, composta per la morte dell'amico Giuseppe Bossi (fine del 1815), sembra l'ultima espressione di un B. "giovanile", diviso tra gli esiti di un preromanticismo "di bardica schiatta", le attrazioni foscoliane dei Sepolcri e delle Grazie, e la esigenza di una più originale e personale maniera di intervenire sui fatti della vita contemporanea. A tale esigenza risponde, prima di tutto, il celebre saggio Sul "Cacciatore feroce" e sulla "Eleonora" di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo Figliuolo, che il B. pubblicò negli ultimi mesi del 1816 e che fu provocato dall'imperversare delle discussioni tra i letterati, in seguito all'articolo di M.me de Staël Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni. Esso rappresentò una presa di posizione felice e decisa a favore del romanticismo, ma presuppone una meditata partecipazione del B. alle tendenze degli innovatori, né va inteso come espressione di una scelta repentina e contraddittoria tanto da relegare la produzione anteriore del B. nel limbo della.sua preistoria intellettuale.
La Lettera semiseria, anche se non subito, ebbe il riconoscimento storico di "manifesto" del romanticismo italiano, e come tale può essere ancora oggi accolta non tanto per la originalità delle idee e dell'argomentazione, quanto per il calore, l'eloquenza e l'equilibrio che la animano e le conferiscono un valore di discorso illustre e familiare nello stesso tempo. La fondamentale ed universale partecipazione degli uomini alla poesia, distinta nei moduli dell'attivo e del passivo; il rapporto sociale e storico del linguaggio (e dunque dell'arte), che si differenzia e necessariamente si qualifica nel corso dei tempi e di fronte ai diversi livelli della evoluzione storica; il riconoscimento di una perenne esigenza di una "modernità", che è il quid espressivo della poesia così come è l'espressione fondamentale della vita; la definizione della poesia romantica come poesia viva (cioè espressiva di valori sentiti, perché attuali) che si oppone, come sempre si oppose, alla tendenza puramente letteraria ed archeologica dei "morti": questi sono i temi di fondo della Lettera. Ma, sotto l'impeto ora arguto ora raziocinante ora eloquente del B., essi si rivelano non del tutto nuovi; l'analisi ne svela l'origine vichiano-foscoliana, oltre impressioni raccolte dalla cultura tedesca e presenze di irrisolti spunti del filantropismo illuministico. Resterebbe tuttavia inerte una analisi di tal genere, qualora non vi andasse unito il riconoscimento fondamentale, e d'altra parte ovvio, della energia nuova che quelle formulazioni assunsero col B., che seppe esprimere in maniera persuasiva e vibrante, con nuovi toni e per nuovi valori consegnati al linguaggio, l'impegno della moderna cultura italiana, quello cioè di ridurre formulazioni più o meno scontate ad un programma di civile utilità che le facessero calare di cielo in terra.
È opportuno considerare che alla traduzione in prosa delle "ronianze" del Bürger, ed alla dissertazione critica della Lettera che la contiene, il B. giunse senza rompere la continuità della faticosa esperimentazione condotta fino a quel punto. Fu quello infatti, oltre che un intervento pubblico, una specie di esame di controllo che il B. fece a se stesso, ma non per convertirsi a una fede nuova quanto per promuovere ad una funzione più alta le convinzioni e le aspirazioni che già possedeva.
Anche se non provocò molto scalpore, la Lettera semiseria fu accolta dal plauso dei gruppi romantici milanesi e valse al B. un allargamento delle conoscenze e una partecipazione più intensa alla vita culturale. Tra i vari "crocchi" romantici (se ne ricordano tre: quello che faceva capo al Porta e che accoglieva il Grossi, il Torti e il Cattaneo; quello dei Di Breme, Porro Lambertenghi, Borsieri e Pellico; quello, infine, detto "supra-romantico", che si adunava in casa del Manzoni ed a cui partecipavano il Visconti, il Torti e il De Cristoforis) correvano differenze notevoli d'impostazione ideologica e di programmi; e rispetto a queste divisioni il B. svolse una utile opera di chiarificazione, accelerando, quanto meno, con la sua presenza quel processo di mediazione e di fusione che fruttò di lì a poco la nascita de Il Conciliatore, il famoso periodico che nel corso della sua breve vita (3 sett: 1818-17 ott. 1819) riuscì ad esprimere nel lombardi romantici la volontà di rinnovamento della cultura letteraria nazionale ed il proposito di legare questo rinnovamento a quello economico e civile del paese. Al Conciliatore il B. collaborò intensamente, tornando ad elaborare - nei vari articoli di informazione letteraria, di critica e di polemica - i criteri annunciati già nella Lettera semiseria, tenendo fede con fermezza alla sua ispirazione filantropica e svolgendo, ora con arguzia ora con passione, quel compito di richiamo altamente divulgativo della letteratura europea, di illustrazione dei motivi critici della cultura moderna e della essenza naturalmente "popolare" della poesia, che formavano il nucleo dei suoi interessi reali.
Tra il 1816 e il 1819 il B. aveva continuato a guadagnarsi la vita come traduttore dal tedesco presso vari uffici governativi, cercando tuttavia invano di ottenere una qualifica impiegatizia stabile e definitiva. Lavorò essenzialmente per le scuole, e tradusse gli Elementi di storia degli Stati d'Europa, il Codice ginnasiale, le Discipline per gli esami delle Scuole elementari, gli Elementi di storia moderna ad uso delle scuole. Nel 1819 tornò alla poesia con due novelle in versi (Il cavaliere bruno e Il castello di Monforte) di ambiente medievale - ambedue incompiute - nelle quali è evidente la decisa programmazione "romantica" del genere e dei soggetti e la ricerca, sempre faticosa, ma irreversibile, di una condensazione degli elementi espressivi, in vista di uno stile intenso e di immediata resa degli effetti, che fu sempre il difficile scopo della poesia del Berchet. In questa direzione il poemetto I profughi di Parga (composto tra la fine del 1819 e la fine del 1820), anche se non rappresenta un punto di arrivo, testimonia una importante fase di maturazione.
Il B. tratta un evento della storia contemporanea (è del 1819, infatti, la fine della protezione concessa dagli Inglesi a Parga, contro le mire di conquista dei Turchi) che aveva commosso l'Europa ed aveva trovato tanta più viva partecipazione nel cuore dei patrioti italiani. Il volontario esilio in massa dei Parganioti, lo sdegno contro gli Inglesi, il culto struggente e disperato delle memorie patrie, l'esaltazione degli affetti sacri sconvolti ed offesi, sono i motivi della nuova poesia del B.; una poesia che è quasi congestionata dal tumulto dei sentimenti e perciò senza dubbio imperfetta, ma che raggiunge egualmente una sua forza di comunicazione, sia nei momenti dell'elegia che in talune movenze di carattere epico.
I profughi di Parga fu pubblicato nel 1823, a Parigi, quando il B. aveva abbandonato già da tempo Milano. Nel 1820, cessate le pubblicazioni del Conciliatore, il B. non aveva interrotto i contatti con gli amici intellettuali, e il tempo che non concedeva alle traduzioni scolastiche impiegava nell'attività letteraria e nei rapporti con quel gruppo che da letterario si veniva facendo sempre più di opposizione e di lotta politica. Nell'autunno del 1820 anch'egli s'iscrisse ai carbonari "federati", poco prima dell'arresto di Silvio Pellico (13 ottobre). Durante l'anno seguente, dopo il fallimento in marzo del moto insurrezionale piemontese, mentre la situazione si faceva pesante per i carbonari, lo troviamo impegnato a tradurre un Namenbüchlein per le scuole, ma sappiamo anche che si faceva sempre più prudente, temendo che l'avventatezza e l'ingenuità degli amici avrebbero presto portato ad un deciso intervento della polizia. Ai primi di dicembre infatti cominciarono gli arresti. Il 13 dicembre, giorno dell'arresto di F. Confalonieri, il B. si allontanò rapidamente da Milano, passò in Svizzera e poi in Francia, e giunse a Parigi il 28 dic. 1821. Qui trovò altri esuli amici, e poté contare fino dall'arrivo sull'appoggio dei francesi amici del Manzoni (specialmente su quello del Fauriel) i quali lo accolsero calorosamente. Nell'ambiente di M.me Condorcet, della Cabanis, del Fauriel e del Cousin, il B. incontrò anche il marchese Giuseppe Arconati con la moglie Costanza, già da lui conosciuti a Milano in casa del Manzoni ed esuli anch'essi fino dal marzo del 1821. Fu l'incontro più importante fatto a Parigi; nacque allora quella confidenza e quella tenera amicizia tra il B. e la marchesa Costanza, che col passare del tempo si accese in lui in una forma di timido e pur profondo sentimento amoroso.
Nei lunghi anni di esilio l'amicizia degli Arconati, che si manifestò anche in forme pratiche di soccorso (mai sollecitate né offerte come pietose elemosine, in virtù della signorilità degli Arconati ma più ancora della orgogliosa probità del B.), fu per lui, più che un appoggio e un esterno conforto, un fattore vitale per la resistenza morale e per quella concentrazione spirituale che nella solitudinelondinese provocò le immagini più intense della sua poesia.
All'esilio dalla patria si aggiunse presto la lontananza dagli Arconati (e soprattutto dalla "marchesina" Costanza), i quali lasciarono Parigi per il loro castello di Gaesbeek, vicino a Bruxelles, già nel febbraio del 1822. Giungeva intanto a Parigi da parte del governo austriaco la richiesta di estradizione contro il B., che ai primi di aprile prese la via del Belgio, si fermò pochi giorni presso gli Arconati, attraversò l'Olanda e di lì si avviò per Londra, dove giunse il 4 di maggio.
Lo accompagnava già da Parigi quella densa malinconia, quella insofferenza dei rapporti con gli altri, quella costante ed inappagata sete di affetti, di colloquio spirituale e quel bisogno, soprattutto, di patria, che si manifestano, in maniera più assillante e tanto più immediata che nelle poesie, nel fitto epistolario che raccoglie le lettere indirizzate a Costanza Arconati, e che è importante, di là dai casi personali del B., come fonte per lo studio della storia contemporanea. A Londra il B., rispetto agli altri emigrati italiani, fece parte a sé: lo infastidivano le compagnie chiassose e rissose della maggior parte degli esuli, come lo sdegnava l'atteggiamento poco dignitoso, talvolta parassitaiio, dei compatrioti. Evitò di fare lega anche col Foscolo, del quale non approvava il costume; così non desiderò di entrare nel giro dei collaboratori della Quarterly Review, ch'egli considerava organo screditato e reazionario.
Si cercò un lavoro vero e proprio che gli consentisse di vivere decorosamente anche se poveramente e di sottrarsi alla taccia di esule elemosinante. Si impiegò dunque (novembre 1822) presso un commerciante milanese, tale Ambrogio Obicini, in qualità di scrivano e contabile, mettendo a frutto l'esperienza alla quale lo aveva costretto il padre in gioventù. Il lavoro non gli lasciava libero molto tempo, tanto più che soffriva di disturbi nervosi e intestinali che lo prostravano e gli facevano più acuta l'insofferenza del clima inglese e della solitudine, mentre per altro verso le traversie materiali e morali lo indurivano nei suoi principî di onestà ad ogni costo, di rigore morale e di disciplina, sicché egli stesso parlava alla Costanza Arconati di una raggiunta severità "da quackero o da giansenista".
Era una severità di costume che non inaridiva affatto, anzi esasperava l'esigenza dei rapporto sentimentale. Si manteneva in contatto con gli amici milanesi, dal Grossi al Manzoni, e leggeva i manoscritti delle loro opere, ne discuteva con pacato fervore. Vedeva e riceveva spesso gli Italiani che erano di passaggio a Londra, sì che gli sembrava d'essere il "Console d'Italia, a cui ricorrono tutti che vengono di costi", ma restava inappagato il suo bisogno d'un calore diverso, che solo la patria lontana e la donna amata, anch'essa lontana, avrebbero potuto congiuntamente fornirgli. Rare le vacanze dall'impiego, e ancor più rari gli incontri fuggevolì con Peppino e Costanza Arconati.
Dopo tre anni di vita inglese cominciò a vagheggiare il modo di liberarsene, e dopo avere progettato di trasferirsi in Grecia, ovviamente cara al poeta degli esuli di Parga, più positivamente cercò la liberazione dal bisogno economico giocando in borsa. Ebbe fortuna, al principio, e vide vicino il momento di poter tornare in Italia, in Toscana, vivendo di rendita. Poi le speculazioni intraprese andarono sempre peggio e nell'ottobre del 1825 il B. si trovava a dover pagare 950 sterline possedendone solo poco più di 50. L'Obicini gli anticipò la somma, ma ad aiutarlo fu specialmente Giuseppe Arconati: al B. fu evitata la prigione per debiti, ma egli rimase avvilito e quasi vinto dall'avventura, oltre che incatenato sempre di più al lavoro per riscattare i debiti contratti. Si aggravavano anche i suoi mali fisici, mentre svaniva l'illusione di essere presente nel cuore della marchesa Costanza con un legame sentimentale più intenso ed esclusivo dell'amicizia. Si adattò anche a questa rinuncia, soffrendone tuttavia in segreto. Nel gennaio del 1827 fu quasi prostrato da una più forte malattia; nel giugno gli giunse improvvisa la notizia della morte del padre; poco dopo fu escluso dal club che frequentava a Londra perché "impiegato in una casa di commercio" e soffrì ancora di più la solitudine. A distoglierlo dalla malinconia vennero, tra la fine del 1828 e i primi del 1829, gli impegni presi, anche attraverso gli Arconati, per collaborare al nuovo tentativo che Teresa Confalonieri organizzava per l'evasione del marito dallo Spielberg; ma a ripresentargli i pericoli della sua condizione psicologica e morale di esule solitario, esposto ai rischi estremi della depressione, fu il suicidio avvenuto, quasi sotto i suoi occhi, di un commesso, italiano ed esule come lui, nei locali della ditta Obicini. Già da tempo aveva il B. scritto alla Arconati (2 marzo 1827): "quando tornerà il terribile ottobre, allora le prometto, cara amica, che non passerò mai dinanzi alla bottega di un cordajo". Ora quel suicidio lo persuase ad accettare le premure degli Arconati, che lo volevano da tempo presso di loro come precettore del figlio, e si decise finalmente ad abbandonare Londra; il che avvenne il 13 luglio 1829.
Del periodo londinese (1822-29) Sono i versi migliori del B., quelli delle Romanze e delle Fantasie. Sei sono le romanze (Clarina; Il romito del Cenisio; Il rimorso; Matilde; Il trovatore; Giulia), nelle quali tutte l'elegia romantica del B. non è un gesto di resa al dolore, un abbandono languido e sfinito, ma l'offerta di un canto semplice e violento, dove i miti e le figure della nostalgia e del dolore appaiono sorvegliati da una disciplina spirituale severa e tuttavia dipinti con la sregolata energia di tratti che è propria dei "primitivi" colti, degli innovatori reali.
Non è possibile qui dare notizie e giudizi delle singole e romanze" del B.: alcune di esse ebbero in Italia vero e profondo successo, nell'ambiente borghese e romanticizzante degli anni tra il 1825 e il 1840, che era l'ambiente destinatario e che in esse trovava espresse congenialinente (in forma epicolirico-lirica, per dirla col B. medesimo) quel sentire delicato ed irruente insieme, quell'energico desiderio di un bene negato ma legittimo e necessario come quello della patria, nel quale si riconoscono i motivi culturali del romanticismo internazionale, elaborati orìginalmente sulla base del nostro romanticismo praginatico ed esortativo, tendente ad un fine pratico di riscatto. Non diversi da questi i caratteri essenziali delle Fantasie, un poemetto romantico, o piuttosto una lunga "romanza", che il B. compose tra il 1827 e il 1828, gli anni suoi tormentosi. Forse anch'egli aveva avvertito quel che delle Romanze disse F. De Sanctis, che, cioè, in esse "sono situazioni che si annunziano drammatiche e si trasformano in liriche", e si raccolse in una "situazione" più complessa e più unitaria insieme riguardo alla elegia epica che gli era consentita. Nelle Fantasie è raffigurato il sogno di un esule dal Lombardo-Veneto, che sempre ha "nel cor l'Italia, s'ella anche oblia chì l'ama". Il sogno-visione (antico modulo preromantico radicato nel B. dagli anni della traduzione del Bardo)si svolge evocando tempi e luoghi diversi, mentre sviluppa il doppio motivo dell'amore e della delusione che prova l'esule per la patria. L'amore non è provocato soltanto dall'istinto filiale, ma dalla orgogliosa coscienza storica che ha l'esule della patria, oltre che della memoria delle sue bellezze. Il tema del dolore non si riduce a quello egoistico della lontananza che fa soffrire, ma investe quello più grande della decadenza del sentire e dell'agire comune degli Italiani, resi infingardi e insensibili, così che il canto dell'esule si muta in invettiva. Ma non è mai vera invettiva, quella del B., è piuttosto una provocazione sentimentale, non languida, ma nemmeno acerba, che chiama i lettori alla loro responsabilità di uomini-cittadini, sulla base romantica dei rapporto individuosentimento e individuo-tradizione civile. È la più originale e forte elegia patriottica che abbia l'Italia moderna; in essa appare superata la base preromantica dell'impianto visionario nella ricerca matura di un contatto diretto con la viva realtà storica, antica ed attuale, e gli uomini.
A Gaesbeek, nel 1829, il B. trovò accoglienze calorose e pcité riprendere contatto con altri amici. La grande dimora degli Arconati era un punto di incontro oltre che un'oasi di conforto per tutti; per il B. poi, tanto legato agli ospiti, era quasi la famiglia. Al giungere dell'inverno il castello si chiudeva e la compagnia si scioglieva. Il B., che tra il luglio e il dicembre del 1829 si era ristabilito in salute e che aveva ripreso lena al lavoro, si recò in Germania, a Bonn, dove accompagnò il giovane Carlo Arconati negli studi universitari e dove trovò la stima e l'appoggio di G. B. Niebuhr, al quale era stato presentato dal Fauriel. Al Niebuhr andava leggendo le traduzioni di antiche romanze spagnole (era un antico progetto, accarezzato ai tempi del Conciliatore e ripreso solo di recente, nella pace di Gaesbeek) e prendeva contatti con tutto l'ambiente dotto di Bonn, frequentando le lezioni universitarie e la casa di A. G. Schlegel. Nell'aprile del 1830 era di nuovo a Gaesbeek. Le agitazioni in Belgio ed in Francia lo distolsero dalle romanze spagnole ed egli corse a Parigi. Nel febbraio del 1831, alla notizia dei moti italiani, si spostò a Ginevra per essere più vicino possibile ai confini della patria, sperando che la guerra all'Austria fosse inevitabile e che la rivoluzione italiana trovasse in essa spazio ed alimento. Compose, nell'entusiasmo e nella concitazione di quei giorni, l'ode All'armi (marzo 1831), ma intanto in Italia l'insurrezione falliva. In aprile il B. tornava a Parigi, poi al castello degli Arconati, avvilito e malato, essendosi nel frattempo aggravate le condizioni della vista. Seguendo il consiglio dei medici, intraprese cure d'acque minerali, girando per diversi luoghi come Baden, e intanto accompagnava Carlo Arconati alle università di Bonn, di Heidelberg e di Berlino, stringendo più fitte relazioni con la cultura germanica. Durante il 1834 e il 1835 il B. trovò sollievo ai mali fisici e poté raccogliersi nello studio con rinnovato fervore. Alla fine del 1834 aveva corretto e preparato per la stampa la traduzione delle Vecchie romanze spagnole (pubblìcate a Bruxelles nell'autunno del 1837) e cominciava a tradurre direttamente dal danese alcuni canti popolari. Questa sua attività di traduttore va riguardata, oltre che per il gusto e l'impegno tipicamente romantici nei confronti della poesia popolare, come vera e propria opera d'arte. Le Vecchie romanze spagnole furono spesso criticate sia per la scelta del metro (l'ottonario rimato che non rende la suggestiva forza dell'ottosillabo assonanzato spagnolo), sia per la scarsa fedeltà del B. al testo originale. Il vero è che l'intensità poetica raggiunta dal B. nelle sue romanze tradotte riscatta tutte le mende che può mettere in luce un confronto filologico tra gli antichi testi e quelli berchettiani. Le Vecchie romanze sono l'ultima opera poetica del Berchet. Vero èche egli ancora scrisse dei versi (quali ad esempio quelli della Elegia rabbiosa, composta nel 1837 a Heidelberg), ma la sua stagione poetica si chiuse con quella traduzione.
Gli anni dal 1837 al 1840, mentre continuava il girovagare fra la Germania, la Francia, il Belgio e l'Inghilterra, furono segnati prima dall'agitazione provocata nel B. e negli Arconati dalla anuústia concessa dall'Austria agli esuli (6 sett. 1838), la quale poneva il poeta ed i suoi amici in profonde perplessità d'ordine pratico e morale, e poi dalla morte improvvisa (giugno 1839) di Carlo Arconati, il giovane affidato alle cure del Berchet. Nel 1840 gli Arconati tornarono a Milano e il B. si trasferì a Parigi. Rimase atri cinque anni in esilio e venne, da repubblicano che si era fatto dopo il 1831, aderendo sempre più nettamente in questi anni alla tesi della monarchia piemontese come fattore unitario, mentre si accentuavano in direzione del moderatismo l'antica e positiva sua prudenza e il distacco dalle sette politiche. Partecipava, sì, a discussioni e polemiche, ma in fondo egli rimaneva attaccato solo a una idealità di esule, virilmente coerente, solitario nell'intimo ed impaziente della lotta politica in quanto essa ha di pratico, di minuto e di programmatico. Di fronte ai Savoia l'uomo del 1821 conservava ancora scrupoli e riserve mentali, ma era egualmente matura nel B. come in tanti altri patrioti borghesi la base della "conversione" che nel 1848 lo troverà dalla parte di Carlo Alberto. Per intanto, ancora nel 1843 si ritraeva dall'azione e scriveva "mi par più onesto e più dignitoso il far nulla che il far male". Nel 1845 si risolvette a chiedere a Torino il permesso di stabilirsi in Piemonte. Gli sembrava, giustamente, una mezza resa ed esitava a chiederla, ma sia le private ragioni affettive sia quelle della salute lo spinsero a compiere il gesto.
Il 15 nov. 1845 il B. tornava in Italia, a Nizza, dove si fermò per tutto l'inverno. Tra il 1846 e 1847 partecipò a quella attesa degli eventi che sembravano moltiplicare lo spirito dei fatti del 1831. A Milano, dopo il 27 marzo del 1848, prese decisamente posizione per l'annessione al Piemonte, ed in qualità di membro del governo provvisorio si adoperò per orientare l'opinione pubblica europea verso una soluzione monarchica, che unificasse le province settentrionali d'Italia. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto si trovò a Torino e fu deputato di un collegio del Piacentino (Monticelli d'Ogina), eletto a sua insaputa. In Parlamento si schierò con i moderati e si guadagnò per questo la taccia di reazionario, sebbene non a tanto portasse il suo moderatismo, e la sua, diciamo così, vocazione alla pazienza politica. Scaduto il mandato, si ritirò a Firenze. Dal 1849 al 1851 si accentuò il decadimento fisico del Berchet. Aveva sofferto ancora una volta la delusione di una grande battaglia perduta; era sfinito e avvilito, anche se restava convinto della buona ragione storica e politica dell'Italia nuova. Trascorse gli ultimi anni vagabondando tra le stazioni climatiche, Nizza, Pallanza, Baveno, finché morì a Torino il 23 dicembre 1851, assistito da Giuseppe e Costanza Arconati.
Il primo giudizio sul B. è dato dal consenso che la sua poesia riscosse presso i contemporanei: va accolto con interesse perché si trattò di un successo qualificato, anche se immediato, e tale che, più che per altri romantici, era promosso da un riconoscimento di originale valore poetico, meritato insieme a quello di poeta della patria. Sulterreno critico vero e proprio bisogna registrare comunque il giudizio di V. Imbriani (1868), il quale esaltò nel B. l'autenticità della ispirazione romantica ed identificò per primo il valore della sua difficile ricerca formale, lodando quella che egli chiamava la sua "temperanza", cioè la disciplina interiore e l'equilibrio del sentimento con la morale e con la ragione, che sembra ancora una indicazione utile. F. De Sanetis (1873-74) fu attento ad enucleare i tratti lirici del poeta (e di una lirica chiusa, "che non si spande", di uno spirito "chiuso come una vergine") in opposizione a quello che gli sembrò l'aspetto drammatico ed accessorio del poeta B., cioè l'ispirazione etico-civile, romanticamente determinata. La quale fu invece, per G. Carducci, l'aspetto caratterizzante del B., che egli intese come bardo italico e vate risorgimentale. Le posizioni del De Sanctis e del Carducci, anche se polarmente discordi, poggiavano sull'apprezzamento della poesia del Berchet. Ciascuno di essi aveva avanzato forti limiti ad essa, che da particolari divennero universali dopo che l'edizione completa dell'opera del B. ebbe inaugurato la collezione degli "Scrittori d'Italia" dell'editore Laterza (1911). In quella occasione si accese una discussione che segnò il rifiuto, da parte della cultura di avanguardia, della tradizione romantico-risorgimentale italiana. Erano già gli anni dei recupero delle voci del decadentismo francese da parte di una cultura giovanile, impaziente e lustra di recenti scoperte parigine; il romanticismo nazionale pareva (ed era, ma solo in parte) peso morto, voce provinciale. Ne subì le conseguenze il B. che fu bersaglio di congedi ironici e di lazzi che non riuscivano già a "superarlo", ma che scaricavano un complesso di provincialismo, tipico degli intellettuali italiani del primo '900. Il più meditato e meglio motivato rifiuto del B. (preso ad esempio di una condizione di crisi che investiva la validità di tutto il nostro romanticismo) fu nel saggio di C. De Lollis (1912) il quale indicò, attraverso l'esame dei mezzi espressivi dei B.) l'incertezza e la inefficacia operativa della rivoluzione romantica nazionale. Il Croce mostrò di opporsi a tanto recise negazioni, indicando nella lirica dell'esule un tema poetico sostanzialmente risolto da parte del Berchet. Dopo di lui, ma con più forte arte critica, A. Momigliano riscattò (1924) l'aspetto non solo lirico-elegiaco, ma quello epico del B., riconoscendo il valore, anche germinale, del suo impeto virile di richiamo alla guerra. Dopo quelle del Momigliano le pagine più ricche e sicure che siano state scritte sul B. sono quelle di M. Fubini (1952)il quale ha riconosciuto nel poeta e nel critico B. una voce sicura, originale ed efficace, che si riconobbe nel romanticismo europeo e di quello italiano fu espressione, in quanto il romanticismo fu per lui "un più deciso riconoscimento della presenza della poesia in tutta la vita umana, in tutti i popoli e sotto forme diverse da quelle a cui i lettori italiani erano avvezzi".
Scritti: La raccolta fondamentale delle opere del B. è quella curata da E. Bellorini per l'editore Laterza: Poesie, Bari 1911; Prose, Bari 1912. Una seconda edizione di questa raccolta, è per ora limitata alle Poesie, (a cura di E. Bellorini, Bari 1941). L'ordinamento dei testi è mutato in questa seconda edizione, arricchita di quasi tutti i nuovi reperti poetici berchettiani (l'Ode all'ulcera non vi è stampata). Si vedano inoltre G. B., Lettere alla marchesa Costanza Arconati, a cura di R. Van Nuffel, I, Roma 1956; II, ibid. 1962, e R. Van Nuffel, Lettere di B. a Claude Fauriel, in Giorn. stor. d. letter. ital., LXXV (1958), pp. 98-103.
Bibl.: Oltre alla bibl. alla voce Arconati Visconti Giuseppe, in Diz. Biogr. d. Ital., IV, pp. 4-6, vedi V. Imbriani, G. B. e il romanticismo italiano [1868], in Studi letterari e bizzarrie satiriche, Bari 1907, pp. 117-207; G. Carducci, Opere, ediz. naz., XVIII, pp. 336, 391, 403 (ma il saggio risale al 1872); F. De Sanctis, G.B. [1873-74], in La letteratura ital. del sec. XIX, II, a cura di F. Catalano, Bari 1953, pp. 474-492 e 493-545; B. Croce, Per un poeta non trattato bene, in La Voce, 7 dic. 1911(v. Conversazioni critiche, Bari 1924, pp. 241-46); C. De Lollis, Per la riedizione del B., in La Cultura, 15 genn. 1912, e poi B., in Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, Bari 1929, pp. 34-54; E. Cecchi, La poesia di G. B., in Studi critici, Ancona 1912, pp. 313-320; J. Boulanger, B. et Costanza Arconati, in Il Risorgimento italiano, VI (1913), pp. 657-719; E. Bellorini, G.B., Messina 1917; B. Croce, B. [1922], in Poesia e non poesia, Bari 1955, pp. 150-163; A. Momigliano, La poesia del B. [1924], in Introduzione ai Poeti, Roma 1946, pp. 197-204, ristamp. Firenze 1965; D. Petrini, La poetica del "Conciliatore"e la poesia del B., in La Cultura, luglio 1930, pp. 555-71; E. Bellorini, G. B., Torino 1930; E. Li Gotti, G. B. la letteratura e la politica del Risorg. naz., Firenze 1933; A. Gasparetti, G. B. traduttore delle romanze spagnole, in Studi sul B. …, Milano 195 2, pp. 15 5-170; M. Fubini, Stile critico del B., ibid., pp. 337-357; R. van Nuffel, Pour une nouvelle biographie de G. B., Bruxelles 1951; E. Li Gotti, G. B. milanese ed europeo, in Letterature moderne, III (1953), pp. 501-517; I. Lopriore, Le "Romanze"di G. B., in Belfagor, VIII (1953), pp. 402-434; A. Mangione, Saggio per uno studio sulla poesia e sullo stile del B. traduttore, in Dialoghi, II (1954), pp. 1626; M. Marcazzan, Studi sul B., in Nostro Ottoc., Brescia 1955, pp. 293-322; A. Lepre, Mito e realtà nelle polem. del B., in Belfagor, XIV (1959), pp. 146-159.