Botero, Giovanni
Nato nel 1544 a Bene (Cuneo), in una famiglia piemontese di umile condizione, compie gli studi nei collegi gesuitici, a Palermo e poi al Collegio Romano. Insegna giovanissimo retorica e filosofia in vari collegi della Compagnia in Italia e in Francia (a Billom e Parigi dal 1565 al 1569).
Uomo dal temperamento scontroso, B. è ripetutamente richiamato all’ordine e sanzionato dalla sua gerarchia, che ne apprezza però le doti intellettuali.
Dal 1570 insegna a Milano, dove riceve gli ordini maggiori, e dal 1573 a Padova, dove termina gli studi di teologia. Gli viene rifiutato ripetutamente l’invio nelle missioni estere così come la professione dei voti solenni. Vive come una punizione l’invio al collegio di Torino nel 1579; dopo vari urti provocati dallo stesso B., il conflitto con i superiori si inasprisce e si giunge a una definitiva rottura nel settembre 1580. È allora il cardinale Carlo Borromeo ad aiutarlo: lo nomina prima vicecurato, poi vicario foraneo a Luino – dove B. scrive il De regia sapientia, la sua prima opera politica –, lo integra nella Congregazione degli oblati, lo nomina infine all’importante funzione di «primo segretario» (sett. 1582). B. prosegue parallelamente la sua attività di trattatista, con varie opere di retorica, epistolografia, omiletica e filosofia morale, che rispecchiano i principi dell’autorevole arcivescovo ambrosiano, secondo un indirizzo improntato ad ascetismo morale, fino alla morte di questi nel novembre 1584. È allora il duca di Savoia a sceglierlo per una missione diplomatica riservata in Francia, presso gli esponenti della Ligue. Di ritorno in Italia a fine 1585, è di nuovo al servizio della famiglia Borromeo, presso la quale gli viene affidata la formazione di Federico, che assiste in curia nell’accesso alla porpora (1587), e in seguito nelle sue attività di neo-cardinale sotto il pontificato di Sisto V. B. si integra rapidamente nell’ambiente curiale: accede all’ufficio di consultore della Congregazione dell’Indice nel 1587, ed esercita ripetutamente le funzioni di ‘conclavista’, consigliando Federico Borromeo nei quattro conclavi succedutisi tra il 1590 e il 1592. Scrive a Roma le sue opere più famose: Delle cause della grandezza delle città (1588), Della ragion di Stato (1589) e Le Relazioni universali (pubblicate in quattro parti, dal 1591 al 1596). Di nuovo a Milano dal 1596, dopo la nomina di Federico al vertice di quella sede arcivescovile, B. è dal 1599 incaricato dell’educazione dei figli del duca di Savoia Carlo Emanuele: comincia così una nuova vita di corte a Torino dove trascorre gli ultimi anni (tranne tre trascorsi alla corte di Spagna) esercitando vari uffici curiali, beneficiando di cospicue rendite abbaziali e redigendo diverse opere appartenenti al genere della biografia politico-militare in stile agiografico ed edificante. Muore il 23 giugno 1617.
M. ha una presenza decisiva nei due principali trattati politici di B. che si dichiarano entrambi in contrasto con le idee del Fiorentino.
De regia sapientia (1583). Fin dall’epistola dedicatoria a Carlo Emanuele redatta nel 1583, il De regia sapientia annoda al tema occasionale delle guerre contemporanee nelle Fiandre la questione più generale «della ragione con la quale si dirige uno Stato» (de ratione reipublicae gerendae) e «l’opinione, o piuttosto eresia» di M., secondo la quale «se il re vuole mantenere salva e incolume la sua maestà non deve contenere la ragione del suo governo (administrationis suae rationem) entro i confini dell’Evangelio» (De regia sapientia 1583, dedicatoria, s.p.). A rigor di termini, il dialogo De regia sapientia potrebbe anche essere considerato come il primissimo trattato della ragion di Stato, sei anni prima della pubblicazione del vero e proprio Della ragion di Stato (1589): la «ragione» dello Stato viene già concepita come generico sapere del governo, associata al nome di M. e rifiutata finché opporrà alla religione le regole della politica. Obiettivo di B. è contrapporre una «sapienza regia» pienamente cattolica alla ratio reipublicae gerendae di cui M., «uomo intelligente, certo, ma poco cristiano» (hom[o] sane ingenios[us] sed parum Christian[us]), sarebbe il rappresentante. Però, ben lungi dal conciliare la politica con i principi evangelici, questa sapienza consiste in realtà nell’assunzione del principio religioso come massima forza per l’istituzione e la conservazione dei regni: non solo «religio est omnis principatus fundamentum» (Sententiae insignes, s.p.), ma la religione è la fonte della forza vera e propria degli Stati, cioè della loro potenza militare. Ciò che B. prende precipuamente di mira in seno all’opera machiavelliana è l’individuazione della religione cristiana e della Chiesa come fattori di debolezza per gli Stati italiani. Sottinteso in tutta l’opera, il tema è discusso in un capitolo centrale del primo libro (I 7: In Nicolaum Machiavellum digressio), introdotto dopo aver «dimostrato» la piena dipendenza da Dio dei regni temporali, delle guerre e delle vittorie dei re. Respinta ogni interpretazione pacifista della religione cristiana, questa viene presentata come «scuola di virtù militare e di fortezza bellica» (Vasoli 1992, p. 47), sulla base di due idee principali: l’immagine veterotestamentaria e profetica del «Dio degli eserciti» e la valorizzazione della superiore virtù bellica di chi disprezza la vita terrena e non ha motivo di temere la morte giacché essa gli dà accesso alla vita eterna.
La forza di questa promessa che estende oltre la morte la certezza della continuità e di una felicità assoluta e perfetta è considerata, dal Botero, la più forte motivazione per una virtù militare molto superiore a quella dei pagani e degli eroi antichi, così esaltati dal Machiavelli e posti così spesso come ‘exempla’ (Vasoli 1992, p. 47).
Il De regia sapientia appare solo esteriormente un rifiuto del pensiero machiavelliano e ne costituisce invece una revisione all’interno di un quadro segnato da due principi fondamentali del Fiorentino: l’importanza politica della religione e il ruolo centrale assegnato alla vis militare. Paradossalmente, nel riassegnare al cattolicesimo armato dell’epoca delle guerre di religioni quei caratteri che M. riservava invece alla religione dei Romani, B. sembra far sua la lezione del Segretario. Si tratta di una riflessione che, pur legata all’assoluta supremazia della divinità sulla storia umana, presenta un’immagine della religione concretamente mondana e politica.
Della ragion di Stato (1589). Questa linea di pensiero permea ancor più profondamente Della ragion di Stato, aumentando così la tendenziale ambivalenza del rapporto tra B. e M., tra aperta condanna e tacita riappropriazione. La lettera dedicatoria al principe arcivescovo di Salisburgo (10 maggio 1589) reitera il topos della conversazione politica a corte,
or di qua, or di là da’ monti, dove, tra l’altre cose da me osservate, mi ha recato somma meraviglia il sentire tutto il dì mentovare Ragione di Stato ed in cotal maniera citare ora Nicolò Machiavelli, ora Cornelio Tacito:
quello perché dà precetti appartenenti al governo ed al reggimento de’ popoli, questo perché esprime vivamente l’arti usate da Tiberio Cesare, e per conseguire, e per conservarsi nell’imperio di Roma (Della ragion di Stato, a cura di L. Firpo, 1948, p. 51).
Solo allora B. si sarebbe messo a leggere questi autori e avrebbe così trovato «che insomma il Machiavelli fonda la Ragione di Stato nella poca conscienza» (p. 52). Ma se i testi muovono B. «a meraviglia », ciò che in lui suscita lo «sdegno» è il «credito» che i suoi contemporanei danno a «così barbara maniera di governo» e che li conduce a opporla
sfacciatamente alla legge di Dio, sino a dire che alcune cose sono lecite per Ragione di Stato, altre per conscienza.
Del che non si può dir cosa né più irrazionale né più empia, conciosiaché chi sottrae alla conscienza la sua giuridizione universale di tutto ciò che passa tra gli uomini, sì nelle cose publiche come nelle private, mostra che non have anima, né Dio (p. 52).
Se appare chiara la riprovazione dei «precetti» insegnati da M. (e incarnati dal Tiberio degli Annales tacitiani), la condanna pesa ancor più sul loro impiego a servizio di una pretesa autonomia politica rispetto alla legge di Dio. Viene presa di mira l’affermazione di una «giurisdizione» propria al campo pubblico, cioè separata dal foro interno soggetto invece al potere sacerdotale e alle autorità teologiche e canonistiche (come viene sottolineato nel capitolo II 15 Della religione). Non è tanto la diagnosi di tale separazione tra politica e morale nell’opera machiavelliana a costituire il bersaglio di B., quanto l’«empietà» di chi sottrae al controllo ecclesiastico la «ragione» della politica statale e si avvale a tal fine dell’insegnamento machiavelliano. Ecco perché B. non esita a far uso di «precetti» machiavelliani, in particolare nel secondo libro, dove figurano i suoi Capi di prudenza (II 6), il che gli è valsa l’accusa di machiavellismo ipocrita. Anche se in modo diverso rispetto al De regia sapientia, il nodo del contrasto rimane essenzialmente l’accusa volta da M. alla Chiesa, contro la quale B. difende una strettissima alleanza tra Chiesa e Stato. Ciò viene confermato nell’ultimo capitolo, un appello alla guerra contro gli infedeli in cui si ricorda il cattivo esempio dato dal «Machiavello» che «esclama empiamente contra la Chiesa, e contra gli infedeli non apre pur la bocca» (p. 338).
Il terzo passo in cui M. viene citato è di natura diversa. Alludendo a Principe iii 12, B. critica il consiglio dato al principe di «trasportar la sedia della sua persona ne’ paesi acquistati, perché questo non è altro, che un metter a pericolo i sudditi naturali per gli acquistati» e giudica irrilevante l’esempio machiavelliano del Turco «che trasferì la sua residenza da Bursia a Costantinopoli, perché il Turco non ha sudditi naturali e ’l sito di Costantinopoli è il più commodo ch’egli potesse trovare per star in mezzo degli Stati suoi» (iii 4, p. 157). Si tratta in questo caso di una contestazione sul terreno della stretta analisi politica; essa investe sia una regola di governo considerata intrinsecamente pericolosa sia l’argomento che la sottende, fondato su un esempio ritenuto storicamente sbagliato perché erroneamente inteso. Tale notazione mira a invalidare la perizia analitica del Fiorentino e costituisce nello stesso tempo la spia di una conoscenza dettagliata dei suoi scritti, di una discussione dei suoi concetti e perfino di una loro ripresa, molto più frequente di quanto B. ammetta.
Fin dal primo capitolo Che cosa sia ragione di Stato, ma in un’aggiunta che non compare prima della quarta edizione pubblicata a Milano nel 1596, B. propone una definizione dello Stato che echeggia condensandolo l’inciso definitorio di Principe i 1 («e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini»): «Stato è un dominio fermo sopra popoli» (I 1, p. 55). Nel capitolo seguente, si propone una tipologia degli Stati (I 2 Divisione de’ domini) secondo un procedimento dilemmatico ramificato che rinvia naturalmente a Principe i. Ma l’approccio di B. palesa una dimensione machiavelliana ancor più profonda nell’attenzione sempre volta all’effettiva potenza degli Stati, suscettibile di assicurar loro il «mantenimento» autonomo o, al contrario, di assoggettarli alla protezione altrui. Si tratta cioè di sapere, in termini machiavelliani, «se uno principe ha tanto stato che possa, bisognando, per sé medesimo reggersi, o vero se ha sempre necessità della defensione d’altri» (Principe x 1). Così B. distingue le varie «grandezze» degli Stati:
Picciolo dominio è quello che non si può mantenere da sé, ma ha bisogno della protezione e dell’appoggio altrui […] mediocre è quello che ha forze ed autorità sufficienti per mantenersi senza bisogno dell’altrui soccorso […] grandi poi chiamo quegli Stati che hanno notabile avantaggio sopra i vicini (I 2, p. 56).
Ora si tratta di una tipologia strettamente legata a un’idea dell’«indipendenza» reale degli Stati contraria a ogni definizione formalistica della sovranità:
Or l’independenza è di due sorti, perché l’una esclude maggioranza e superiorità, ed in questa maniera il Papa, l’Imperatore, il re di Francia, d’Inghilterra, di Polonia, sono prencipi independenti; l’altra independenza esclude bisogno d’aiuto e d’appoggio altrui, nel qual modo sono independenti quelli, che han forze o superiori, o uguali a’ nemici ed agli emoli loro. Di queste due independenze la più importante è la seconda, perché quella è quasi accidentale ed esterna, questa sostanziale ed intrinseca; quella fa ch’io sia signore assoluto e soprano, questa ch’io sia poderoso e di forze sufficienti alla conservazione dello Stato mio e ch’io sia veramente prencipe grande (IX 2, p. 270).
La definizione della sovranità assoluta in questi termini meramente geopolitici e militari fa venir meno la sua tradizionale individuazione nella formula giuridica del rex superiorem non recognoscens, qui sbrigativamente relegata a puro espediente «accidentale ed esterno». Questo implica la scelta consapevole di un linguaggio e di un indirizzo di pensiero di stretta ispirazione machiavelliana e il rifiuto della dottrina coeva che, proprio con il recupero della tradizione giuspubblicistica medievale, a opera di Jean Bodin, pone il concetto di sovranità al centro della nuova dottrina della République.
Non casualmente il passo citato intende rispondere positivamente alla domanda Se il prencipe debba agguerrire i sudditi o no, titolo di un capitolo in cui B. si dichiara favorevole alle armi proprie e avverso agli eserciti mercenari. Il passo prosegue:
Ora, io non potrò mai esser independente in questo secondo modo, senza forze proprie, perché la milizia forastiera, comunque ella si sia obligata, dependerà sempre più dagli interessi proprii, che da’ tuoi, e così spesso t’abbandonarà ne’ tuoi bisogni, or corrotta da’ nemici […] or ritardata […] or chiamata a casa, per li pericoli della patria […] e non è fuor di proposito il considerare che, essendo queste tali genti mercenarie, vendono a guisa di mercatanti o di bottegai di poca fede l’opera loro, piena d’infinita tara di mille paghe morte o truffate, e di gente di buon mercato, e perciò di poco valore e mal condizionata (pp. 270-71).
Lungi dal difendere, in funzione antimachiavelliana, un’idea della forza fondata su criteri economici, B. accoglie pienamente il pensiero militare del creatore dell’ordinanza fiorentina. Se è vero che l’aumento della ricchezza e delle finanze dello Stato, la cura della popolazione e la conoscenza del territorio contribuiscono ad arricchire notevolmente il concetto boteriano di potenza rispetto a quello machiavelliano, gran parte del trattato – tra i libri VI e X – è costituita da un’arte della guerra che deve molto sia al trattato machiavelliano sia al Principe. B. conserva una concezione romana e machiavelliana dell’esercito, che si esprime tra l’altro nell’identificazione delle «forze» con le «armi» e la «gente», parola il cui significato fluttua dalle truppe all’insieme della popolazione. In questo quadro, ha poco peso il valore antimachiavelliano che si potrebbe attribuire alla difesa dell’utilità delle fortezze (fin dal capitolo VI 2:
«io non so perché alcuni mettano in dubbio se le fortezze siano utili al prencipe», p. 203, allusione del tutto trasparente). L’intero libro VI, dedicato ai modi con i quali «assicurar[si] dalle cause esterne de’ disturbi e rovine degli Stati», si nutre in realtà di numerosi temi machiavelliani e termina con un appello ad armarsi in tempo di pace, particolarmente quando gli altri guerreggiano, nella certezza che «con la pace e con l’accordo di quei che prima guereggiavano tra loro, la tempesta della guerra si scarichi adosso a’ vicini» (VI 17, p. 219). Vari esempi tratti dalle guerre d’Italia e una citazione tacitiana contro la «pace eccessiva, snervante» e pericolosa, giacché «in mezzo ai violenti e ai potenti è sbagliato riposare» (pp. 219-20), concludono il libro VI con parole non immemori di Principe xiv. Lo stesso dicasi per vari luoghi nei libri seguenti, per esempio l’intero capitolo Che nel tesoreggiare non si deve procedere in infinito (VII 10), aggiunto nella terza edizione (Roma 1590).
L’autore vi afferma:
Finalmente io non trovo esempio notabile di Stato perduto perché le siano mancati i denari, ma ben perché la prudenza e ’l valor de’ capitani, la moltitudine e la disciplina dei soldati, la quantità delle monizioni e delle vettovaglie e l’altre forze terrestri e maritime non sono state pari al cumulo dell’oro (p. 234).
Soggiungendo poi che «il denaro si dice nervo della guerra perché unisce le forze e le muove ove bisogna, ma se tu non hai forze a che servirà egli?» (p. 235), B. si mostra ancora in piena sintonia con Discorsi II x. A dimostrazione di una stretta dipendenza machiavelliana si potrebbero allegare ancora alcune spie lessicali inconfondibili. È il caso di certi latinismi cari al Fiorentino. Il ragionamento sulla «potenza e diuturnità dello imperio» che ha spento la memoria degli antichi principati di Spagna, Francia e Grecia, e ha così permesso ai Romani di diventare «sicuri possessori» di queste province (Principe iv 20), non è estraneo alla riflessione per cui «la possanza congiunta con la diuturnità fa che gli uomini, dimenticatisi della loro condizione, aspirino non a quel che debbono, ma a quel che possono o che si pensano potere» (Della ragion di Stato IV 6). Ancor più chiaramente, non si può attribuire a una generica tendenza umanistica che il capitolo Della scelta dei soldati (IX 3) ricorra a un significativo arcaismo adottato da M.: B. può affermare: «Or, la prima via di far i tuoi soldati arditi e valorosi sarà il deletto, o vogliamo dire scelta» (p. 275), solo perché prima di lui il termine era stato così introdotto: «Sendo pertanto necessario prima trovare gli uomini, conviene venire al deletto di essi, ché così lo chiamavano gli antichi; il che noi diremo ‘scelta’, ma per chiamarlo per nome più onorato io voglio gli serviamo il nome del deletto» (Arte della guerra I 120).
Per l’esemplificazione storica nella ragion di Stato, B. ricorre, fra gli altri, agli scritti di Machiavelli. È particolarmente il caso delle Istorie fiorentine, dalle quali B. ricava gran parte degli exempla tratti dalla storia italiana dei secoli precedenti. Si veda per esempio il cap. I 16 (p. 82), in cui viene ripresa l’affermazione parzialmente erronea della creazione del podestà e del capitano del popolo a Firenze dopo la morte di Federico II e il ritorno dei guelfi, con funzioni unicamente giudiziarie (Istorie fiorentine II v 2). O ancora, in VI 10, p. 214, l’uso diretto di passi delle Istorie in cui spiccano i significativi effetti diplomatico-militari delle doti oratorie di Alfonso d’Aragona (V v 8-11) o di Lorenzo il Magnifico (VIII xix 1-2).
Al di là di un antimachiavellismo di facciata in sintonia con l’intera cultura, non solo ecclesiastica, dell’epoca, il trattato Della ragion di Stato segnò il convergere di almeno tre grandi linguaggi, quello dell’ortodossia aristotelico-tomista, quello degli specula principis in versione umanistica e infine quello del pensiero machiavelliano. Una congiunzione certo travagliata, contraddittoria e instabile, che conobbe un successo straordinario e contribuì in modo decisivo all’affermazione del concetto moderno di Stato.
Bibliografia: De Regia sapientia libri tres quibus reipub. bene foeliciterque administrandae continetur, Milano 1583; Della ragion di Stato, a cura di L. Firpo (sulla base dell’ed. Venezia 15987), Torino 1948. Altre edizioni citate: Venezia 1589; Roma 1590; Milano 1596. Per gli studi critici si vedano: F. Chabod, Giovanni Botero, Roma 1934; L. Firpo, Botero Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1971, ad vocem; M. Senellart, Machiavélisme et raison d’État, Paris 1989; Botero e la Ragion di Stato, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992 (con bibl. prec.); C. Vasoli, A proposito della «Digressio in Nicolaum Machiavellum»: la religione come «forza» politica nel pensiero del Botero, in Botero e la Ragion di Stato, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino 1990, a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992, pp. 41-58; R. Descendre, L’État du monde. Giovanni Botero entre raison d’État et géopolitique, Genève 2009.