Giovanni Boccaccio: Decameron, Filocolo, Ameto, Fiammetta - Introduzione
Fino a pochi anni or sono la critica erudita accettava per buoni gli indovinelli autobiografici che il Boccaccio si era compiaciuto di inserire nei suoi scritti giovanili. Interpretando ingegnosamente le oscure indicazioni cronologiche, alzando il velo delle allegorie, sciogliendo gli anagrammi, ricomponendo pazientemente i frammenti dispersi del difficile mosaico e soprattutto sforzandosi di conciliarne alla meglio le discrepanze e le contraddizioni interne, si illudeva di aver definito con sufficiente certezza le linee di una vita non priva di un suo fascino avventuroso e poetico, di cui i momenti salienti eran rappresentati dalla nascita misteriosa dello scrittore a Parigi, frutto illegittimo degli amori di un mercante toscano e di una gentildonna francese (o addirittura sangue del re di Francia), e dalla sua relazione a Napoli con Fiammetta, cioè con una Maria figlia naturale di Roberto d'Angiò andata sposa nella casa dei conti d'Aquino. A guardar bene, tuttavia, permanevano in tale ricostruzione troppi punti oscuri, troppe integrazioni congetturali si rendevano necessarie per far combaciare alla meglio le tessere di un intarsio, che mutava figura ad ogni passo e modificava i tratti e gli atteggiamenti e le vicende dei più vistosi personaggi della leggenda (basti pensare all'Elegia di madonna Fiammetta, dove la donna lusingatrice e fedifraga dei primi romanzi diventa d'un tratto la donna sedotta e tradita, costringendo i biografi a postulare un assurdo capovolgimento dei termini reali della relazione); e, ciò che più importa, diventava sempre più arduo il compito di metter d'accordo gli elementi della favola autobiografica con gli scarsi documenti e con le testimonianze più attendibili dei contemporanei (la nascita parigina è contraddetta dalla concorde attestazione di tutti i biografi più antichi; il nome di Maria d'Aquino è del tutto ignoto ai genealogisti di quella pur illustre casata). I nuovi eruditi hanno avuto pertanto buon gioco a demolire il fragile castello messo insieme faticosamente dai loro predecessori e a discriminare le poche notizie certe tra le molte favole cresciute su un terreno di ingegnosa e sognante letteratura.
Ormai tutti ammettono che Giovanni sia nato nel 1313 (la data si ricava con sicurezza da un'epistola del Petrarca) a Certaldo, o forse a Firenze, da una relazione illegittima del mercante Boccaccio di Chellino. Trascorse l'infanzia nella casa del padre, dove ebbe primo maestro Giovanni da Strada. Adolescente ancora, fu inviato a far pratica mercantile a Napoli, presso la compagnia dei Bardi, potenti banchieri della corte angioina. In un luogo famoso del Degenologia deorum (xv, io) lo scrittore narra d'aver consumato invano sei anni in quella pratica e altrettanti poi nello studio del diritto canonico: «l'animo mio era così restìo a queste cose, che nulla potè mai inclinarlo all'una o all'altra delle due professioni, tutto preso com'era invece da una singolare affezione per gli studi poetici. Non un capriccio improvviso, bensì un'antichissima disposizione del mio spirito, era quella che lo faceva tendere con tutte le sue forze alla poesia . . . Alfine, quasi maturo d'età e divenuto padrone di me stesso, senza nessuno che mi spingesse, anzi contro la resistenza di mio padre che condannava tale studio, imparai da solo quel poco che so della poetica e mi applicai ad essa con grandissima avidità e vidi e lessi e mi sforzai per quanto potevo d'intendere i libri dei poeti». È da pensare che proprio questi studi intrapresi col fervore appassionato dell'autodidatta, e il culto della cortesia e dei gentili costumi che essi sembravano recare con sé, gli aprissero la via non pure alla familiarità dei dotti e dei grammatici di corte, sì anche alla frequentazione delle nobili brigate avide di svaghi e di lusso, ma pure non aliene dal gusto delle novelle, delle rime e dei giochi dell'ingegno: più tardi poteva vantarsi d'esser vissuto, lui borghese, «a Napoli... intra nobili giovani», i quali non si vergognavano di visitarlo e di frequentar la casa dove egli viveva «assai dilicatamente» (Epist. 12). La critica ha potuto bensì chiarire l'inconsistenza della bella fiaba con cui il Boccaccio s'era sforzato di colorire e adornare l'umiltà delle sue origini e della sua condizione sociale, ma non può distruggere l'importanza di questa vocazione solennemente affermata né sminuire il significato di questo appassionato tirocinio poetico e mondano; mentre invano s'adopera poi a ridurlo in un tessuto di aride schematizzazioni letterarie, quando tutta la produzione giovanile dello scrittore sta a dimostrare quale vivace e varia sostanza di affetti non libreschi, quale trama di passioni liete e dolorose, presieda fin da principio alle fantasie del romanzatore in prosa e in versi e le illumini e le riscaldi con il sapore di un'esperienza anche troppo immediata e a tratti invadente, determinando non pur la materia, ma l'indirizzo e il tono della sua arte. Chi, dopo aver lacerato la tela leggera delle allegorie autobiografiche, pensa di poter ricondurre senza residui quel gioco d'invenzioni al puntuale e pedantesco riecheggiamento di una serie di modelli consacrati, s'illude e si preclude ogni via a penetrar davvero nel cuore della poesia, e dell'umanità, del Boccaccio. E contro tale illusione e fraintendimento sarà anzi da riaffermare senza paura la sostanziale verità delle confessioni dello scrittore, il loro profondo valore di autobiografia non esteriore e aneddotica, ma intima e tanto più schietta quanto più è capace di renderci, insieme con i particolari della vita vissuta, anche i sogni, le speranze, le inquietudini, le delusioni di una giovinezza che persino nei libri cerca soprattutto il riflesso di una splendente avventura reale. Sta di fatto che è proprio l'esperienza vissuta a determinare le simpatie del letterato, a circoscrivere il campo delle sue letture, a dare un'impronta caratteristica e singolare alla sua cultura. Cultura, non di grammatico, ma di poeta, fin da allora, e poi sempre; non schifìltosamente latina e umanistica, ma aperta a tutte le voci della cultura romanza, dalla lirica d'amore e da Dante fino alle traduzioni e ai rimaneggiamenti dei racconti francesi e dei favo- lelli e fino ai cantari popolari, e anche nei latini avida sopra ogni cosa delle voci più appassionate e fantasiose, più spregiudicate e più pittoresche o drammatiche: l'Ovidio delle Metamorfosi e delle Eroidi, il Seneca tragico, Apuleio. Umana dunque, e non rettorica, mondana e popolare, anche nelle forme (la prosa di romanzo e l'ottava dei cantari), pur nello sforzo di sollevar quelle forme a un grado inconsueto di dignità letteraria, è la genesi prima delle scritture napoletane del Boccaccio, dalla Caccia di Diana al Filocolo, al Filostrato, fino alla Teseida (condotta a termine, o almeno riveduta, a quanto sembra, dopo il ritorno a Firenze).
A interrompere bruscamente quel fervore di vita e di studi sopravvenne nel 1340 la crisi dell'azienda dei Bardi e dei Peruzzi, che costrinse il Boccaccio a rientrare nella casa paterna; ma la miseria, che d'or innanzi non lo abbandonerà più, e le nuove cure che da quel momento lo avvincono all'ambiente familiare e cittadino, non valsero per altro a modificare l'indirizzo della sua vita, sì se mai a definire in maniera più precisa e piena il suo gusto di concretezza e l'indirizzo realistico della sua arte, trasportandoli in un ambiente meno stilizzato e cavalleresco e riflettendoli in un gioco più aperto, più vario e spregiudicato di passioni e di interessi. Poco sappiamo, anche per questo periodo, dei casi materiali della sua esistenza (nel '46 era a Ravenna, alla corte di Ostasio da Polenta; nel '47 a Forlì, presso Francesco Ordelaffi); ma i libri ch'egli compose allora, dall' Ameto all' Amorosa visione, all'Elegia di madonna Fiammetta, al Ninfale fiesolano stanno ad attestare il lento progresso di un'attività letteraria, ancora legata a moduli e ambizioni libresche, ma sempre più aperta ad accogliere la realtà della storia e della cronaca, sempre più impegnata alla rappresentazione minuta delle cose e degli affetti, sempre più libera nella scelta e ardita nello sviluppo delle sue invenzioni. A Firenze era di nuovo nel '48, durante la peste, e negli anni immediatamente successivi diede ordine e forma al Decameron. che consacrò presso i concittadini la sua fama.
Dopo il '51 la sua vena poetica sembra esaurita. Il primo incontro con l'ammiratissimo Petrarca, avvenuto appunto nella primavera di quell'anno, e la devota amicizia che d'allora in poi lo lega all'aretino; la stanchezza di una precoce vecchiaia; l'urgenza sempre maggiore di una sistemazione economica che lo sottragga almeno in parte alla precarietà delle sue condizioni familiari, si alleano a determinare nel Boccaccio un rivolgimento spirituale profondo, una nuova disposizione dell'animo grave e severa, per cui si viene a poco a poco distogliendo dalle esperienze e dalle passioni giovanili ed è indotto persino a ripudiare parzialmente le sue opere fantastiche. Alla nuova conquistata gravità del cittadino illustre si adeguano gli incarichi solenni che il comune gli affida con crescente fiducia: ambasciatore presso i signori della Romagna nel '50, camerlengo nel '51 e rappresentante per l'acquisto di Prato e poi presso Ludovico di Baviera; di nuovo ambasciatore presso i papi ad Avignone nel '54 e nel '65 e a Roma nel '67. Intanto ottiene gli ordini minori e nel '60 l'autorizzazione a ricevere benefici con cura d'anime. La letteratura, come invenzione e analisi di umane esperienze, è ormai lontana dal suo interesse; sottentra in parte, sull'esempio e dietro lo stimolo del Petrarca, il culto umanistico della sapienza e della moralità degli antichi: proprio intorno al Boccaccio nasce e si svolge il cenacolo più attivo dell'umanesimo fiorentino, con Coluccio Salutati, Filippo Villani, Luigi Marsili. E pur tuttavia anche in questa disposizione nuova qualcosa dell'antico sopravvive; il suo umanesimo curioso di notizie e di fatti, la sua dottrina un po' avventurosa e sempre aperta alle voci più varie e discordanti, il suo moralismo stesso più inquieto e polemico e intimamente tormentato sono assai diversi da quelli del Petrarca. Gli è venuto meno con gli anni il gusto appassionato e spregiudicato delle avventure e delle passioni, quella capacità di partecipazione piena che era alla radice del suo fervore creativo ; ma non il gusto della poesia in cui quel mondo di avventure e di passioni si riflette placato in forme di classica armonia. Il Corbaccio, composto a breve distanza dal capolavoro, pur sotto il travestimento aspramente polemico e attraverso il sincero desiderio di una moralità più salda e severa, risente ancora, nella materia e nel tormento realistico dello stile, di quelle esperienze terrestri che avevano dominato l'attività precedente dello scrittore. Le scritture latine e volgari della maturità si sforzano di ritrovare il valore e la funzione morale della cultura e della poesia; pur vi si avverte superstite un bisogno di concretezza, una vena, o almeno una nostalgia, di narrazioni; e non solo in quelle tutte intessute di aneddoti, come il De claris mulieribus e il De casibus virorum illustrium, sì anche nei grandi repertori eruditi composti in servizio dei lettori di testi poetici, il De genologia deorum e il De montibus, nel Commento al poema dantesco e nel Trattatello in laude di Dante. Di tanto la letteratura del Petrarca tende al generale, alla traduzione in chiari simboli e in ferme sentenze dell'esperienza sentimentale, d'altrettanto invece quella del Boccaccio, anche nella vecchiaia, tien fermo al particolare, accumula e analizza i fatti. E mentre si direbbe che l'aretino sia portato a poco a poco a risolvere la poesia in moralità, la sostanza degli affetti personali in una sorta di astratta simbologia; il certaldese invece trasporta anche nel moralismo dei tardi anni la sua inquieta curiosità, il suo estroso fantasticare. Lo studium poesis, e proprio della poesia come narrazione di casi umani, ritratto di caratteri, rappresentazione di cose e descrizione psicologica, rimane fino alla fine al centro della sua personalità e della sua cultura. Alla quale d'altronde è sempre estraneo l'intransigente esclusivismo del Petrarca, il suo rigore classicistico: anche vecchio, involge in una medesima ammirazione Dante e gli antichi, rievoca con sapore le favole antiche e moderne, prende argutamente le difese del suo Ovidio, s'avventura nello studio della lingua greca e di Omero. Quando la morte lo coglie, nel suo rifugio di Certaldo, il 21 dicembre 1375, i contemporanei, per bocca di Franco Sacchetti, avvertono che con la sua dipartita è venuta meno la voce più genuina e più calda della poesia italiana.
*
Nel proemio al Filocolo il Boccaccio dichiara d'aver preso a narrare ancora una volta la storia di Florio e Biancofiore, affinché «la memoria degli amorosi giovani» e la «gran costanza de' loro animi» fosse «esaltata da' versi d'alcun poeta», mentre fino a quel momento era stata « lasciata solamente ne' favolosi parlari degli ignoranti». Alcunché di simile avrebbe potuto agevolmente ripetere per la materia che confluisce in tutte le sue opere fantastiche: le leggende del ciclo troiano nel Filostrato e quelle del ciclo tebano nella Teseida il mondo fiabesco e patetico dei volgarizzamenti e rifacimenti ovidiani, che dal Filocolo ali'Ameto e alla Fiammetta costituisce gran parte dell'eloquenza appassionata dei romanzi e dei poemetti minori; i libri d'Amore, i novellini, i fabliaux, le cronache, l'elegia d'Arrighetto e le allegorie amorose, il ritmo narrativo un po' frettoloso e pedestre dei cantari, il gusto del romanzesco, dell'avventuroso, dell'esotico, del mirabile che tengono gran posto nella letteratura minore delle civiltà romanze. Il gusto e la cultura, che si rispecchiano in questo mondo poetico così composito e un po' torbido, contraddistinguono nettamente fin dall'inizio la fantasia del Boccaccio, rispetto a quelle di Dante e del Petrarca; sia per quanto si riferisce alla disposizione sentimentale eclettica e curiosa, inquieta ed espansiva (laddove in quelli è, sia pur diversamente, tenuta a freno da un rigoroso criterio di scelta), sia per quanto spetta ai modi espressivi decisamente indirizzati al racconto, all'analisi minuta e cordiale delle vicende, degli ambienti, delle figure (mentre nell'Alighieri la rappresentazione dei fatti e degli uomini si condensa in una sintesi drammatica, in funzione di una dottrina e di un'individualità prepotente, e nel Petrarca tutta l'attenzione si rivolge all'interno e si determina in forme liriche). Si potrebbe dire che, di quanto gli altri due grandi tendono a ricondurre energicamente tutto il contenuto poetico alla loro persona, di tanto invece il Boccaccio tende ad espandere la sua esperienza autobiografica e ad obliarla nella contemplazione di una realtà esteriore, nella creazione di una serie di vicende, di paesaggi, di caratteri. Questo significa che la cultura borghese dell'età dei comuni (non genericamente «medievale», come qualcuno ha detto) opera nel certaldese con un rapporto più immediato e diretto; che in lui, più che negli altri, essa si esprime in tutta la sua complessità e in tutte le sue manifestazioni più varie e contrastanti; che egli ne riassume, rendendoli espliciti e chiari, il significato e le aspirazioni e trova le forme più adeguate per corrispondere alle sue esigenze concrete e realistiche e ai suoi ideali di decoro e di raffinatezza: il romanzo e la novella. Non si dimentichi tuttavia che questa disposizione del Boccaccio nei confronti della minor cultura borghese del Due e del Trecento, se è sempre aperta e fiduciosa, non è mai peraltro meramente passiva: dinanzi a quella materia, in cui pur avverte e ama una straordinaria ricchezza di motivi poetici allo stato grezzo, c'è sempre l'artista che reagisce con il suo proposito di ricomporre in una superiore dignità e in una più classica armonia quelle esperienze incondite e disperse, e con la sua educazione tecnica rettorica e lirica laboriosamente foggiata sui modelli della prosa d'arte latineggiante e dei rimatori aulici, e c'è l'uomo con le sue personali esperienze erotiche e mondane, con le sue aspirazioni cortesi e raffinate, con le sue confessioni e i suoi abbandoni. Di qui la duplice tensione che caratterizza lo svolgimento dell'arte boccaccesca fino al Decameron, nello sforzo di raggiungere e di contemperare l'equilibrio degli affetti con quello delle forme, la serenità dello spirito e il ritmo pacato dell'esposizione. Tutta la storia di quest'arte può riassumersi, per una parte, nel contrasto fra un'esperienza sentimentale esuberante tumultuosa e appassionata e l'ambizione di una cultura ricca, ma faragginosa e ancora acerba, fra un'autobiografia invadente e una rettorica tuttora scolastica; e per un'altra parte, nel contrasto, che fino ad un certo punto coincide col precedente, fra la persistenza di motivi lirici (di confessione, elegiaci, patetici) e l'esigenza di un ritmo narrativo robusto ed agile al tempo stesso, umano e pur distaccato. Donde una somma di incongruenze, di incertezze e di scadimenti tonali, che si risolve soltanto nella raggiunta maturità umana e stilistica del capolavoro. Nel quadro di questi contrasti si colloca anche, come problema minore ma persistente, l'esigenza di un organismo in cui vengano a disporsi in una composizione ordinata ed armonica tutte quelle esperienze disperse e di per sé frammentarie, l'esigenza cioè della «cornice», che, intravista e abbozzata nell'episodio delle «quistioni d'amore» del Filocolo e nel piano dell'Ameto, diventerà elemento essenziale e necessario della struttura del Decameron.
Le opere minori, date per intero o parzialmente in questo volume, rappresentano i momenti culminanti di questa ascesa. Nel Filocolo la frattura fra la materia umana, densa di interessi psicologici, e gli artifici formali, è forse più evidente e fastidiosa; anche perché l'esuberanza giovanile dello scrittore vi accumula con minor cautela e vi affastella tutti gli elementi della sua esperienza e della sua cultura, sì che alla fine hai l'impressione che il tenue filo della candida trama amorosa si perda e si vanifichi in un pesante involucro strutturale estremamente dispersivo e squilibrato. Ma qui è anche la ricchezza di questo primo libro, in cui s'avverte una varietà e complessità di motivi, che saranno in parte dimenticati o messi in ombra nelle opere immediatamente successive: il tema delle avventure, dei viaggi in terre lontane, degli ambienti esotici, del mito e della fiaba; ciascuno dei quali tornerà puntualmente nel complesso organismo del Decameron. D'altra parte, già nel Filocolo possiamo assistere, pur nell'intreccio ancora acerbo delle più varie esperienze stilistiche, al lento costituirsi di un ritmo prosaico e narrativo, che asseconda, nelle pagine migliori, la semplicità e le sfumature delle situazioni psicologiche e crea i primi esempi di un dialogo vivo e di una rappresentazione realistica. In seno al romanzo faticoso e composito si svolge e cresce l'embrione della novella.
Il problema dello stile di racconto è già più avanzato nell' Ameto e la forma della novella più piena e sicura, anche se di volta in volta le situazioni narrative tendono a frantumarsi in lenti moduli descrittivi e decorativi e il proposito di un'intrinseca perfezione formale riprende il sopravvento. Lo schema della «cornice» è già attuato nelle sue linee essenziali, ma s'aggrava di intendimenti allegorici e si mescola con un gusto un po' greve di riferimenti personali e di cronaca o pettegolezzo locale. Intanto però il lessico s'arricchisce, il periodo si articola e la sintassi si fa più complessa; il linguaggio acquista una capacità espressiva più intensa e una presa maggiore sulla realtà, esercitandosi su una materia meno aulica e letteraria, più terrestre e sensuosa, più schiettamente fiorentina e borghese.
Nell’Elegia di madonna Fiammetta si attua un ancor più risoluto distacco dell'autore dalla sua esperienza autobiografica, anzi la rinuncia all'autobiografia in nome dello studio accanito, minuto, perspicace di una situazione psicologica definita in tutte le sue gradazioni e in tutti i suoi momenti: nasce il carattere colto nella sua genesi e nel suo sviluppo, visto nel movimento della vicenda e nell'intreccio dei casi, calato nella dialettica della realtà sentimentale. La Fiammetta è una splendida trama di novella, sproporzionatamente diluita in una sorta di ritmo rallentato. Invero lo stesso proposito della narrazione distaccata e obiettiva porta con sé anche un'eccessiva autonomia delle risoluzioni espressive, sentite come problema meramente tecnico, all'infuori di ogni cordiale partecipazione, e il gusto della forma raffinata torna a farsi preminente e si esplica in un'imitazione minuta dei moduli classici, che a volte è addirittura trascrizione letterale di pagine attinte agli esempi latini.
*
Quando il Boccaccio s'accinge a scrivere il Decameron egli è giunto ormai a quel punto supremo della vita, librato tra le affannose esperienze della giovinezza e la riflessione severa e un po' angusta dell'imminente vecchiaia; libero alfine dall'urgenza delle passioni, può lasciarsi andare a ricontemplarle in altrui con quella simpatia che è di chi molto ha provato, ma insieme con quel distacco che gli permette di sentirle, non più come un tormento, sì come un diletto e un conforto estremo dell'animo, prossimo a richiudersi in sé stesso. In questo atteggiamento, descritto nel proemio del libro e attuato nell'atmosfera di libertà e di decorosa spregiudicatezza della «cornice», si risolve il contrasto tra l'autobiografismo e la cultura dello scrittore, e il suo mondo poetico, liberandosi da un interesse opprimente ed esclusivo, può tornare ad aprirsi a una folla di sentimenti diversi. Tutta la cultura borghese, con la sua infinita curiosità dei casi umani e delle umane passioni, con il suo senso terrestre della vita e le sue esigenze di dignità e di decoro, con il suo scetticismo realistico e le sue idealità cortesi, con la sua considerazione indulgente dei vizi e dei valori e i suoi atteggiamenti polemici a volte violenti contro tutte le forme dell'ipocrisia e della corruzione, può essere ora accolta in questo mondo poetico e ordinata in un organismo, che per ampiezza e complessità non ha paragone se non nella Commedia di Dante. Al tempo stesso trova qui risoluzione il contrasto fra schemi lirici e narrativi; scompaiono quasi del tutto gli indugi descrittivi e il gusto dell'ornamentazione fiorita; il ritmo delle novelle raggiunge la sua pienezza in una prosa insieme riposata e scorrevole, sostenuta senza inutili lentezze, artisticamente modulata ma in nessun punto scolastica, flessibile e pronta ad assecondare le varie intonazioni comiche o drammatiche, elegiache o patetiche del racconto. Questa pienezza e maturità dello stile si adegua dappertutto alla ricchezza infinita della materia e all'equilibrio raggiunto della concezione ideale dello scrittore.
Difficile sarebbe indicare un tema in cui si raccolga tutto il senso del libro (l'amore, la voluttà, l'esaltazione dell'intelligenza); ogni insistenza su una formula troppo esclusiva si rivela ben presto inadeguata. Sarà giusto piuttosto dire che la materia vastissima risponde a una visione organica e si dispone in un disegno ordinato, come vide acutamente Ferdinando Neri: dalla polemica aspra nella prima giornata contro i vizi e la corruzione dei grandi, all'elogio nell'ultima degli esempi sublimi di magnanimità e cortesia, attraverso l'esposizione dei « casi vari » della fortuna e delle manifestazioni dell'«umana industria», che alla cieca fortuna si contrappone e la tiene in rispetto e a tratti anche la vince. Nell'ambito di questo disegno, tratteggiato anch'esso con un'ampiezza e duttilità che consente la massima libertà e spregiudicatezza nella scelta dei temi, e d'altronde così consentaneo allo spirito della cultura borghese e comprensivo di tutte le sue curiosità e di tutte le sue riflessioni, si svolge intera la commedia della vita umana, con le sue grandezze e le sue viltà, in un'immensa gamma di situazioni dal sublime al ridicolo. L'unico elemento costante è dato dalla disposizione realistica dello scrittore: anche le rappresentazioni più tragiche e patetiche sono scrutate nella loro radice sensuale e terrestre; anche le più sublimi esaltazioni della liberalità o dell'ingegno si risolvono in una stretta coerenza e in una logica inflessibile di gradazioni psicologiche; il gusto dell'avventuroso e del meraviglioso è contenuto e attenuato dalla vigile presenza di uno spirito borghesemente ironico e scanzonato; il disprezzo per gli animi e le situazioni volgari non esclude l'ammirazione per i tratti di intelligenza che fioriscono inaspettati pur negli ambienti più umili; ogni personaggio è collocato in una ben definita condizione sociale e storica; ogni evento è rigorosamente determinato, sì che anche le situazioni più fiabesche, offerte dalle fonti scritte od orali, acquistino una perfetta illusione di verità. Proprio in questa disposizione realistica si traduce, in quelle forme di generosa obbiettività che sono proprie dei momenti più grandi dell'arte, il vivace fermento polemico della nuova cultura borghese.
Nessun altro libro come questo ci offre, alle soglie della civiltà moderna, una così ampia documentazione di fatti, di figure e di costumi; un quadro così pittoresco e variato, così mobile e profondo della società e della storia di un'epoca. Ma poiché questa disposizione realistica e questo rigore di documentazione si schiudono al vertice di una tormentata esperienza personale, essi comportano ad ogni momento un'intensa partecipazione umana e si risolvono, senza residui, in poesia. Così ricca ed intensa era stata nell'autore del Decameron la ricreazione poetica di una civiltà, la quale contiene in germe tutto lo sviluppo della storia moderna, che l'Europa intera potè lungamente riconoscersi in essa e muoversi a suo agio in quell'orizzonte di idee e di sentimenti e ricavarne infiniti spunti per nuove creazioni fantastiche, determinando la fortuna, che dura ininterrotta da secoli, del libro più vivo della nostra letteratura.