Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il capolavoro di Giovanni Boccaccio è il Decameron – scritto tra il 1349 e il 1351 circa, ma l’ultima edizione manoscritta è del 1370 – una raccolta di novelle che segna l’esordio di un nuovo modo di narrare nella tradizione letteraria italiana ed europea medievale. Numerosi sono i generi letterari sperimentati dallo scrittore, come il romanzo in prosa, il poema epico, il romanzo psicologico, il libro di novelle, il poema in ottava rima, la favola pastorale, il trattato, la satira misogina. La sua vita si svolge tra Firenze e Napoli, durante l’ascesa del ceto mercantile e la nascita di un nuovo movimento culturale, debitore del magistero petrarchesco: l’umanesimo.
Giovanni Boccaccio
Il naufragio di Alatiel
Decameron, II, 7
I marinari, come videro il tempo ben disposto, diedero le vele a’ venti e del porto d’Alessandria si partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la Sardigna passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si levarono subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre modo impetuoso, sì faticarono la nave dove la donna era e’ marinari, che più volte per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni arte e ogni forza operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì sostennero; e surgendo già dalla tempesta cominciata la terza notte, e quella non cessando ma crescendo tutta fiata, non sappiendo essi dove si fossero né potendolo per estimazion marinaresca comprendere né per vista, per ciò che oscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdrucire.
Per la qual cosa, non veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun sé medesimo e non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello più tosto di fidarsi disponendo, che sopra la isdrucita nave, si gittarono i padroni; a’ quali appresso or l’uno or l’altro di quanti uomini erano nella nave, quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi colle coltella in mano il contradicessero, tutti si gittarono; e, credendosi la morte fuggire, in quella incapparono; per ciò che non potendone per la contrarietà del tempo tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono. E la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdrucita fosse e già presso che piena d’acqua (non essendovi su rimasta altra persona che la donna e le sue femine, e quelle tutte per la tempesta del mare e per la paura vinte su per quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo, in una piaggia dell’isola di Maiolica percosse; e fu tanta e sì grande la foga di quella, che quasi tutta si ficcò nella rena vicina al lito forse una gittata di pietra; e quivi dal mar combattuta, la notte, senza poter più dal vento esser mossa, si stette.
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giovanni Boccaccio
Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a ferire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli.
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giovanni Boccaccio
Guccio Imbratta e la Nuta (Frate Cipolla)
Decameron, VI, 10
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l’usignolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l’avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò. E ancora che d’agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de’ fiorini più di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d’avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente.
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giovanni Boccaccio
Messer Torello
Decameron, X, 9
Ma, essendo già tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico con un beveraggio, e fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava, gliel fece bere; né stette guari che addormentato fu. E così dormendo fu portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso una grande e bella corona pose di gran valore, e sì la segnò, che apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello, nel quale era legato un carbunculo, tanto lucente che un torchio acceso pareva, il valor del quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere, il cui guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio gli fe’ davanti appiccare, nel qual erano perle mai simili non vedute, con altre care pietre assai; e poi da ciascun de’ lati di lui due grandissimi bacin d’oro pieni di doble fe’ porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose, le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno. E questo fatto, da capo baciò messer Torello, e al nigromante disse che si spedisse; per che incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu tolto via, e il Saladino co’ suoi baroni di lui ragionando si rimase.
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giovanni Boccaccio
Conclusione
Decameron
Conviene nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici giovinette come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga. Esse, per non ingannare alcuna personar tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono.
Giovanni Boccaccio, Decameron
Giovanni Boccaccio nasce a Firenze o probabilmente nella vicina Certaldo, paese d’origine della famiglia paterna. Nella sua formazione intellettuale determinante è stata l’influenza di due poeti, che egli considera suoi imprescindibili maestri: Dante Alighieri e Francesco Petrarca. Boccaccio ha otto anni alla morte di Dante (nel 1321) e solo una decina d’anni lo separano dal più anziano Petrarca. Del modello letterario dantesco egli conserva il gusto per la sperimentazione stilistica, mentre da Petrarca, conosciuto nel 1350, trae soprattutto insegnamento per gli studi della tradizione classica. Nel 1327 si trasferisce a Napoli, dove rimarrà fino al 1340-1341, a seguito del padre che era stato chiamato alla corte di re Roberto d’Angiò per attività bancarie legate ai Bardi. Tra il 1327 e il 1328 fa pratica mercantesca e bancaria nella succursale dei Bardi.
Alla corte angioina, invece, conosce Cino da Pistoia, professore di diritto civile e amico di Dante e di Petrarca, grazie al quale ha l’occasione di estendere in più direzioni le proprie conoscenze letterarie: la biblioteca regia, innanzitutto, gli permette di accedere facilmente agli autori classici e ai principali autori della letteratura mediolatina e sapienziale e, al contempo, la stessa vita intellettuale di corte lo invita alla lettura dei testi della tradizione letteraria in lingua d’oc e d’oïl . Da questa prospettiva egli ha modo di conoscere le diverse aspirazioni della società aristocratica e della società mercantile, che promuovono valori assai differenti, ma ugualmente influenti: la più attuale e spregiudicata ricerca del guadagno e l’intraprendenza della nuova “borghesia mercantile” da un lato e, dall’altro, il fascino esercitato dai più antichi e lontani ideali cortesi, che si richiamano alle virtù della magnanimità e della generosità. In questi fervidi anni di formazione Boccaccio scrive numerose opere: la cosiddetta Elegia di Costanza (1332), la Caccia di Diana (1334), le prime rime, il Filocolo (1336-1338), il Filostrato (la cui data di composizione oscilla tra il 1335 e il 1339) e il Teseida (1339-1341).
Tra il 1340 e il 1341 è costretto a lasciare Napoli e si trasferisce a casa del padre. Lascia varie volte Firenze per recarsi a Ravenna e a Forlì. Dopo un resoconto sulla spedizione del capitano Nicoloso da Recco nelle isole Canarie (De Canaria, 1342) si misura con Dante in opere di impianto allegorico come la Commedia delle ninfe fiorentine (1342) e l’’Amorosa visione (1342-1343). Tra il 1343 e il 1344 scrive un componimento in prosa (l’Elegia di Madonna Fiammetta) e tra il 1345 e il 1346 un poemetto mitologico-eziologico (il Ninfale fiesolano). Nel 1348 è testimone di un evento drammatico: Firenze, come gran parte delle città della penisola, viene colpita dall’epidemia di peste nera. Boccaccio si salverà, ma la tragedia di un’umanità lacerata e agonizzante resta impressa come una profonda ferita nel Decameron (1349-1351): il percorso umano e letterario delle sette narratrici e dei tre narratori ha inizio simbolicamente a partire dal 1348 e dal crudo resoconto, quasi cronachistico, della devastazione provocata dalla peste. Boccaccio, ormai riconosciuto e stimato intellettuale fiorentino, è impegnato in missioni diplomatiche: nel 1350 è inviato presso i signori di Romagna per promuovere una simbolica iniziativa a favore della figlia di Dante, suor Beatrice. Nello stesso anno con altri letterati fiorentini incontra Francesco Petrarca: è l’inizio di una lunga amicizia. Del carteggio fra i due amici resta una testimonianza significativa: Petrarca, dopo aver letto il Decameron, scrive a Boccaccio due lettere che contengono alcune importanti riflessioni poetiche sull’opera e che racchiudono una prova narrativa petrarchesca: una rielaborazione in latino della novella di Griselda (X, 10). Questa novella riscritta da Petrarca in latino – e con un nuovo titolo: De insigni et fide uxoria – avrà una circolazione straordinaria in tutta Europa.
Nel 1351, sempre in qualità di ambasciatore, si reca a Padova da Petrarca per offrirgli, senza successo, una cattedra presso lo Studio fiorentino. Nel 1360 prende gli ordini minori e diventa chierico: sono gli anni della trascrizione di importanti codici latini: la sua casa diventa una sorta di centro di studi preumanistici. Della sua eterogenea attività umanistica rimangono due Zibaldoni manoscritti. Dal 1355 si dedica a diverse opere dal carattere erudito. A partire dal 1360 scrive il Trattatello in laude di Dante, una biografia del poeta sotto forma romanzesca, e le Esposizioni sopra la Commedia, ossia le lezioni tenute nel 1373 sui primi 17 canti dell’Inferno nella chiesa di Santo Stefano di Badia a Firenze.
L’ultima opera in volgare è, invece, un breve pamphlet contro le donne: il Corbaccio (tra il 1355 e il 1366/1367). Ma Boccaccio continua a lavorare ancora al Decameron e consegna ai posteri un prezioso manoscritto autografo: il Codice Hamilton 90 (del 1370), ora conservato nella Staatsbibliothek di Berlino. Muore a Certaldo il 21 dicembre 1375.
La prima opera di Boccaccio è scritta in latino: l’ Elegia di Costanza (scritta nel 1332 ca.), in cui lo scrittore si misura con Ovidio, con Seneca e con la letteratura mediolatina. Negli stessi anni comincia a scrivere brevi componimenti poetici in volgare.
La prima opera letteraria d’invenzione in volgare è la Caccia di Diana (1334): un poemetto in terzine dantesche diviso in diciotto brevi canti. Il periodo che segue è contraddistinto dalla ricerca di una vena narrativa sia in prosa sia in versi. Il Filocolo (1336-1338), in prosa, ha come protagonisti due giovani innamorati, Florio e Biancifiore, già protagonisti di un cantare in volgare italiano, intitolato Florio e Biancifiore. È la storia di un amore contrastato. Nelle molte avventure per riconquistare Biancifiore, Florio assumerà il nome di Filocolo, che nell’imperfetta conoscenza del greco doveva significare per Boccaccio: “fatica d’amore”. Il giovane Filocolo, troverà l’amata e si realizzerà come uomo, ma dopo un lungo viaggio. In una dimensione avventurosa trovano spazio molte riflessioni amorose: in particolare nel gioco delle “questioni d’amore” l’amore diventa argomento di discussione, secondo uno schema narrativo che maturerà nel Decameron.
Con il Filostrato (1335-1339), Boccaccio sperimenta l’ottava rima, un modello metrico e narrativo, prelevato dai cantari e dai cantastorie popolari, che egli rilancia per narrare in versi temi amorosi ed epici. Qui l’autore riprende un episodio della guerra di Troia – plot narrativo già utilizzato da altri autori – che egli rielabora con un maggiore risalto alla storia amorosa dei due protagonisti (Troiolo e Criseida). Troiolo è un innamorato sfortunato (alias Filostrato, cioè “vinto da amore”) che muore d’amore. Con il Teseida (1339-1341) lo scrittore propone ai lettori un poema epico in volgare, scritto in ottava rima sul modello dell’Eneide di Virgilio (70 a.C. - 19 a.C.). Centro della narrazione è la contesa tra due prigionieri tebani, Arcita e Palemone, che si sfidano per conquistare l’amore di Emilia. Alla fine del XII libro (Teseida, XII, 84) lo scrittore afferma di essere il primo ad avere scritto un poema epico in volgare italiano.
Poco dopo sperimenta con la Commedia delle ninfe fiorentine (1342) un altro modello metrico e letterario: il prosimetro. Qui le ninfe narrano a un rozzo pastore (Ameto) storie d’amore che, narrate con grazie e virtù, lo trasformano in un uomo sensibile e di piacevole aspetto. Con la successiva Amorosa visione (1342 e il 1343), lo scrittore si misura con il metro di Dante. Il percorso visionario scelto da Boccaccio (che è anche personaggio della sua opera, come Dante lo era nella sua Commedia) è molto diverso da quello dantesco, quasi rovesciato: alla fine non otterrà la beatitudine divina, bensì l’intimità, tutta sensuale, dell’amata Fiammetta. La donna diventa poi la protagonista di un’altra opera in prosa: L’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-1344). In una lunga lettera la protagonista (Fiammetta) racconta la sua infelice storia d’amore. Con l’Elegia lo scrittore ripropone al suo pubblico di lettori il modello elegiaco latino, tratto dall’opera di Ovidio, Heroides (Eroine), ma coniugato con l’immaginario cortese. Così Fiammetta esprime un’inconsolabile malinconia con un tono nuovo per la letteratura in volgare, che non si risolve né in un epilogo tragico né in un lieto fine. È un’opera aperta che ha come oggetto il racconto, disperato e ossessivo, di un’angoscia d’amore.
Il Decameron è una raccolta di narrazioni brevi (cento novelle), contenute e organizzate da una narrazione più lunga (la cosiddetta “cornice”). La cornice narrativa ha come protagonisti dieci giovani (sette donne e tre uomini) che, minacciati dall’epidemia di peste del 1348, decidono di lasciare Firenze per rifugiarsi nelle vicine colline fiesolane.
Nell’articolato insieme di cornice e di novelle il Decameron è un’opera dalle molteplici direzioni, che convergono su un progetto ideale e poetico: l’incanto della parola può sospendere il tempo reale, curare la malinconia amorosa, dilettare e, al contempo, insegnare e, infine, può rigenerare l’animo contro la paura, la distruzione e la morte.
Il Decameron inizia, così, con un “orrido cominciamento”, che dovrà condurre il lettore a un “piano dilettevole”. Nell’Introduzione lo scrittore racconta l’epidemia che ha colpito Firenze nel 1348 (l’“orrido cominciamento”) e l’incontro nella chiesa di Santa Maria Novella dei giovani: sette donne (Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile, Elissa) e tre giovani uomini (Panfilo, Filostrato e Dioneo). È l’inizio della storia della “lieta brigata”, che viene generalmente definita come “cornice narrativa”, perché è l’architettura che sostiene o incornicia il molteplice materiale narrato. La macrostruttura dell’opera è, infatti, costituita dal racconto dei dieci giovani, che decidono di raccontare a turno una novella al giorno per dieci giorni. Lo stesso titolo, dal tono grecizzante, è un neologismo che esprime il tempo in cui è suddivisa la narrazione: Decameron ossia “dieci giornate”. Ogni giorno, infatti, viene eletta una regina (o un re), che stabilisce le regole di convivenza e i temi, sui quali tutti gli altri devono narrare. Tutti tranne uno: il più trasgressivo Dioneo chiede e ottiene la libertà compositiva. La cornice è ambientata in uno scenario meraviglioso e ideale, volutamente in contrasto con la dura e cupa realtà storica: le colline fiesolane riprendono il classico locus ameonus, i narratori si siedono in circolo su prati verdeggianti, all’ombra di alberi e tra fontane o corsi d’acqua. La prima giornata è a tema libero, mentre la seconda ha come tema l’avventura a lieto fine; la terza giornata è dedicata all’ingegno e all’abilità; la quarta giornata presenta un’ampia introduzione in cui Boccaccio si difende dalle molte accuse rivolte alla sua opera ed è dedicata agli amori infelici; la quinta giornata è dedicata agli amori a lieto fine; la sesta giornata è dedicata ai motti di spirito; la settima giornata è dedicata alle beffe delle mogli ai loro mariti mentre nell’ottava alle beffe in generale. La nona giornata è a tema libero e, infine, la decima giornata è dedicata alla cortesia e alla liberalità.
Seguendo il percorso compiuto dalla brigata i narratori si muovono tra i due estremi dell’“orrido” e del “dilettevole”: dalla morte e dalla paura al sereno ritorno a casa. Dalla prima alla centesima novella i narratori toccano tutti gli aspetti della vita: dall’ironico cinismo di ser Ciappelletto (I, 1) al magnanimo ed enigmatico esempio di Griselda (X, 10), dalle peripezie dettate dalla Fortuna (II e III giornata), ai casi (fortunati e sfortunati) di Amore (IV e V), dalla forza dell’Ingegno (VI, VII e VIII) a quella della Magnanimità (X).
Il Decameron presenta una comunicazione letteraria complessa, dove al destinatario esterno (le donne lettrici) si aggiunge un destinatario interno (i narratori della brigata), mentre l’autore implicito (Boccaccio) afferma di trascrivere i racconti, narrati da altri (i dieci narratori e ascoltatori). L’intero corpus narrativo viene gestito da una sorvegliata regia editoriale, che contiene molti elementi di novità, ripresi, in parte, da altri modelli di organizzazione testuale. L’idea della rubrica, che precede le novelle, ad esempio, è ricavata dalla struttura editoriale delle enciclopedie medievali e, in generale, dei testi patristici. La cornice, che distingue il Decameron dalle altre raccolte mediolatine e romanze di racconti brevi, proviene dall’esempio macrostrutturale dei grandi testi di racconti orientali (come le Mille e una notte, il Panchatantra o il Libro dei sette savi). E, infine, la novella, come genere narrativo, viene rielaborata a partire da un insieme molto vario di forme narrative brevi occidentali e orientali, variamente composto da diversi temi e strutture: le sue sono “novelle o favole o parabole o istorie”, come spiega lo stesso autore nel Proemio.
Nel Proemio e nella Conclusione Boccaccio presenta la novella quasi come un organismo vivente, capace di adattarsi alla complessità della realtà e del suo immaginario. La sua opera è come un “campo ben coltivato”, che può contenere le “erbacce”, ma anche le “erbe migliori”. Le cento novelle, in altre parole, restituiscono la multiforme varietà della vita con una libera scelta di sviluppi possibili, attraverso il suggerimento di una lettura episodica e discontinua. Di là dall’ordine prestabilito della brigata l’autore suggerisce alle sue lettrici di leggere prima le rubriche per scegliere poi, la lettura più adatta.
Tra Proemio, Introduzione alla IV giornata e Conclusione egli chiarisce che le sue novelle sono state raccontate e poi scritte per consolare, per distrarre e infine per offrire qualche utile consiglio a tutte le “donne malinconose” e innamorate, che leggono per diletto, per consolazione e infine sognano, fantasticano e inventano. Le sette narratrici, insieme con i tre giovani narratori, raccontano non solo per meditare sulle cose del mondo, ma anche per giocare con gli elementi più vitali dell’esperienza umana e con la concretezza del piacere del cibo, della danza, del canto. L’individuazione delle donne come destinatarie dell’opera, la rappresentazione dell’oralità narrativa, le finalità narrative (consolazione, diletto e utilità) e la riflessione sullo stile sono tutti elementi che rivelano una matura consapevolezza critica.
Il mondo delle novelle si estende su una mappa geografica che comprende l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, il Mediterraneo, la costa mediorientale, persino il lontano e fantastico Oriente. Sono molti i personaggi che attraversano il Mediterraneo, trascinati da avventure incessanti (come la bella Alatiel – II, 7 – o come il fortunato Landolfo Rufolo – II, 4) o trasportati grazie a un incantesimo, dalla reggia di Salah ad-din (1138-1193), sultano del Cairo alla chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia (messer Torello X, 9). L’effetto di realtà, che emerge dalle accurate descrizioni d’ambiente o dai ritratti dei personaggi, sempre vividi e concreti, si alterna a un effetto di irrealtà, dovuto all’irruzione improvvisa di una visione mirabile, di un aspetto fantastico e meraviglioso. In queste novelle prende vita l’incantesimo delle parole, che fa comparire nell’immaginazione delle lettrici e dei lettori la possibilità di superare i confini conosciuti con storie di naufragi, di mari in tempesta, di pirati, di isole deserte, di abbandoni e di ritrovamenti, di ricchezze favolose.
A questo aspetto avventuroso le narratrici dedicano molta attenzione, aggiungendovi anche una nota visionaria, macabra ed estrema. È Filomena, ad esempio, a introdurre il macabro con la ripugnante descrizione del cadavere di Ambrogiuolo, mangiato vivo dai tafani. Sempre di Filomena è la novella di Lisabetta da Messina, che coltiva in un vaso di basilico la testa dell’amante o quella di Nastagio degli Onesti (V, 8) e della visione collettiva di una caccia infernale. Ed è Emilia che racconta la novella di un giardino magico (X, 5), mentre Elissa immagina la ricca terra di Bengodi. La fuga dalla realtà della morte aiuta la fantasia a creare mondi altri, lontani, meravigliosi. Ma il Decameron è anche il luogo della realtà più concreta, resa da un registro stilistico molto vario: dal tono retorico e umanistico delle parti introduttive, allo stile espressionistico del parlato di molte novelle, fino al gioco della deformazione linguistica. Lo scrittore, come spiega nella Conclusione, ambisce a usare la sua penna come il pennello di un pittore: così come il pittore riproduce la realtà il più fedelmente possibile, anche la sua prosa è incentrata su una mimesi realistica e corposa.
Uomini o donne, mercanti o pensatori, nobili o plebei, chierici o laici, tutti i personaggi decameroniani imparano ad affrontare con coraggio e con astuzia la confusione della vita. I mercanti viaggiano, esplorano nuovi orizzonti culturali e si dedicano all’azione con ottimismo, secondo una massima che Boccaccio così sintetizza: “meglio fare e pentersi che starsi e pentersi” (II, 4).
La prontezza di spirito, celebrata in tutta l’opera, non si manifesta solo nella capacità di vivere mirabili avventure. Amore e Fortuna sono le principali forze che trascinano l’umanità, come il caso “picaresco” del giovane Andreuccio da Perugia (II,5) e di molti altri. La soluzione dei grovigli avventurosi deve scaturire dall’abilità degli stessi protagonisti e dalla capacità di risolvere situazioni complesse con l’azione della parola. Un’abilità che è chiamata da Boccaccio “industria” (tema della III giornata). Dalla sesta all’ottava giornata i narratori raccontano come uomini e donne di diversa origine si confrontano e si sfidano attraverso le battute di spirito (VI giornata), l’invenzione di beffe (VII giornata) e di controbeffe (VIII). Qui si ritrovano tutte le classi sociali, dagli esponenti più antichi del mondo feudale e cavalleresco alla più recente borghesia comunale dei mercanti e alla categoria dei nuovi intellettuali, cui appartengono gli stessi narratori della brigata e come dimostra la celebre novella dell’aristocratico Cavalcanti (VI, 9). Insieme ai re e alle regine si muove un’umanità eterogenea che dal basso (tra serve, servi, ladri, artigiani, umili lavoratori) giunge agli ambienti universitari (con giuristi, medici e studenti) e alle famiglie aristocratiche. Qui persino un re (il longobardo Agilulfo III, 2) può essere beffato dal suo stalliere e un giovane monaco beffare il suo abate (I, 4), così come la moglie può farla al marito con l’aiuto della giustizia (Madonna Filippa VI, 7), un frate ingannare un marito per godere della moglie (VII, 5) oppure beffare un intero paese per amor del guadagno (Frate Cipolla, VI, 10). Con la beffa, dunque, lo scrittore celebra in modo scanzonato e magistrale l’ingegno o l’industria dei suoi personaggi. D’altronde il Decameron esordisce nella prima novella con il più grande e spregiudicato tra i beffatori: ser Ciappelletto, che riesce a ingannare un santo frate con una falsa confessione, resa in punto di morte. Nel Decameron, dunque, trova posto anche il mondo clericale (con abati, badesse, suore e frati) che si mescola a quello laico. Lo spirito irriverente dello scrittore colpisce duramente l’ipocrisia del clero. Nelle sue novelle frati e suore ingannano o si abbandonano al piacere, abusando spesso del proprio ruolo. Come Boccaccio dimostra con la metanovella delle papere (Introduzione della quarta giornata) l’eros è una pulsione irrazionale, difficile da negare, anche per eremiti, monaci e monache.
Non sono solo l’ironia, l’astuzia, la beffa o l’erotismo a caratterizzare il commercio tra gli uomini e le donne, poiché tutti, anche i personaggi di bassa condizione, possono riscoprire nell’amore, nella condivisione di ideali e di virtù un terreno comune.
Un’intera giornata è dedicata agli amori infelici (la quarta), mentre in altre novelle vengono raccontate storie di teneri innamoramenti, di grandi amicizie e di generose prove d’amore. Nella quinta giornata la nobile figura di Federigo degli Alberighi proietta il sentimento amoroso su uno sfondo del tutto diverso, introducendo il duplice tema dell’amore e dell’etica cavalleresca. Mentre la decima giornata è dedicata alla generosità e alla magnanimità: dove tutto acquista una dimensione ideale: i re sono giusti (re Piero, re Carlo e re Alfonso), i banditi sono generosi (Ghino di Tacco), i ricchi magnanimi e disponibili (Mitridanes e Natan), i cavalieri con il loro amore riescono a far rivivere donne apparentemente morte (Gentil Carisendi), i casi di amicizia sono esemplari (Tito, Sofronia e Gisippo o messer Torello e il Saladino) e persino una guardiana di pecore può resistere per molti anni alle angherie di un marchese, con enigmatico distacco (Griselda). L’eco dantesca della tensione ideale e spirituale degli “spiriti magni” del Limbo e delle anime magnanime del Paradiso, chiude il percorso della brigata che dalla morte (l’“orrido cominciamento”), risorge alla vita (il “piano dilettevole”). Da Ciappelletto, definito l’uomo peggiore mai nato sulla terra, a Griselda, la donna più mite ed enigmatica: una metamorfosi necessaria per guardare con fiducia al futuro e per immaginare un nuovo inizio.
Negli anni successivi al Decameron Boccaccio dedica il suo impegno alle opere enciclopediche scritte in latino e allo studio dei classici. Lo Zibaldone Magliabechiano, che contiene appunti e trascrizioni, conferma lo studio di questi anni, mentre le lettere (latine e volgari) contengono il vario dispiegarsi dei suoi studi umanistici.
Tra il 1349 e il 1367 scrive il Buccolicum carmen, una raccolta di 16 ecloghe scritte sulla falsariga di Virgilio, riproposto negli stessi anni dal Petrarca. Oltre a un inventario della cultura geografica classica (il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus, et de nominibus maris liber, 1355-1360) tra il 1355 e il 1373 Boccaccio si dedica al De casibus virorum illustrium (una raccolta di biografie di uomini illustri) e a partire dal 1361 il De mulieribus claris (una raccolta di biografie di donne illustri). Le Genealogie deorum gentilium, composte in varie fasi tra il 1350 e il 1372, sono un trattato latino di mitografia, suddiviso in quindici libri. Ogni libro ha un proemio che presenta la divinità prescelta e introduce la riflessione morale, religiosa e storica corrispondente all’esempio mitologico. Il progetto umanistico è evidente nel mosaico delle fonti, che da Aristotele a Petrarca comprende quasi duecento autori latini e mediolatini.
L’ultima opera creativa in volgare dello scrittore è il Corbaccio, scritta fra il 1355 e il 1366-1367, fondata su un radicale sentimento misogino. La parola “corbaccio” può derivare da “corvo”, uccello malaugurante, oppure dal latino corba, parola oscena sinonimo di “nicchio” o ancora dallo spagnolo corbacho, “frusta”. Nelle due ultime ipotesi si tratterebbe di un riferimento al tema trattato, che riguarda da un lato l’amore senile dell’autore per una vedova (per il latino “corba”) e dall’altro l’aspra invettiva o “frustata” contro tutte le donne (dallo spagnolo “corbacho”). Il Corbaccio sorprende il lettore del Decameron perché giunge a interrompere una linea narrativa che, fino a quel momento, riconosceva nell’amore verso le donne uno dei fulcri più vitali e positivi del suo immaginario. Qui l’amore, specialmente in età matura, viene interpretato secondo una chiave di lettura moralistica, nella convinzione della sua dannosa inutilità. La narrazione si sviluppa infatti come un trattato, che ha uno scopo dichiaratamente didascalico etico-religioso: dimostrare la pericolosità che si cela dietro la falsità del genere femminile.
Nel rovesciare in maniera parodica tutta la retorica dell’amor cortese lo scrittore compie il ritratto della donna più brutta e ripugnante che un uomo possa immaginare. A confermare, però, il sereno e consapevole interesse per l’affresco decameroniano resta l’immagine del Boccaccio chino sul manoscritto delle sue novelle, per ritoccare e anche per illustrare quell’umanità libera, viva e molteplice che anima le pagine della sua e della nostra immaginazione.