Giovanni Botero
È uno dei due grandi mercantilisti italiani (insieme con Antonio Serra). Pur non esprimendo un progetto nazionale – che in Italia non c’era – egli intuisce quasi tutti i principi fondamentali della politica mercantilista e li enuncia con massima chiarezza: critica del tesoreggiamento e del bullionismo (concezione secondo la quale la ricchezza dello Stato consisteva nel possesso di oro); maggior valore della produzione manifatturiera; sostegno alle esportazioni e al commercio in genere; importanza data al lavoro e all’industriosità. Mentre gli economisti prima di William Petty hanno un approccio empirico, Botero è l’unico a stabilire le politiche mercantiliste come regole generali di comportamento.
Nasce a Bene, oggi Bene Vagienna (Cuneo) nel 1544 da modesta famiglia. A sedici anni entra nella Compagnia di Gesù e subito si segnala sia per il vivacissimo ingegno sia per il carattere irrequieto, perennemente insoddisfatto e litigioso. Per questo suo carattere i gesuiti, abituati a una rigida disciplina gerarchica, lo tengono ai margini, nonostante il riconoscimento delle sue capacità intellettuali, dandogli incarichi di insegnamento (di retorica) e di direzione inadeguati alla sue capacità. Ciò non fa che accrescere l’irrequietezza e la frustrazione del giovane. Intanto prosegue gli studi intensi e inizia la sua febbrile attività creativa componendo lavori letterari e occasionali in volgare e in latino.
Tra frequenti spostamenti e missioni segrete che gli vengono affidate, si vede più volte negata la professione dei voti solenni come gesuita. Nel 1569 prende i voti maggiori. Nel 1579 scrive contro il potere temporale dei papi, suscitando le ire del cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano. Alla fine, dopo un’aperta ribellione, che lo porta a passare due mesi in prigione, nel 1580, concorda le dimissioni dalla Compagnia di Gesù, anche se negli ultimi anni di vita lascerà quasi tutti i suoi beni alla Compagnia. Recatosi a Milano, dove si mette sotto la protezione del cardinale Borromeo, continua l’attività pastorale e la frenetica composizione di opere di ogni genere. Nel 1582 si laurea in teologia a Pavia, diventa ‘moderatore’ dell’Accademia degli Accurati, fondata da Federico Borromeo (nipote di Carlo, futuro cardinale e arcivescovo di Milano), e scrive il De regi sapientia, con dedica a Carlo Emanuele I di Savoia.
Nel 1584 esce, oltre a una serie di prediche, Del dispregio del mondo (classico titolo di opere dell’ascetismo medievale), che verrà tradotto in francese l’anno successivo. Pubblica anche la descrizione degli ultimi giorni di vita di Carlo Borromeo, che ebbe larghissima diffusione. Diventa precettore di Federico Borromeo (che a sua volta gli accorda la sua protezione), si adopera per farlo nominare cardinale. In qualità di suo segretario, parteciperà a diversi conclavi.
Nel 1588 pubblica Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, in tre libri, e l’anno dopo Della ragion di Stato, le due opere che lo hanno reso famoso presso i posteri. La seconda opera è un tentativo, tipico della cultura controriformistica, di conciliare la ragion di Stato con la religione. La parte sui temi economici della Grandezza delle città è riprodotta senza variazioni nella Ragion di Stato. Nel 1598 pubblica le Aggiunte alla Ragion di Stato.
Nel 1591 inizia a far uscire l’altra opera maggiore: esce infatti la prima parte delle Relazioni universali, una descrizione vivissima dei caratteri fisici e antropici dei vari Paesi nel mondo. Le altre parti di quest’opera usciranno rispettivamente nel 1592, 1594, 1596; la quinta, rimasta inedita, venne scritta nel 1611. Anche se dall’esterno, Botero esprime con quest’opera lo spirito tipico dei gesuiti, sul piano internazionale, in quei tempi pionieristici che si concretizzava nella rete di informazioni diramata in tutto il mondo e nella viva curiosità per le culture non occidentali.
Nel 1599 Botero si reca a Torino, al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia, come precettore dei suoi tre figli. Nel 1600 dedica a costoro l’opera I prencipi. Nel 1601-1603 pubblica I prencipi cristiani. Intanto continua ininterrotta la pubblicazione di lavori devoti, di componimenti letterari e poesie, di opere storiche e di altri scritti su svariatissimi soggetti. Muore a Torino il 23 giugno 1617 e viene seppellito per sua volontà nella chiesa dei gesuiti, senza nome sulla tomba.
Ciò che ha reso famoso Botero non sono i numerosissimi componimenti letterari, storici, eruditi, religiosi; né quelli di edificazione politico-religiosa (De regi sapientia, I prencipi, I prencipi cristiani). Egli deve piuttosto la sua fama alla Ragion di Stato, in piccola parte a Le cause della grandezza delle città, e in parte ancora minore alle vastissime descrizioni antropiche e geografiche delle Relazioni universali. A differenza di quasi tutti gli altri lavori, questi tre ebbero una diffusione molto rapida e vasta quando l’autore era ancora in vita, con moltissime ristampe nel sec. 16° e per tutto il sec. 17°.
Le Relazioni universali nacquero a seguito della richiesta del cardinale Federico Borromeo, che voleva informazioni dettagliate sulla diffusione della religione cattolica nel mondo. Esse mantengono questa impronta di preoccupazione per la conquista spirituale del mondo e delle sue culture, come sottolinea molto bene lo studio, articolato e attento, di Romain Descendre (2009, in partic. pp. 263-69, 307-38). Era questo il tempo del grandioso slancio missionario della chiesa controriformista, che si volse alla conquista religiosa del mondo, come per compensare la perdita di gran parte dell’Europa del Nord. L’ordine forse più dinamico in questa conquista fu la giovane organizzazione dei gesuiti: questi crearono una vera rete mondiale di informazioni, piene di curiosità e di passione per la ricerca scientifica e antropica. Botero, pur ormai esterno alla Compagnia, non ne aveva abbandonato lo spirito (da giovane aveva chiesto più volte, inutilmente, di essere mandato in missione). Con la sua vorace erudizione, egli raccolse tutte le notizie sul mondo che i vari esploratori, missionari, ambasciatori, intellettuali al seguito degli eserciti andavano accumulando in Europa, e le compose in una sintesi grandiosa (Chabod 1934, pp. 125-93; Albònico 1990).
Quest’opera oggi ha conservato solo un interesse di storia culturale, ma grande doveva essere la curiosità che essa suscitò allora e l’impulso che dette alla conoscenza della vita, dei costumi, della natura fisica e dell’organizzazione politica ed economica degli Stati extraeuropei. Nel Cinquecento si raccoglie il frutto culturale delle lunghe esplorazioni in Africa e in Asia effettuate dai mercanti e dai soldati portoghesi prima, poi anche spagnoli e olandesi, negli ultimi secoli del Medioevo. La scoperta del Nuovo Mondo catalizza queste spinte e curiosità, liberando in qualche misura l’Europa dall’antropocentrismo angusto dell’Umanesimo. Quest’ultimo si identificava con la civiltà greco-romana e con la sua riscoperta nell’Europa occidentale dei secc. 14° e 15°.
Botero, quindi, dette un grande contributo alla nascita della cultura internazionale in Europa. Ma quello che ha decretato il suo successo presso i posteri furono le riflessioni politiche e quelle economiche, sebbene esse non abbiano affatto lo stesso valore. Riguardo al suo pensiero politico, Botero è un uomo della Controriforma in ogni senso: la preoccupazione apologetica della Chiesa, e la polemica aspra e pochissimo argomentata contro i protestanti e l’Islam sono onnipresenti nei suoi scritti. Egli è, forse, l’esponente maggiore, o almeno di maggior successo, dell’antimachiavellismo che caratterizzò soprattutto le polemiche politiche dei gesuiti.
Il concetto di ragion di Stato si era diffuso nel sec. 16° proprio grazie a Machiavelli. Esso indica, come spiega lo stesso Botero nell’incipit della Ragion di Stato, «[…] notizia [conoscenza, logica] di mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare» lo Stato (libro I, cap. 1). La critica di Botero al fiorentino è solo implicita, dato che lo menziona soltanto una volta, nella dedica (p. 51). Ma Tacito, a Machiavelli accomunato in quel passo, è invece l’autore di gran lunga più citato nella Ragion di Stato (Firpo 1948, p. 469; Descendre 2009). Ciò, a riprova dell’interesse giovanile – poi represso – di Botero per il tacitismo (cfr. Schellhase in Botero e la “Ragion di Stato”, 1992).
A Machiavelli i suoi avversari rimproveravano sostanzialmente due cose. Da una parte, una visione delle tecniche del potere che esclude ogni valutazione morale (in ciò veniva associato a Tacito, allora in voga; anche lui freddo analista di tecniche spregiudicate su come raggiungere e conservare il potere). Dall’altra, l’idea laica dello Stato. Quest’ultimo, secondo Machiavelli, si giustifica da se stesso e non si fonda sull’autorità divina rappresentata dalla Chiesa.
Né Botero né gli altri polemisti cattolici distinguevano fra questi due principi. Per loro, uno Stato che non fosse fondato sull’autorità divina, e quindi sulla legittimazione della Chiesa, era necessariamente esposto a una gestione immorale. Il monopolio religioso della morale era uno dei pilastri della Controriforma (ma anche della Riforma; si pensi a Calvino). La politica quindi non aveva scopi autonomi. Essa li derivava dalla morale; e, attraverso questa, dall’autorità divina (Ragion di Stato, II.15). Solo intorno alla metà del sec. 17° comincerà un lungo percorso – quello dello Stato come garante dei diritti naturali dell’individuo – che permetterà di sfuggire all’alternativa tra l’angusta riduzione della politica a tecnica del potere (Machiavelli) e la visione sacra e autoritaria del potere e della politica. A partire da Thomas Hobbes si potrà introdurre nuovamente un codice morale nella gestione laica dello Stato. Ma la cultura di Botero è di un altro tempo, ed è all’interno di essa che dobbiamo valutarla.
Botero non usa argomenti teorici per giustificare la sua visione dello Stato: la sua stessa polemica è occasionale e debolissima. Anche nell’ambito della cultura controriformistica, egli non ha nulla della forza, per dire, di gesuiti come Juan de Mariana o Luis de Molina, o di domenicani come Domingo de Soto. Conosce Jean Bodin, ma con poco profitto teorico. Per di più, i suoi argomenti sono soffocati, come vuole la tradizione sia umanistica sia scolastica, da innumerevoli riferimenti eruditi alla cultura classica e religiosa.
Spesso gli esempi che egli ricava dalla storia, a sostegno delle sue tesi, hanno una certa efficacia. Ma essi spaziano dall’età più antica, biblica e preclassica, fino a quella più recente dei suoi anni. Vengono proposti senza badare alla differenza di tempo e di cultura, appiattiti in un unico significato edificante. La storia, per Botero, non ha spessore e viene usata in modo retorico, o almeno didascalico.
Quali sono allora le ragioni di un così grande successo del suo pensiero politico? Sono il suo forte senso dei problemi reali, la sua ‘saggezza’, che gli fa trovare soluzioni equilibrate (il sovrano, scrive «schivi gli estremi», II.11, p. 125) e adeguate, ma nell’ambito dell’ortodossia cattolica. Di fatto però tali soluzioni sono del tutto indipendenti dalle sue preoccupazioni ideologiche. Spesso Botero e i gesuiti sono stati accusati di criticare Machiavelli per poi accoglierne ipocritamente le regole, quelle di una politica autonoma dalla morale e basata sull’interesse. In realtà, almeno nel caso di Botero, non si tratta di questo. È piuttosto l’attenzione e l’adesione al reale che lo libera, senza che se ne accorga, dai condizionamenti teorici (cfr. Chabod 1934, p. 91).
Questo approccio empirico permette a Botero, nei suggerimenti che dà, di tenere presente esplicitamente l’interesse dello Stato e anche quello del sovrano (la logica del potere). Il sovrano deve considerare che «[…] l’interesse è quello che vince ogni partito» e prevale su amicizia, fedeltà o altro (II.6, p. 104). La stessa religione appare talvolta un instrumentum regni, più che un valore superiore. A sostegno dell’importanza della religione per una buona gestione dello Stato, Botero cita Aristotele, il quale consiglia al tiranno di «[…] fare ogni cosa per essere stimato religioso e pio» (II.15, p. 133). E in modo ancora più ingenuo, nella Grandezza delle città (II.4) sostiene che la religione e il concorso di fedeli e pellegrini aiutano lo sviluppo dell’economia.
Quando scrive queste cose, Botero non intende contraddire i suoi principi: semplicemente li ignora. Non a caso egli elogia l’esperienza come maestra di prudenza. Scrive: «Molte cose, appaiono fondate sulla ragione mentre si discorre oziosamente in camera, che messe poi ad effetto, non riescono; molte paiono facili ad effettuare, che la pratica mostra essere impossibili» (Ragion di Stato, II.3, p. 98).
Anche i fini concreti che l’autore indica non derivano dalla religione e dalla morale, ma sono interni alla logica politica, intesa nel senso più pieno. Così, bisogna preoccuparsi più di conservare lo Stato che di ampliarlo (I.5); preferire lo Stato di dimensioni medie, perché più duraturo (I.6). I governi devono mirare alla quiete e alla pace dei sudditi poiché costoro pagano le imposte per questo fine. I governi devono fare ciò nella giustizia, evitando gli arbitri (I, par. 8, 18, e 22; III.1. Cfr. anche Grandezza delle città, III.3). Nel dare gli incarichi pubblici, il sovrano deve rispettare il merito e non lasciarsi guidare da preferenze personali (I. 14) e i magistrati devono evitare l’arbitrio ed essere sottomessi alle leggi (I.17). Inoltre, il sovrano si deve circondare di persone eccellenti nei rispettivi campi per meglio governare (II.2).
L’approccio empirico e realistico di Botero, la sua spiccata concretezza, lo hanno reso – oltre che un teorico politico di discreto interesse – un pensatore economico acuto e innovativo. Vi è in lui qualche residuo dei vecchi pregiudizi antimoderni. Per es., dice che le ricchezze generano «delizie», e quindi vizi (I.7, p. 63). Inoltre – contro l’elogio del merito, che egli stesso fa di frequente – dice che i figli dei nobili, derivando da persone virtuose, danno garanzie di essere anch’essi virtuosi (I.9). Nella Grandezza delle città (II.9, p. 378; II.12, p. 392) afferma che è bene che i figli siano obbligati a seguire il mestiere del padre, e che questo rende prospera la Cina. Ancora, sostiene che «[…] non c’è cosa più odiosa, che l’alterare le cose alle quali l’antichità have acquistato riputazione» (Ragion di Stato, II.9, p. 117). Ma nell’insieme Botero può essere assunto a modello della nascita della visione mercantilista, che allora esprimeva la cultura moderna. Egli si contrappone ai bullionisti, la cui visione aveva dominato nel 15° sec., ed era ancora diffusa nel 16°. I bullionisti ritenevano dannoso consentire che l’oro e l’argento uscissero dallo Stato e identificavano la ricchezza dello Stato con la quantità di denaro presente in esso. Botero fu forse il primo a criticare esplicitamente quest’impostazione.
La critica del bullionismo e della sua politica immobilista può dirsi l’atto di nascita del mercantilismo. Quest’ultimo, all’opposto del primo, propugna un’economia dinamica, che quindi ha bisogno di incrementare gli scambi attraverso l’esportazione del denaro, oltre che delle merci. Tuttavia nei primi mercantilisti, il rifiuto del bullionismo era rimasto implicito. Thomas Starkey, che scrive nel 1529-30, John Hales (1549), Luis Ortiz (1558), erano più preoccupati di organizzare la produzione, dando impulso alle manifatture e al commercio estero, che di teorizzare la libertà di movimento dell’oro. Anzi, spesso i primi mercantilisti usano le stesse espressioni dei bullionisti per indicare, però, concetti nuovi. È il caso di Ortiz, che vuole investimenti all’interno piuttosto che acquisti di beni dall’estero, o dello stesso Thomas Mun che parla di accrescere il tesoro e pensa all’accumulazione di capitale.
Botero sopperisce a questa scarsa chiarezza. Nessuno Stato, scrive, si è mai rovinato per mancanza di danaro (VII.10, p. 234). È vero che il sovrano ha bisogno di un tesoro, per le necessità di spesa immediate dello Stato (VII.3), ma egli deve guardarsi dall’ingordigia, che tende a far crescere questo tesoro il più possibile (cfr. Reinert 2011, pp. 44-46). Ciò lo porterebbe «[…] ad ogni sceleranza e indignità» verso i sudditi (VII.2, p. 224). E rovinerebbe anche la produzione: «tanto è povero colui che non ha da spendere, come colui che non ha robba da comprare» (VII.10, p. 235). D’altra parte egli deve guardarsi dalle spese che non hanno come fine il bene pubblico, come il fasto e l’ostentazione (VII, §§ 8 e 10).
Ma, soprattutto, il denaro deve muoversi per poter attivare l’economia. L’abbondanza di denaro, scrive Botero nella Grandezza delle città (II.10), attira come un’esca i mercanti da ogni Paese e fa crescere l’economia. L’imperatore Costantino, egli ricorda, soleva dire che è meglio che le ricchezze siano nelle mani dei privati, piuttosto che stare nelle casse pubbliche senza alcuna utilità (Ragion di Stato, VII.9). Il tesoreggiamento eccessivo rovina, non solo i sudditi, ma lo stesso sovrano. Invece il sovrano che spende molto può avere molto in ritorno attraverso le imposte (VII. 10, pp. 236-37). Il denaro pubblico va usato per costruire strade, dragare i fiumi per renderli navigabili, incoraggiare l’agricoltura e il commercio. Bisogna ostacolare la sua uscita dal regno solo se la sua destinazione all’estero è improduttiva, ed è fatta in luogo di un investimento all’interno (VIII.2, p. 246).
Ma anche Botero mette spesso il vino nuovo in botti vecchie. Un caso tipico è quando usa gli argomenti della tradizione medievale contro l’usura (sterilità del denaro e non disponibilità del tempo, che è di Dio) per perorare le cause dell’impiego produttivo del danaro (I.15). Egli critica chi specula sull’interesse anziché investire il denaro nella produzione e nel commercio e afferma un ottimo principio:
[…] la ricchezza del prencipe dipende dalle facoltà de’ particolari [i privati]; le facoltà consistono nella robba [i prodotti della terra] e nel traffico reale de’ frutti della terra e dell’industria, entrate, uscite, trasportazioni da un luogo all’altro, o del medesimo regno, o d’altri paesi; l’usurario non solamente non fa nissuna di queste cose, ma, tirando a sé fraudolentemente il denaro, toglie il modo agli altri di mercantare (p. 78).
I veneziani, prosegue l’autore, si sono arricchiti poco individualmente, ma enormemente come comunità; perché trafficano in merci. Invece i genovesi si sono arricchiti «immoderatamente» come individui attraverso la speculazione sui cambi monetari, ma ciò ha impoverito le entrate pubbliche.
Anche per le imposte si deve tener presente lo scopo principale, che è quello di far crescere la produzione. Esse vanno pagate, perché «[…] ogni ragione vuole che i beni particolari servano al bene publico, senza ‘l quale essi non si potrebbono mantenere». Ma le imposte devono essere sui beni, non sui singoli, per non opprimere i poveri e le campagne a vantaggio dei ricchi e delle città, e per frenare la concentrazione delle ricchezze (VII.4). Botero critica le imposte eccessive (dice che non bisogna scorticare le pecore, ma tosarle) e chiede che si controlli la rapacità interessata dei funzionari. Soprattutto, l’autore si scaglia contro l’abitudine di dilapidare i proventi delle imposte in spese inutili. Quel denaro non è altro che «[…] sudore e sangue dei vassalli» (cioè dei sudditi), e «[…] non è cosa che più affligga e più tormenti i popoli, che ‘l vedere il suo prencipe gittare impertinentemente il denaro, ch’essi con tanto loro travaglio e stento li somministrano» (I.14).
Come tutti i mercantilisti, Botero è fautore dell’aumento della popolazione, perché esso significa aumento della produzione e dello sviluppo. Italia e Francia, dice, pur non avendo miniere d’oro e d’argento, abbondano più di tutti di questi metalli, perché la loro grande popolazione sviluppa il commercio e la produzione (VII.12: questo concetto sarà alla base del trattato di Serra un quarto di secolo più tardi). Bisogna dunque incoraggiare i matrimoni (VIII.4), e soprattutto migliorare l’educazione, con l’assistenza alle famiglie e agli inabili al lavoro, e procurando lavoro ai giovani (pp. 253-54).
Botero è probabilmente il primo a parlare anche della crisi economica della Spagna. Nel sec. 16°, la Spagna godeva ancora dell’immagine di grande potenza; ricca grazie ai suoi immensi domini. Solo nel sec. 17°, a partire dalle analisi di Mun, secondo i mercantilisti, essa diventa il modello negativo, da non imitare. La Spagna, infatti, ha creduto di poter basare la propria ricchezza sull’oro e l’argento provenienti dalle colonie americane, senza utilizzare queste risorse per sviluppare attività produttive, perdendo così il proprio vantaggio nei confronti dei Paesi più industriosi. Più di trent’anni prima di Mun, lo sguardo acuto di Botero coglie quello che altri – compresi gli stessi mercantilisti spagnoli – fanno ancora fatica a vedere: il processo di decadenza del Paese. La Spagna, scrive Botero, pur avendo ottima terra, ha una scarsa popolazione, innanzitutto per le continue stragi dovute alle guerre contro i Mori e alle altre guerre successive; e poi per la folle decisione di scacciare tutti gli ebrei. Questi ultimi andarono ad arricchire le regioni dell’impero ottomano. Invece la Spagna trascura l’agricoltura, non ha manifatture, esporta le sue lane e la seta. Per di più, aggiunge, la lana e la seta che restano all’interno sono lavorate dagli italiani; mentre l’agricoltura la curano un poco i francesi (VII.12, pp. 240-41).
Questo passo è molto significativo per capire l’autonomia di giudizio di Botero sui problemi economici, che fa la sua grandezza. Un timorato teorico dello Stato indirizzato secondo i principi della religione cattolica, critica il fanatismo religioso della Spagna, che caccia Mori ed ebrei, e lo fa con una motivazione squisitamente economica. La conferma di questo atteggiamento completamente laico e scientifico la troviamo nella Grandezza delle città (I.3). Qui Botero, all’argomento della cacciata degli ebrei, che hanno reso ricchi i Paesi dai quali sono stati costretti a emigrare, aggiunge che anche l’Inghilterra si è arricchita grazie ai ribelli olandesi in fuga dal re di Spagna, che occupava le Fiandre (si noti che si trattava di protestanti che si battevano contro i campioni della cattolicità).
D’altra parte il rapporto positivo tra popolazione e produzione va anche nell’altro senso: l’aumento della produzione permette di avere una maggiore popolazione e quindi maggior potenza (VIII.1). Da qui parte Botero per indicare tutte le politiche in grado di accrescere la produzione. Si deve incrementare l’agricoltura, irrigare i terreni, premiando le coltivazioni migliori. Bisogna bonificare le paludi, come si è fatto in Italia con le paludi pontine; ridurre i boschi troppo estesi; governare bene i fiumi e i laghi. E ancora occorre importare piante, sementi e animali utili da altri Paesi. Secondo il suo stile, fa molti esempi concreti (VIII.2). Già nella Grandezza delle città (II.9, p. 380) aveva sostenuto la necessità che i governi costruissero infrastrutture, per es., i porti, per favorire lo sviluppo.
Nonostante le sue perorazioni in favore della carità (per es., I.20), Botero intuisce un punto decisivo della cultura economica moderna, quello da cui acutamente era partito, in Inghilterra, Starkey (che Botero non conosceva). Bisogna risolvere il problema dei poveri, non con la carità, ma facendoli lavorare. Il sovrano, scrive, deve far guadagnare i poveri, perché niente è più pericoloso per lo Stato che «l’ozio della plebe» (IV.7, p. 173). Egli porta a esempio la Cina, dove tutti, anche i ciechi e gli storpi, sono utilizzati nel lavoro per quanto possono fare (Ragion di Stato, VIII.2, p. 245).
Le politiche per l’occupazione appaiono importanti soprattutto nel capitolo sull’«industria», dove l’autore passa a parlare del sostegno alla produzione artigianale e soprattutto manifatturiera. Questo capitolo, fondamentale per il pensiero economico di Botero (VIII.3), era stato scritto in realtà l’anno prima per Le cause della grandezza delle città (libro II, cap. 7) e viene riprodotto identico dall’autore nella Ragion di Stato. Per Botero, l’espandersi di questa produzione è la cosa più importante. Egli riprende una vecchia distinzione di sant’Antonio da Firenze tra arti necessarie, di comodo e di lusso, a seconda del tipo di beni che producono (p. 247). Tutte queste arti attivano la circolazione di beni e di denaro. Tuttavia, come nota nella Grandezza delle città (I.7), le società non durano se si basano solo sul consumo dei beni necessari. Ben presto esse devono passare ai beni superiori (è una geniale anticipazione del pensiero economico del Settecento, a partire da Bernard de Mandeville). Bisogna dunque attirare e ospitare gli artigiani migliori dall’estero, stimolare le invenzioni con premi e coltivare i buoni ingegni (pp. 247 e 249). L’entusiasmo di Botero per le invenzioni e il progresso tecnico ricorda quello della Nuova Atlantis di Francis Bacon.
L’autore si chiede quale attività sia più capace di rendere ricco un Paese, se l’agricoltura o l’industria. E opta senza esitare per la seconda. Infatti i suoi prodotti sono più numerosi e hanno – diremmo oggi – un maggior valore aggiunto. Inoltre le forme che si possono dare alla materia sono praticamente infinite. E ancora: l’industria mantiene una quantità di popolazione assai maggiore. Descrive con entusiasmo gli esempi della lana e della seta, della cui lavorazione vivono le maggiori città italiane; del ferro, che serve per gli strumenti di tutte le arti, sicché la vita «non ha minor bisogno del ferro che del pane»; del marmo e delle statue; del legno e delle navi; dei colori e delle pitture. Egli porta a esempio l’Italia e le Fiandre, che grazie all’industria mantengono una così grande popolazione. E conclude che «l’industria avanza di gran lunga la natura» (pp. 247-49). Soprattutto – scrive introducendo il tema fondamentale del mercantilismo – è necessario impedire l’esportazione delle materie prime: «non lane, non sete, non legnami, non metalli, non altra cosa tale, perché con le materie se ne vanno anco via gli artefici» (pp. 249-50), e con essi la produzione e la ricchezza. Le entrate dello Stato, afferma l’autore, che provengono dalle esportazioni di prodotti finiti sono assai maggiori di quelle che derivano dall’esportazione delle materie prime (p. 250). Con questo Botero ha enunciato tutti i temi principali della teoria mercantilista, molti anni prima che questa corrente si affermasse come egemone.
L’ultima osservazione di economia della Ragion di Stato spiega in quali casi conviene l’intervento economico del governo (VIII.14 e segg.). Questa paginetta fa giustizia delle infinite elucubrazioni su quanto i mercantilisti peccassero di protezionismo e fossero contro lo sviluppo; e su quanto ignorassero la «grande verità scientifica» del liberismo sempre e a ogni costo. In realtà i mercantilisti non erano né protezionisti né liberisti. Non erano dogmatici, e si regolavano in base alla convenienza. Infatti Botero, dopo aver chiesto con forza l’intervento dello Stato per le politiche necessarie ad avviare lo sviluppo, fissa qui limiti ben precisi a questo intervento (p. 265).
È bene che il sovrano intervenga nelle attività economiche dirette solo in tre casi: quando i privati non sono in grado di avviare una grande iniziativa economica (per es., la conquista dei mercati dell’Etiopia e dell’India fatta dall’esercito portoghese); quando essa ha un’importanza strategica (per es., il commercio delle spezie fatto da Venezia); infine, quando il bene da acquistare è necessario per la società (per es., il grano nel caso di carestie, laddove i privati speculano e fanno incetta di grano a danno dei sudditi).
Con lo stesso realismo (comune a tutti i mercantilisti), nella Grandezza delle città (II.8) l’autore elogia le fiere mercantili perché sono zone franche dove non si pagano le tasse sui traffici. Per questo esse attirano tanti mercanti e produttori e danno un così grande contributo alla crescita dell’economia.
Abbiamo detto che Botero probabilmente fu il primo a svolgere una critica esplicita delle credenze bullioniste. Queste identificavano di fatto il denaro con la ricchezza (crisoedonismo), e chiedevano quindi che si vietasse l’uscita del denaro pregiato dal regno. Egli fu anche il primo a criticare la politica della Spagna, ricca di oro e povera di manifatture e di produzione in genere.
Ma i meriti di questo autore non finiscono qui. Innanzitutto egli è uno degli autori più completi della prima fase del mercantilismo, quella prima di Petty. Gli altri autori, ritenuti più grandi, spesso si limitato ad alcuni aspetti fondamentali della visione mercantilista. Per es., Starkey tratta con grande acume la politica di sostituzione delle importazioni e del lavoro dei poveri. Ortiz e Serra analizzano con profondità il problema della dipendenza delle economie deboli da economie più forti. Martín González de Cellorigo svolge la critica più devastante al crisoedonismo degli spagnoli, mentre Mateo de Lysón y Viedma esprime la critica più serrata alle prepotenze dei ceti parassitari spagnoli, che rovinavano l’economia del Paese. Sancho de Moncada e Antoine de Montchrétien parlano della necessità di creare manifatture, e Barthélemy de Laffemas di impiantare fabbriche di seta per l’esportazione. Infine Mun, tratta nel modo migliore della bilancia commerciale e del suo rapporto con l’aumento di produzione e svolge la critica più acuta alla politica economica della Spagna, facendone un modello negativo che arriva fino agli illuministi. In tutti questi temi Botero non risalta. La sua eccellenza sta nell’averli trattati tutti, armonizzandoli in un’unica visione. Il suo pensiero economico differisce da quello degli altri mercantilisti specie per un motivo: mentre gli altri autori derivano le loro idee dall’esperienza diretta dei problemi economici della loro patria con l’intento di individuare le politiche per avviare o accrescere lo sviluppo del proprio Paese, Botero è l’unico mercantilista apolide. Persino Serra, l’altro grande mercantilista italiano, ha uno Stato da esaminare e per il quale impegnarsi: il Regno di Napoli. Botero è l’unico a non avere una nazione di riferimento. Ciò, per due ragioni: da una parte l’Italia è lo sfortunato grande Paese che non è riuscito a unificarsi, e perde perciò l’appuntamento con lo sviluppo europeo, proprio nel momento del decollo; dall’altra, Botero ha una radicata cultura cosmopolita, da uomo di Chiesa e in particolare da gesuita. Il suo punto di riferimento non può essere un Paese, ma il mondo.
Nella cultura mercantilista quello di Botero appare un limite, ma egli riesce a trasformarlo in un pregio. Infatti è vero che, grazie alla loro visione nazionale, gli altri autori sono concreti e aderenti al reale, ma sono anche un po’ angusti e troppo empirici, rifuggono dalle teorizzazioni privandosi, in tal modo, della grande forza del pensiero astratto per sostenere la loro visione economica. Per questo i nuovi valori economici si affermarono nella cultura moderna con estrema lentezza, in mezzo a mille contraddizioni. Botero invece – anche se, come gli altri, non attinge ai livelli di vera teoria – dà forza alle sue tesi perché non si riferisce a un Paese ma a tutti. Le sue analisi e i suoi consigli sono inseriti in una grandiosa visione internazionale e, come i suoi esempi storici, danno un’idea dello sviluppo universale (v. anche Firpo 1948, p. 28).
Botero è forse l’unico della prima fase del mercantilismo che sia stato tradotto all’estero (in Francia, ma soprattutto in Spagna, dove la Ragion di Stato ebbe molte edizioni). I mercantilisti infatti, proprio per il loro approccio strettamente nazionale, non si conoscevano tra loro. Se Botero viene tradotto è perché il suo approccio è internazionale; e anche perché le sue considerazioni economiche si trovano all’interno di un trattato politico di grande interesse per il mondo cattolico.
Deve essere chiaro che la particolarità della cultura di Botero non dipende dal fatto di essere un intellettuale. È vero infatti che la maggioranza degli autori mercantilisti è costituita di funzionari di compagnie commerciali o di funzionari pubblici, ma vi sono anche diversi intellettuali. Per es., Starkey, docente a Oxford di filosofia naturale; Moncada, teologo e professore a Toledo; Pedro de Valencia e Montchrétien, letterati e umanisti, e diversi altri. Tuttavia costoro scrivono di cose economiche con la stessa ottica nazionale degli altri, distinguendo le loro riflessioni economiche da quelle della propria attività professionale. Solo Botero attribuisce alle soluzioni del mercantilismo una valenza universale. Significa questo che egli riesce a dare un fondamento teorico all’approccio economico mercantilista? No. Botero rimane sul piano empirico, come gli altri. Altrimenti, con i suoi presupposti di filosofia politica, non sarebbe arrivato alle preziose osservazioni economiche che fece.
Delle cause della grandezza delle città (1588), in Della ragion di Stato, a cura di L. Firpo, Torino 1948.
Della ragion di Stato (1589), a cura di L. Firpo, Torino 1948.
Delle relazioni universali (1591-1599), in F. Chabod, Giovanni Botero, Roma 1934, Appendice I, pp. 125-93.
M. De Bernardi, Giovanni Botero economista, Torino 1931.
F. Chabod, Giovanni Botero, Roma 1934.
L. Firpo, Introduzione e Nota critica a G. Botero, Della ragion di Stato, a cura di L. Firpo, Torino 1948, pp. 9-32 e 455-69.
A. Albònico, Il mondo americano di Giovanni Botero, Roma 1990.
Botero e la “Ragion di Stato”, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino (8-10 marzo 1990), a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992 (in partic. A. Tenenti, Dalla “Ragion di Stato” di Machiavelli a quella di Botero, pp. 11-21; K.C. Schellhase, Botero, reason of State, and Tacitus, pp. 243-58).
R. Descendre, L’état du monde: Giovanni Botero entre raison d’état et géopolitique, Génève 2009.
S.A. Reinert, Introduction ad A. Serra, A “Short treatise” on the wealth and poverty of nations (1613), ed. S.A. Reinert, London-New York-Delhi 2011, pp. 1-85.