RAGANO, Giovanni Bernardino
RAGANO (Azzolino), Giovanni Bernardino. – Nacque a Cefalù intorno al 1572 e giunse a Napoli nel 1592 circa, secondo quanto si ricava dalla testimonianza resa dal pittore, il 16 febbraio 1632, nel processetto prematrimoniale della figlia Francesca (Prota-Giurleo, 1953, p. 132). Già nel primo dei suoi tre testamenti, vergato a Napoli il 9 dicembre 1633, egli chiariva di appartenere in realtà ai Ragano di Acquaviva delle Fonti, in quanto figlio «de Andrea Ragano d’Acquaviva, il quale se mutò il nome de Andrea in Antonio, et il cognome di Ragano in Azzolino, per alcuni soi degni rispetti» (p. 134).
La ricostruzione della personalità e del catalogo di Azzolino, pittore, scultore e ceroplasta di notevole importanza nel contesto artistico e sociale della Napoli di primo Seicento, è una conquista relativamente recente degli studi, anche a causa dei molteplici equivoci generati in tal senso dalle fonti antiche. Ne costituiscono l’esempio più evidente, com’è noto, le Vite di Bernardo De Dominici (1742-1745 circa, 2003-2008), in cui la figura del maestro è scissa in ben tre diverse personalità: il «Giovan Bernardino Siciliano» autore delle grandi imprese decorative ricordate dalla periegetica napoletana (ibid., 2008, pp. 229-256); il «Giovan Bernardino Azzolini, o Asolini, napolitano» citato da Raffaello Soprani (1674, p. 312) come attivo a Genova, al servizio di Marcantonio Doria, nel 1610 (De Dominici, 1742-1745 circa, 2003, pp. 736 s. nota 3); l’«Asoleni napolitano» che Pellegrino Antonio Orlandi (1733, p. 239) aveva rintracciato, già ricollegandolo all’«Azzolini» di Soprani, tra gli iscritti nel 1618 all’Accademia di S. Luca (De Dominici, 1742-1745 circa, 2003, pp. 907 s. nota 10).
Il pittore è certamente attestato a Napoli, per la prima volta, nel 1594, quando prese in moglie la nobile palermitana Antonia D’India, con cui condivise, a partire dal 1614, la casa-bottega in strada S. Spirito di Palazzo (Prota-Giurleo, 1953, pp. 123 s.). A dispetto della fantomatica verginità del «Siciliano» di cui racconta la biografia di De Dominici, la coppia ebbe quindici figli, solo sei dei quali sopravvissero all’infanzia, e due fra questi, Gabriele e Andrea, intrapresero senza grandi esiti la carriera di pittori (Farina, 2001, pp. 213 s. nota 11, 222 s. nota 38).
Azzolino dovette giungere a Napoli in compagnia del messinese Luigi Rodriguez (Prota-Giurleo, 1953, p. 123), ricordato anch’egli dalle fonti napoletane come il «Siciliano»: soprannome all’origine dei continui e indebiti scambi attributivi fra i due maestri (Ferrante, 1979, pp. 16-18, 27 s. note 1-19). Nulla è noto, al momento, della prima attività siciliana di Giovanni Bernardino, ma è assai probabile che questi, forse proprio in compagnia di Rodriguez, avesse speso una parte importante della propria formazione napoletana sui ponteggi del cantiere certosino di S. Martino. E pur ammettendo che Azzolino non fosse riuscito a intestarsi neppure una piccola parte di quella impresa, come invece vorrebbe De Dominici scambiandolo stavolta, forse, con Bernardino Cesari, le prime prove note del suo catalogo denuncerebbero, nondimeno, una conoscenza nient’affatto superficiale di Belisario Corenzio e dell’attività napoletana del Cavalier d’Arpino (Leone de Castris, 1991, pp. 286, 311).
Nel 1599 portò a termine la prima commissione pubblica di un certo rilievo, oggi perduta, affrescando, insieme a Giulio dell’Oca, la cupola, i pennacchi, gli sguanci delle finestre e i pilastri della chiesa dello Spirito Santo a Napoli (p. 320).
A giudicare la qualità del lavoro sarebbe stato, come prescritto dal contratto, Fabrizio Santafede, che proprio in quell’anno tenne a battesimo Gabriele, primogenito del pittore (ibid.).
Ancora nel 1599 il Siciliano ricevé 60 ducati da Pompeo Calvanico per «la pittura deli quadri dela intempiatura dela ecclesia de Santa Maria la Nova»: il pagamento è stato posto in relazione con la Presentazione al Tempio nel soffitto della medesima chiesa francescana, opera da ricollegare al disegno preparatorio oggi alla National Gallery di Ottawa (inv. 277; Leone de Castris, 2010, pp. 43, 46, 49 s. note 1-5).
Alla lezione arpinate sembrano in parte riconducibili anche i cicli decorativi, non più perfettamente leggibili, delle tre cappelle nella chiesa napoletana di Gesù e Maria, cui Azzolino lavorò entro il primo decennio (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 245 s. note 32-34). La cappella intitolata a S. Raimondo di Peñafort è di committenza ancora ignota (1603-04 circa), mentre le due successive sono legate, su base documentaria, al patronato di Giovan Battista Ambrosino (1605-06) e di Marco Romano (1609-10).
L’influenza del realismo addomesticato del Santafede emerge invece, più chiaramente, in alcune tra le maggiori pale azzoliniane di questi anni, quali la guasta Madonna con i ss. Tommaso d’Aquino e Caterina d’Alessandria della citata cappella Ambrosino (1605), la Circoncisione della chiesa del Rosario di Palazzo, e finanche la Pentecoste, firmata, della chiesa di S. Francesco a Caiazzo (Ferrante, 1979).
Altrettanto precoce deve considerarsi l’esecuzione di una negletta pala d’altare dell’Azzolino, ancora inedita, oggi conservata, purtroppo ridotta a lacerto, nel ‘passetto’ della sagrestia dei Girolamini. L’opera, raffigurante l’Incontro tra i ss. Filippo Neri e Carlo Borromeo, andrebbe identificata, de plano, nell’ancona di identico soggetto già attribuita al Siciliano nelle antiche guide della città e a lungo esposta sull’altare della cappella dei Ss. Carlo e Filippo ai Girolamini, prima di essere sostituita, all’inizio del Settecento, dalla pala di Luca Giordano ancora in situ.
Il dipinto è del resto menzionato nel testamento inedito dettato dal padre filippino Carlo Lombardo, titolare della cappella, nel 1682 (Archivio di Stato di Napoli, Corporazioni religiose soppresse, Girolamini, 6268, cc. 392r-396v, in partic. c. 395v); mentre l’ipotesi di una cronologia ‘alta’ è confermata, oltre che dal dato di stile, anche dalla documentata presenza dell’ancona nella chiesa oratoriana fin dal 1617 (M. Borrelli, Contributo alla storia degli artefici maggiori e minori della mole gironimiana, V, 1968, pp. 71, 82 s.).
Nel secondo decennio del Seicento alcune fra le più cospicue pale d’altare della produzione azzoliniana denunciano un legame ben saldo con la cultura tardocinquecentesca e con la tradizione ‘riformata’ di Santafede. Basti pensare alla monumentale Madonna del Rosario della basilica napoletana di S. Maria della Sanità, eseguita su commissione di Porzia Galeota tra il 1612 e il 1614 (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 248 nota 38), o alla Madonna d’Ognissanti della cappella Muscettola al Gesù Nuovo di Napoli, dipinta ancora, verosimilmente, entro gli anni Venti (p. 238 nota 15). A questa fase è da riferire la Madonna col Bambino sull’altare del coro della Ss. Trinità dei Pellegrini (N. Spinosa, Il patrimonio artistico, in L’Augustissima Arciconfraternita ed Ospedali della SS. Trinità dei Pellegrini e Convalescenti di Napoli, Napoli 2006, pp. 89-153 (in partic. pp. 93, 111).
Eppure, mentre Azzolino dava vita a questo commovente e «lindo mondo di sante giovinette, di diaconi devoti e di angeli bambini», dagli altari napoletani «già tuonavano le grandiose pale del Battistello e degli altri caravaggeschi» (Previtali, 1978, pp. 122 s.), nei confronti dei quali il Siciliano, specie come pittore di quadri da stanza, non dovette mai essere del tutto indifferente. Lo dimostrano in primo luogo, nei dipinti di questi anni, gli echi riconducibili alla conoscenza diretta delle opere napoletane di Michelangelo Merisi. La Madonna del Rosario della cappella Romano al Gesù e Maria (1609) sembrerebbe difficilmente concepibile senza il celebre prototipo caravaggesco ora a Vienna ma documentato a Napoli, nel settembre del 1607, in conto vendita nella bottega dei fiamminghi Abraham Vinck e Louis Finson (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 246 nota 32). Ugualmente, le diverse versioni azzoliniane del Martirio di s. Orsola paiono debitrici della rivoluzionaria iconografia della S. Orsola Doria. Né si potrebbe dubitare delle perspicue desunzioni caravaggesche nel Martirio di s. Apollonia del conservatorio di S. Giuseppe a Genova, specie nella figura dell’aguzzino inginocchiato, scoperta citazione dalla Flagellazione De Franchis in S. Domenico Maggiore (Ferrante, 1988).
Ulteriori suggestioni naturalistiche riscontrabili nei dipinti di questi anni, talvolta declinate in un’accezione più grottesca di possibile filiazione nordica, sono state ragionevolmente spiegate anche grazie alla sopraggiunta familiarità con Jusepe de Ribera (Farina, 1999b), che nel 1616 sposò una delle figlie dell’artista, Caterina, e poté forse fare affidamento, per i primi tempi del suo soggiorno a Napoli, proprio sulla bottega bene avviata del suocero. Sempre in merito al sodalizio fra suocero e genero basti qui aggiungere, al di là delle acquisizioni più note (Causa, 1991; Id., 2007, pp. 31-58, figg. 7 s., 13-18, 134), la vicenda del Compianto nel presbiterio della chiesa dei Girolamini (di cui esiste un’ulteriore redazione, ma di bottega, nella cappella del Crocifisso a Vallo della Lucania): invenzione evidentemente ricalcata sulla celebre Pietà dello Spagnoletto ora alla National Gallery di Londra (Farina, 2014, pp. 167 figg. 67 e 211, 173, 236 nota 424).
È presumibile, stando a una serie di documenti ancora inediti, che il Compianto dei Girolamini appartenesse alla collezione del sarto monopolitano Giovan Domenico Lercaro, donata ai padri dell’Oratorio nel 1623 (M. Borrelli, Contributo, cit., pp. 40 s., 50 s., 64 s.). Come ne faceva parte, con ogni probabilità, il Matrimonio mistico di s. Agnese nella quadreria dei medesimi Girolamini, che è ora possibile mettere in relazione con un pagamento inedito eseguito da Lercaro a favore di Azzolino nel 1612 (Archivio storico del Banco di Napoli - Fondazione, Banco di Santa Maria del Popolo, Giornale di cassa, matr. 92, 20 aprile 1612, p. 588).
Un aspetto importante della recente vicenda critica di Azzolino ha riguardato lo speciale rapporto che legò l’artista, per la vita, al nobile genovese Marcantonio Doria (Farina, 2001). In una lettera del 1608 questi è definito «compare» del Siciliano (V. Pacelli, Le evidenze documentarie (e i rapporti artistici fra Napoli e Genova agli inizi del Seicento), in V. Pacelli - F. Bologna, Caravaggio, 1610: la “Sant’Orsola confitta dal Tiranno” per Marcantonio Doria, in Prospettiva, 1980, n. 23, pp. 24-30, in partic. p. 29 nota 22), ma è probabile che la conoscenza fra i due rimontasse molto più indietro. Risalgono al 1600, infatti, i rapporti di amicizia fra Giovanni Bernardino e la famiglia Massa, di origine ligure, cui apparteneva il più noto fra i procuratori di Marcantonio a Napoli, Lanfranco, anch’egli collezionista di opere dell’Azzolino (Farina, 2001, p. 212). Né è improbabile che il tramite fra il pittore e il suo grande patrono fosse stato, assai per tempo, un mecenate della levatura di Matteo Di Capua, principe di Conca, del quale è stata di recente documentata una commissione in avorio ad Azzolino scultore risalente al 1595 (S. De Mieri, Girolamo Imparato (1549 ca.-1607) ed altre questioni del tardo Cinquecento napoletano, tesi di dottorato, Università degli studi di Napoli Federico II, a.a. 2004-05, p. 139 nota 766). È noto, infatti, come Di Capua intrattenesse importanti relazioni economiche con Agostino Doria, padre di Marcantonio, al pari dei rapporti che in quel tempo a Napoli aveva stabilito con la famiglia genovese il poeta Giovan Battista Marino, al servizio del principe di Conca dal 1596 (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 230 s.).
Grazie a Marcantonio, Azzolino, suo figlio Gabriele e il genero Ribera furono coinvolti nella decorazione, oggi in gran parte perduta, del complesso napoletano della Ss. Trinità delle Monache (1623-31), dove era entrata, con il nome di suor Orsola, Livia Grimaldi, l’amata figliastra di Doria, al quale furono affidati, del cantiere, l’appalto e l’intera fornitura dei marmi (pp. 242-245 note 26-31). Ma è l’inventario della collezione di Marcantonio, stilato nel maggio del 1620, a rappresentare la testimonianza più eloquente dell’interesse del mecenate per Azzolino. La prestigiosa raccolta contava infatti ben cinquanta opere del Siciliano (di cui tre copie), che ne era di gran lunga l’artista più rappresentato (Farina, 2002, pp. 144-147, 159 s. note 185-201, 230-232).
L’elenco menziona anche, sorprendentemente, ritratti e paesaggi del pittore, ma è ragionevole credere che un numero significativo di quelle occorrenze inventariali vada riferito alla fortunata attività di ceroplasta dell’Azzolino, in parte già ricondotta anche su base documentaria entro l’orizzonte collezionistico di Marcantonio (Farina, 1999a).
Se si esclude la già citata partecipazione al cantiere della Trinità delle Monache, non sono molte le commissioni pubbliche di Giovanni Bernardino che a partire dal terzo decennio meriterebbero una particolare menzione. Tra queste occorre segnalare almeno: il S. Paolino che libera gli schiavi del Pio Monte della misericordia, commissionato da Carlo Seripando nel 1626 (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 233 nota 3); il S. Domenico che distribuisce i rosari della chiesa napoletana di S. Pietro Martire, collegato a una polizza del 1627 (p. 249 nota 40); l’Annunciazione del monastero delle suore turchine di Genova, eseguita per conto di Marcantonio Doria nel 1633 (Leone de Castris, 1991, p. 321); e finanche la più tarda Efficacia del rosario della cattedrale di Acerra, documentata al 1640 (S. De Mieri, in Acerra. La Cattedrale, a cura di G. Barrella, 2013, pp. 86-88).
La qualità tutt’altro che svettante della pala acerrana non esclude che l’opera fosse condotta grazie al vasto concorso della bottega del Siciliano (Farina, 2001, pp. 221 fig. 1, 222 s. nota 38): sorte comune, questa, a molte delle commissioni rivolte all’atelier del maestro e destinate alla provincia del viceregno.
Morì a Napoli il 12 dicembre del 1645 e fu sepolto nella fossa dei confratelli della Congregazione della Madonna dei Sette Dolori in strada S. Spirito di Palazzo (Prota-Giurleo, 1953, p. 141).
Fonti e Bibl.: R. Soprani, Le vite de’ pittori scoltori, et architetti genovesi, e de’ forastieri, che in Genova operarono..., Genova 1674, p. 312; P.A. Orlandi, L’abecedario pittorico..., a cura di A. Roviglione, Napoli 1733, p. 239; B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani (1742-1745 circa), a cura di F. Sricchia Santoro - A. Zezza, II, Napoli 2003, pp. 736 s. nota 3, 907 s. nota 10, III, 1, 2008, pp. 229-256 (note di commento a cura di V. Farina); U. Prota-Giurleo, Pittori napoletani del Seicento, Napoli 1953, pp. 123-151; G. Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame, Torino 1978, pp. 122 s. figg. 169-173, 157-160 note 97-98; F. Ferrante, Aggiunte all’Azzolino, in Prospettiva, 1979, n. 17, pp. 16-30; Ead., Giovan Bernardino Azzolino tra tardomanierismo e protocaravaggismo. Nuovi contributi e inediti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, pp. 133-141; S. Causa, Due schede per Giovan Bernardino Azzolino, in Paragone, XLII (1991), 497, pp. 77-80; P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, pp. 285-321; V. Farina, Fortuna italiana e straniera dei ‘Novissimi’ di Giovan Bernardino Azzolino, in Dialoghi di storia dell’arte, 1999a, nn. 8-9, pp. 126-139; Ead., Giovan Bernardino Azzolino: il mancato soggiorno genovese e l’interesse per Ribera, in Prospettiva, 1999b, nn. 93-94, nn. monografici: Omaggio a Fiorella Sricchia Santoro, II, pp. 158-164; Ead., «Unica spes mea Iesus post Iesum Virgo Maria». Affinità elettive tra un mecenate ed un pittore, Marcantonio Doria e Giovan Bernardino Azzolino, in Aprosiana. Rivista annuale di studi barocchi, n.s., IX (2001), n. monografico: Il gioco segreto. Studi e documenti sulla cultura italiana tra XVI e XVII secolo in memoria di Giorgio Fulco, pp. 211-230; Ead., Giovan Carlo Doria promotore delle arti a Genova nel primo Seicento, Firenze 2002, pp. 144-147, 159 s. note 185-201, 230-232; S. Causa, La strategia dell’attenzione. Pittori a Napoli nel primo Seicento, Napoli 2007, pp. 31-58, figg. 7 s., 13-18, 133 s.; P. Leone de Castris, Giovan Bernardino Azzolino disegnatore, in Le dessin napolitain, a cura di F. Solinas - S. Schütze, Roma 2010, pp. 43-50; V. Farina, Al sole e all’ombra di Ribera. Questioni di pittura e disegno a Napoli nella prima metà del Seicento, I, Castellammare di Stabia 2014, pp. 120-125, 139 fig. 169, 140 figg. 170-175, 144-147, 162 s. figg. 202-204, 167 figg. 67 e 211, 173, 179, 230-232 note 286-315, 234 s. note 373-381.