A Giovanni Botero, ex gesuita dallo spirito inquieto e profondamente religioso, curioso osservatore del mondo e studioso di grande vigore, dotato di buona tempra di polemista, spetta il merito di aver aperto il dibattito sulla ragione di Stato. Con la sua opera (Della ragion di Stato, 1589), egli portò in luce un problema certo non nuovo ma che era riaffiorato con forza e implicazioni inedite. Si trattava dell’eterna questione del rapporto fra utile e onesto, della liceità della trasgressione delle leggi in nome della salute dello Stato, e del confine tra etica e politica, reso più urgente dalla congiuntura europea della seconda metà del 16° sec., dalle conseguenze della crisi dell’universalismo cristiano, dai differenti processi di affermazione delle monarchie territoriali e dal profilarsi di un nuovo modello di sovranità.
Botero nacque nel 1544 a Bene (oggi Bene Vagienna, in provincia di Cuneo), da una famiglia di modeste condizioni. Nel 1559 era nel Collegio dei gesuiti di Palermo e nel 1560 in quello di Roma, dove fece domanda di ingresso nell'Ordine e dove studiò greco, retorica, latino, dialettica, logica e più tardi anche filosofia naturale. La Compagnia lo destinò all’insegnamento della retorica, prima in alcuni collegi italiani di provincia e poi in Francia, a Billom (agosto 1565). Da qui egli mosse per Parigi, dove rimase dal 1567 al 1569, quando, invischiato in un affare di maldicenze e indisciplina, fu richiamato in Italia. Riuscì a evitare l’espulsione dall’Ordine, e venne destinato al Collegio di Milano (1569/70-1573), poi a Padova per gli studi teologici (1573-77) e poi di nuovo a Milano.
In quasi vent’anni di militanza, Botero riteneva di essere stato sempre costretto a incarichi al di sotto dei suoi meriti e irriguardosi delle sue potenzialità. Chiese più volte di essere inviato nelle missioni a conquistare anime o in Germania a convertire gli eretici, cercò a più riprese di ottenere i voti solenni e pretese qualche miglioramento della sua condizione, ma sempre senza soddisfazione. Nel 1580, dopo l’ennesimo incidente diplomatico con i suoi superiori, che questa volta coinvolse anche l’arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Borromeo (1538-1584), lasciò burrascosamente la Compagnia di Gesù.
A salvarlo da un futuro incerto fu inaspettatamente proprio Borromeo, che gli offrì il posto di vicecurato a Luino. Botero seppe nel corso del tempo conquistare la fiducia del cardinale fino a diventarne segretario, e accanto a lui si dedicò a nuovi studi e alla predicazione con spirito e vigore rigenerati. Frutto esemplare di questi anni sono le opere De regia sapientia (1583) e Del dispregio del mondo (1584).
Pochi mesi dopo la morte di Borromeo, al principio del 1585, Botero accettò di tornare in Francia, per incarico del duca Carlo Emanuele I di Savoia, in una missione diplomatica effettuata a fianco dell’ambasciatore René de Lucinge. Se ne congedò con onore nel dicembre dello stesso anno e, rientrato in Italia, venne impiegato da Margherita Trivulzio come tutore del figlio Federico Borromeo (1564-1631). Botero lo accompagnò a Roma e rimase al suo fianco fino al 1598, seguendone la carriera ecclesiastica e servendolo come segretario e, per quattro volte, come conclavista (cioè confidente e consigliere nei conclavi per l'elezione dei pontefici).
La Francia e Roma erano a quel tempo due formidabili laboratori politici, e non è un caso che proprio in questi anni Botero abbia pubblicato i suoi libri più noti, tutte opere destinate a grande fortuna: nel 1588 Delle cause della grandezza delle città, nel 1589 Della ragion di Stato, e infine, tra il 1591 e il 1596, le quattro parti di Delle relazioni universali.
Ormai celebre, Botero sperava di potersi dedicare allo studio senza altre cure, e per questo nel 1599 accettò il nuovo incarico offertogli dal duca di Savoia di seguire l’educazione dei suoi tre figli maggiori, accompagnandoli fra l’altro in un lungo viaggio presso la corte di Spagna (1603-06). Dopo il rientro a Torino, restò al servizio del duca come consigliere politico e precettore dei due figli minori. In quest’epoca della sua vita pubblicò alcune opere di carattere edificante indirizzate ai suoi pupilli, tra cui I prencipi nel 1600 e I capitani nel 1607.
Botero lasciò Torino nel 1614, ufficialmente per motivi di salute, ma in realtà perché, da conservatore e filospagnolo qual era sempre stato, non condivideva la politica del duca, ormai in aperta rottura con la Spagna. Nel 1614 fiaccamente scrisse il Discorso della lega contro il turco, opera ancora dedicata a un Savoia (il cardinale Maurizio), e poi ritornò alla letteratura devota, dando alle stampe Del Purgatorio (1615).
Dopo aver destinato ampia parte del suo cospicuo patrimonio alla Compagnia di Gesù, a cui aveva cercato negli ultimi tempi di riavvicinarsi, Botero morì a Torino il 23 giugno 1617 e, secondo le sue ultime volontà, fu sepolto nella chiesa gesuita dei SS. Martiri di quella città.
Botero giunse a Parigi, nell’autunno del 1567, preceduto dalla discreta fama procuratagli dalla sua produzione poetica, per lo più in latino e di carattere encomiastico o devoto, a cui la Compagnia lo aveva più volte sollecitato. Sebbene anche lì i suoi compiti fondamentali fossero legati all’insegnamento e alla retorica, non vi è dubbio che il salto dalla provincia centro-meridionale d’Italia alla Francia abbia rappresentato per Botero l’incontro con un mondo ben altrimenti fervente: la Francia infatti era afflitta da una crisi politica aggravata dalle guerre di religione, in cui al virulento scontro fra cattolici e ugonotti si aggiungevano, sovrapponendosi, le altrettanto letali inimicizie tra fazioni della nobiltà, ciascuna intenta a conquistare la monarchia alla propria parte. Sembrava che la miscela incendiaria che Niccolò Machiavelli aveva preparato solo pochi decenni prima avesse trovato chi le accendesse la miccia, e Botero si trovava proprio lì dove l’esplosione era avvenuta. Il suo animo sinceramente devoto e fedele al Vangelo e alla Chiesa cattolica ne fu impressionato, ed egli non dimenticò mai più le cose lì viste e sentite.
Più tardi, infatti, in un’opera di tutt’altro sapore e orientamento, scrisse:
Sono alcuni altri che […] fanno professione d’uomini di stato e s’addimandano politici. Non si curano costoro di cielo, non d’Evangelio non della maestà di Dio, non del Regno di Cristo, pur che essi governino e i signori loro portino corona. [...] Come potrà mantenersi questa lor chimera di Regno e di dominio, con una Babilonia di sette e di confessioni circa quel che concerne il colto di Dio? (Del dispregio del mondo, 1584, pp. 18-19).
Era il 1584, e Botero a quel tempo si trovava a Milano, accanto al cardinale Borromeo. Aveva conseguito la laurea in teologia due anni prima, e ora metteva al servizio del prelato – del quale condivideva il modello pastorale e la battaglia per la riforma della Chiesa – non tanto le sue doti di poeta o di insegnante, quanto il suo talento di predicatore.
Il primo segno di questo fedele allineamento era arrivato già nel 1583, con la pubblicazione del De regia sapientia, che, seppure dedicato al duca Carlo Emanuele I di Savoia, era intriso del sentire e delle convinzioni del cardinale Borromeo. Botero vi scriveva che, essendo il potere dei principi derivato da Dio, il primo loro dovere era di rispettare la legge divina e difendere la Chiesa, e chiamava a sostegno delle sue affermazioni l’autorità della Sacra Scrittura, da cui estrapolava citazioni su citazioni, e la testimonianza della storia, di cui citava esempi e aneddoti.
Ora, nel 1584, infervorato di zelo religioso, scriveva sulla necessità di disprezzare le cose del mondo. Intendeva con ciò dire che non ci si doveva affezionare alle cose terrene e alle faccende mondane, e nemmeno alla gloria, alle ricchezze e al piacere che esse potevano procurare, ma si doveva tenere sempre fisso lo sguardo al Cielo e agire solo per meritarsi la ricompensa eterna che unicamente da esso poteva venire. E però, al tempo stesso, quel «mondo» lo chiamava a una più concreta attenzione, perché in esso, luogo di passaggio transitorio ma pur sempre necessario, gli uomini si giocavano le sorti della salute dell’anima, e occorreva perciò che anche i principi sapessero fare la loro parte. Trovavano pertanto spazio in quelle pagine alcune notazioni interessanti, le quali, pur rimanendo senza ulteriori approfondimenti, anticipavano linee di pensiero che più tardi Botero avrebbe ripreso e sviluppato. Qui basterà aggiungere all'osservazione sopra riportata il suo presupposto, e cioè che «non può stare un regno sotto un re se non sta primo sotto un Dio», l’unico vero Dio, ben inteso, poiché, per quanto riguardava la libertà e la tolleranza, Botero le considerava la radice di ogni male (pp. 18-19). Allo stesso modo, Botero predicava dal pulpito che
a cenno di S. D. Maestà non solamente s’amministra lo spirituale, la gratia, e i doni, e le virtù, ma anco e dà e toglie tutte le Signorie e tutti i domini a suo beneplacito. Si rompono le guerre, si fanno le paci, si concludono le leghe tra i Principi, le tregue tra gli esserciti armati, a suo arbitrio. Le republiche, i regni e gl’imperij cominciano, crescono, mancano a suo cenno. […] Ma che essercita egli forse signoria solamente sopra i Prencipi e non s’impaccia de’ particolari? Non si muove foglia d’albero senza suo cenno. Regge e ’l publico e ’l privato. Dà e toglie i domini a’ Prencipi, e le facoltà a’ particolari (Predica per il giorno delle Palme del Regno di Cristo, in Del dispregio del mondo, cit., pp. 205-207).
Per quanto in tali questioni Botero non si fosse allontanato molto dalle convinzioni espresse nel De regia sapientia, il quadro complessivo si arricchiva, e le brevi riflessioni sulle condizioni di stabilità degli Stati di dimensioni medie e grandi o le sparse osservazioni geografiche sono solo alcuni esempi del complicarsi dei suoi interessi, che aspettavano momenti e luoghi più opportuni per chiedere spazio.
È stato notato che i conflitti giurisdizionali tra Carlo Borromeo e i governatori spagnoli per la determinazione delle competenze della potestà laica e di quella ecclesiastica nelle terre della diocesi lombarda hanno probabilmente esercitato una qualche influenza su Botero (Chabod 1934, rist. 1967, p. 294), ma certamente fu il secondo viaggio francese l’occasione più appropriata. Sono ancora ignoti i contenuti della missione diplomatica da lui svolta accanto all’ambasciatore del duca di Savoia, probabilmente legata al convegno di Péronne (marzo 1585) e al ricostituirsi della Lega cattolica (A.E. Baldini, Botero e la Francia, in Botero e la ‘ragion di Stato’ , 1992, p. 339). Quel che è certo è che, nel 1585, in Francia, mentre la crisi politico-religiosa si aggravava, Botero poté trovare gli stimoli e i motivi necessari per approfondire le sue precedenti incursioni nei territori della politica, componendole in un quadro più ampio e complesso. L’urgente evidenza dei fatti, gli scambi intellettuali con l’ambasciatore Lucinge, che lo stimava da tempo, il dibattito fra monarcomachi e politiques, la lettura di Les six livres de la République (1576) di Jean Bodin, non furono poca cosa, ed egli rientrava in Italia, nel dicembre di quello stesso anno, con un prezioso bagaglio di informazioni ma soprattutto con un diverso e più acuto sguardo sul «mondo».
Dedicando Della ragion di Stato a Wolf Dietrich von Raitenau, vescovo di Salisburgo, nipote di papa Pio IV e quindi cugino di Carlo Borromeo e, in secondo grado, anche di Federico Borromeo, Botero scriveva che la sorpresa che lo aveva colto nel sentire «tutto il dì mentovare ragione di Stato» e nel sentire citare a tal proposito «ora Niccolò Machiavelli, ora Cornelio Tacito», lo aveva spinto a cercare nelle pagine di quegli scrittori gli argomenti della loro fama, e che, avendo scoperto che l’uno fondava «la ragione di Stato nella poca conscienza» e l’altro raccontava di come Tiberio «palliava la tirannia a la crudeltà con una barbarissima legge di maestà», la sua meraviglia, lungi dal placarsi, era cresciuta. Egli non poteva infatti capacitarsi di come fosse possibile costruire e spacciare un’arte dei governi contraria all’onestà e alla legge di Dio, quando era chiarissimo che «sottrarre alla conscienza la sua giurisdizione universale di ciò che passa tra gli uomini sì nelle cose publiche come nelle private» era non solo empio ma irrazionale, contrario cioè non solo alle leggi divine ma anche a quelle della natura. Sarebbe stato suo desiderio, proseguiva, mostrare a quali bassezze era giunta la corruzione introdotta dalla diffusione di quella malvagia arte dei governi, ma si era poi risolto a trattare in questo libro prima dei modi che un buon principe deve «tenere per divenir grande e governare felicemente i suoi popoli» (Dedicatoria, in Della ragion di Stato, cit., pp. non numerate).
Nel giugno del 1594, monsignor Goffredo Lomellini, della curia romana, rimprovererà a Botero (in una prolusione sulla ragione di Stato tenuta nell'accademia promossa dal cardinale Cinzio Passeri Aldobrandini) di non «aver trovato [nel suo libro] altro che il titolo» della ragione di Stato; ma la critica, più che giusta, era pleonastica, non solo perché Botero, come visto, aveva spiegato il suo procedere, ma anche perché, si potrebbe dire, la sua idea era racchiusa in un sillogismo che nelle pagine del libro egli aveva svolto più che dimostrato. La dimostrazione non gli era del resto parsa necessaria: l’apodittica verità delle premesse rendeva vera la conclusione: se la ragione di Stato corrisponde alla conoscenza dei mezzi idonei a fondare, conservare e ampliare un dominio, allora per conoscere quella bisogna studiare questi (pp. 1-2), ed egli si era appunto disposto a mostrare quali fossero e come si dovessero usare.
Così Botero riconosceva all’arte dei governi una logica propria, una «ragione», che i principi erano chiamati a esercitare, e la identificava con l’arte di procurare la pace e la tranquillità dei sudditi. La politica, insomma, era per Botero la ragione di Stato bene intesa, distinta dall’altra, quella malvagia: la prima fondata interamente sulla virtù e la coscienza e la seconda sulla poca onestà, la prima mera esecuzione delle ragioni di Dio, della Chiesa e della morale cattolica, la seconda a esse indifferente quando non opposta. E per potersi con più agio e sicuro effetto muovere nelle acque tempestose della politica e della ragione di Stato, Botero consigliava ai principi di non deliberare su alcuna materia che prima non fosse stata vagliata dal «conseglio di conscienza», che avrebbe potuto garantire la conformità della decisione alla volontà di Dio (pp. 90-91). Anche su questo egli non riteneva necessarie grandi argomentazioni, tanto ovvio doveva parergli, e più che argomentare esemplificava, affastellando esempi, tratti dalla storia remota o recente, che da soli sostenessero le sue parole.
Certamente la critica di Lomellini rispondeva a un’esigenza di approfondimento del tema, di cui altri si sarebbero incaricati. Il libro di Botero, infatti, ristampato e tradotto in molte lingue, aprì un dibattito che ancora negli anni Trenta del secolo successivo avrebbe trovato interlocutori e uditori. Molteplici furono le risposte e le correzioni seguite al trattato boteriano, così come molteplici erano i temi e le implicazioni di una formula che, volendo sinteticamente indicare i modi del governo di uno Stato, apriva invece il campo a vastissime e diverse considerazioni. Ma Botero, pur continuando a rivedere il testo del libro, vi apportò solo aggiunte o revisioni formali che non ne intaccarono il senso originario, pago e soddisfatto com'era di aver agganciato la ragione di Stato alla politica e questa alla morale e alla Chiesa cattolica.
La struttura del Della ragion di Stato era certo più complicata di quella del De regia sapientia e Del dispregio del mondo. Giovandosi fin dalla prima edizione dell’apporto del trattato Delle cause della grandezza delle città che, pubblicato l’anno precedente, le avrebbe da allora in poi sempre fatto da appendice, l’opera era intessuta di osservazioni sui popoli, la loro natura, le loro ricchezze, sui modi di tenerli in obbedienza, su come imporre le tasse e 'tesoreggiare', condurre la guerra e conservare la pace, in cui Botero mescolava osservazioni generali a precise notazioni riferite a singoli Paesi, in particolare la Francia e i Paesi Bassi, per le loro note vicende politico-religiose.
La sua resta sempre una prospettiva sulla politica pratica e concreta, le questioni non gli porgono mai il destro per un alto filosofeggiare, scarsa è anche l’attenzione al momento giuridico della vita degli Stati. Su questo, dopo aver ricordato che la giustizia distributiva e commutativa è essenziale per la pace e la tranquillità dei sudditi (p. 24), Botero si limita a consigliare al principe di procurarsi ministri leali e disinteressati, affidando a loro il compito di emettere sentenze (p. 31). Tra le prerogative del principe, piuttosto, egli identifica quella di concedere la grazia, vale a dire di procedere per equità a interpretazioni della legge non letterali ma discrezionali e secondo ragione. Il governo è per Botero ancora gubernaculum, si potrebbe dire: tutto è rimesso nelle mani del principe virtuoso e alla sua intelligenza, la giustizia come la ragione di Stato, ambedue condizionate solo dalla legge divina e naturale.
Il senso della ragione di Stato non cambia rispetto a quello che si poteva intravedere nel breve cenno contenuto nel discorso Del dispregio del mondo, dove Botero l’aveva definita una malizia introdotta dagli uomini al posto della legge di Dio dopo la corruzione del mondo seguita al peccato originale (p. 8). A parte il rinvigorimento del metodo degli exempla, non si può rimproverare a Botero la scarsa coerenza. Equidistante da Machiavelli e da Bodin, egli fondava la ragione di Stato cattolica, e trovava in essa la via di uscita dalla crisi del suo tempo.
De regia sapientia libri tres. Quibus ratio Reipub. bene faeliciterque admnistrandae continetur [...], Mediolani 1583.
Del dispregio del mondo libri cinque […] et due prediche appartenenti all’istessa materia, in Milano 1584.
De morte Ill.mi ac Rev.mi D. Cardinalis S. Praxedis epistola ad [...] D. Andreani Cardinalem Bathorium [...], Mediolani 1584.
Discorso [...] sopra i compimenti fatti dall’illustriss. Cardinale Borromeo nell’ultimo atto della vita sua [...], in Milano 1585.
Delle cause della grandezza delle città libri tre, in Roma 1588.
Della ragion di Stato libri dieci, con tre libri delle cause della grandezza, e magnificenza delle città, Venezia 1589.
Delle relationi universali, 4 voll., in Roma 1591-1596.
I prencipi [...] con le aggiunte alla Ragion di Stato [...], Torino 1600.
La prima parte de’ prencipi christiani [...], Torino 1601.
Seconda parte de’ prencipi christiani [...], Torino 1603.
I capitani [...], in Torino 1607.
Detti memorabili di personaggi illustri, in Torino 1608, 16142.
Discorso della lega contro il Turco [...], Torino 1614.
Del Purgatorio, in Torino 1615.
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