Giovanni Botero
La vita di Giovanni Botero, altalenante tra certezze e dubbi, fama e oblio, ebbe un filo conduttore mai interrotto: la ricerca di un legame duraturo tra fede e ragione, perfezione e realtà. Ricerca che diventa il tentativo di conciliare il cattolicesimo della Controriforma con la politica e che, attraverso il concetto della ‘ragion di Stato’, delinea scopi e fini delle scienze umane dalla filosofia, intesa come religione civile ed etica dell’uomo virtuoso e pio, all’economia, concepita come studio dell’uomo reale, alla politica, in quanto arte del governare e dell’emanare leggi conformi alla morale cattolica.
Nato a Bene, oggi Bene Vagienna (Cuneo), nel 1544 (anche se a lungo si ritenne che fosse venuto al mondo tra il 1533 e il 1540), Botero entra a quindici anni nel Collegio dei gesuiti di Palermo per poi trasferirsi al Collegio Romano, ove ha come compagno di studi Roberto Bellarmino (1542-1621). Il temperamento inquieto e spesso nevrotico costringe i superiori a trasferirlo in sedi periferiche quali Amelia, Macerata e Loreto. Nel 1565 è in Francia, nel Collegio di Billom, in Alvernia, vicino a Clermont. Due anni dopo è a Parigi. Insofferente della severa disciplina della Compagnia di Gesù, viene rimandato in Italia, al Collegio di Milano, nelle case presso San Fedele, ove nell’ottobre del 1578 entra in contatto con il cardinale Carlo Borromeo (1538-1584). Nel 1579, dopo aver sostenuto nel seminario ambrosiano tesi che sembravano negare l’autorità temporale della Chiesa, avviene la rottura con i gesuiti; l’anno seguente viene estromesso dalla Compagnia. Rinsalda i rapporti con il cardinale Borromeo, che lo nomina vicecurato di Luino sul Lago Maggiore, e lo accetta nella Compagnia degli oblati. Nell’estate del 1582 si laurea in teologia a Pavia, e presenta al Borromeo la sua prima compiuta opera etico-politica: il De regia sapientia, edito l’anno seguente. Diviene segretario del cardinale e fautore della sua politica di rifondazione e riorganizzazione della diocesi di Milano.
Dopo la morte del cardinale Borromeo nel 1584, viene inviato a Parigi per una missione diplomatica del duca di Savoia Carlo Emanuele I. Negli ambienti francesi conosce e legge Les six livres de la république (1576) di Jean Bodin e La grant monarchie de France (pubblicata nel 1519) di Claude de Seyssel. Nel dicembre del 1585 ritorna a Milano, chiamato da Margherita Trivulzio Borromeo come precettore e consigliere del figlio Federico (1564-1631). Ne segue la folgorante carriera e contribuisce a fargli ottenere la porpora cardinalizia nel 1587.
Sono i dieci anni di soggiorno romano nei quali Botero scrive le sue opere maggiori, cui è legata la sua fama. Nel 1588 viene edito da Giovanni Martinelli il trattato in tre libri Delle cause della grandezza delle città, che nel giro di pochi anni sarebbe stato tradotto in spagnolo (1593), in latino (1602) e in inglese (1606). Dodici mesi dopo, a Venezia, per i tipi di Gabriel Giolito de’ Ferrari vedono la luce i dieci libri della Ragion di Stato, indubbiamente la sua opera più letta e discussa. Difatti, tra il 1589 e la metà del Seicento, essa conosce ben diciassette tra riedizioni e ristampe e quattordici traduzioni: in spagnolo, in latino e in tedesco. Tra il 1591 e il 1596 appaiono le Relazioni universali sempre con i caratteri del Giolito. Anche quest’opera ha grande successo, tanto da registrare ben quattro edizioni fra Venezia, Bergamo e Vicenza e due traduzioni in tedesco.
Scrittore ormai famoso, segue a Milano Federico Borromeo, nominato nella primavera del 1595 arcivescovo della diocesi lombarda. Tre anni più tardi rientra in contatto con i Savoia e si congeda dal Borromeo. Dall’aprile 1599 è alla corte di Torino nella veste di precettore dei tre figli di Carlo Emanuele I, cui ha dedicato il De regia sapientia.e la prima edizione completa delle Relazioni universali (1596). Tra il 1603 e il 1606 è alla corte di Spagna presso Filippo III, zio materno dei tre principi sabaudi per i quali ha composto una raccolta di biografie esemplari, da Alessandro Magno a Cesare, a Scipione, I prencipi (1600). Parimenti nello stesso periodo dedica al sovrano piemontese una raccolta di biografie di sovrani cattolici, La prima parte de’ prencipi christiani (1601), e la storia dei conti e duchi di Savoia sino a Emanuele Filiberto, titolata La seconda parte de’ prencipi christiani (1603). Il soggiorno spagnolo e le riflessioni maturate alla corte di Filippo III sono le fonti di una serie di scritti teorici (da Dell’eccellenza della monarchia a Della nobilità) e di relazioni descrittive e resoconti di fatti significativi, pubblicati in appendice alle biografie di alcuni condottieri celebri, titolate I capitani (1607).
Ritornato nell’agosto 1606 alla corte sabauda, si riavvicina alla Compagnia di Gesù e agli studi ascetici della giovinezza, come documentano il poemetto in ottave La primavera (1607) e le Rime spirituali (1609). Continua però a completare e integrare le Relazioni universali e pubblica il Discorso della lega contro il Turco (1614) dedicato al cardinale Maurizio di Savoia (1593-1657), ove afferma la necessità di una nuova crociata. I suoi ultimi scritti sono una raccolta di poesie latine, Carmina selecta (1615), e Del Purgatorio (1615). Il riavvicinamento con i gesuiti lo induce a lasciare la maggior parte dei suoi beni alla Compagnia e, alla sua morte, il 23 giugno 1617, le sue spoglie saranno accolte nella Chiesa dei SS. Martiri a Torino.
L’età nella quale è vissuto Botero è segnata dal tentativo di discutere della novella scienza politica tracciata da Niccolò Machiavelli, cercando di conciliarla, nei limiti del possibile, con il pensiero tradizionale (Garin 1966, pp. 784 e segg.). In quest’ottica il Benese, fortemente permeato della religiosità e delle idee della Controriforma, è uno dei primi (se non il primo) sistematici e critici commentatori dei problemi causati dalla polemica attorno alle teorie machiavelliane e dal confronto-contrapposizione fra politica e morale che trovano nella formula ‘ragion di Stato’ una legittimità culturale e intellettuale. Profondamente convinto, sin dagli anni giovanili, della possibile coesistenza tra politica e cattolicesimo della Controriforma e contrario alle ‘false promesse’ del machiavellismo e del tacitismo, Botero orienta il proprio pensiero verso la riscoperta della politica come momento di sintesi tra l’uomo ideale e pio e l’uomo reale.
Lo stretto legame con il cardinale di Milano, Carlo Borromeo, e con la sua instancabile attività di moralizzatore della Milano spagnola del tempo lo porta, nella tutto sommato quieta realtà di Luino sul Lago Maggiore, a concepire il suo primo scritto teorico che, abbandonata l’impostazione retorica e agiografica delle riflessioni religiose sino allora svolte, costituisce la base concettuale della Ragion di Stato: il De regia sapientia. L’opera, scritta in latino e originata da una discussione privata sulle «cose del Belgio» (la lotta tra le province del Sud, cattoliche, e quelle del Nord, riformatrici), ha il fine di dimostrare, come scrive lo stesso Botero al Borromeo il 4 luglio 1582 (Firpo 1960, p. 20), che i principati e le vittorie dipendono dalla volontà divina.
Dedicato a Carlo Emanuele I di Savoia, il De regia sapientia (l’esatto titolo è De regia sapientia libri tres. Quibus ratio Reipublicae bene faeliciterque administrandae continetur) è diviso in tre libri, nei quali l’autore precisa che la storia, sacra e profana, conferma tre assiomi: i regni e le vittorie sono legati a Dio; i principati e l’autorità politica sono rafforzati dal rispetto delle regole che conciliano gli uomini con Dio e, parimenti, vengono portati alla rovina dall’ira divina (De regia sapientia, 1583, pp. 14-15). Sebbene la narrazione sia appesantita da un ricorso eccessivo a esempi tratti dalla storia sacra, si notano significative e innovative riflessioni rispetto alla trattatistica cattolica del tempo, che sembrano confermare la rispondenza di questa «operetta ai canoni di una letteratura di ammaestramento valida ben oltre i confini del discorso politico» (C. Vasoli, A proposito della “Digressio in Nicolaum Machiavellum”: la religione come “forza politica” nel pensiero del Botero, in Botero e la “ragion di Stato”, a cura di A.E. Baldini, 1992, p. 42).
Botero tratta della definizione di ‘regia sapienza’, del ruolo della religione nella vita politica e del tipo di critiche mosse al Principe di Machiavelli. La sapienza regia consiste «duabus in rebus» (De regia sapientia, cit., p. 7). La prima è la dipendenza di ogni azione umana dalla volontà divina, da cui deriva che «religio est omnis principatus fundamentum». Pertanto, non è l’esercizio del potere che affina la sapienza del sovrano, ma la conoscenza e il ricorso alle divine letture e il conformarsi ai loro principi, onde superare e gestire la grande precarietà delle istituzioni umane e della loro capacità di potere. Precarietà e capacità che non dipendono dalla fortuna, bensì dalla suprema volontà divina.
Non potendo sostenere una potestas della Chiesa cattolica sullo Stato, vista e analizzata concretamente l’ormai non eludibile laicizzazione del potere politico, Botero ricorre agli exempla della storia sacra per affermare e difendere il ruolo della vera religione e della sapienza regia come strumenti indispensabili per ottenere il rispetto dell’ordine sociale e la conservazione dell’autorità e del potere. Ed è con questo fine che, nel settimo capitolo del libro primo, dal titolo Nicolaum Macchiavellum [sic] digressio, confuta le teorie del fiorentino, «homo sane ingeniosus sed parum Christianus», sulla scissione tra religione e politica, sulla incompatibilità tra maiestas regia ed etica evangelica e sulla sua visione pacifista del Vangelo, che renderebbe gli uomini inetti alla guerra e al valore militare (De regia sapientia. cit., p. 12).
Difatti il cattolicesimo, quantunque vieti la guerra ingiusta, promette a chi lotta «pro aequitate, pro religione, pro aris, et focis» non l’incerto splendore della luna, ma la gloria della vita eterna, cioè del sole divino. Non vi è dottrina che offra, come la fede cristiana, una reale via d’uscita contro la paura della morte, come documenta la vicenda di Goffredo di Buglione, eroe credente che, per Botero, è esempio di valore militare e di sapienza politica da anteporre alla figura del principe teorizzata da Machiavelli (pp. 12-15).
Con il medesimo fine, nel terzo libro Botero analizza i motivi e le cause delle crisi e delle cadute del potere politico e dei regni. Rimandando agli exempla e ai loci citati nelle parti precedenti della sua opera, il Benese imputa alla superbia dei sovrani e alla loro eccessiva fiducia nelle proprie forze umane la perdita del trono. I suoi giudizi non sono però finalizzati a fornire gli strumenti atti a salvare la singola figura del sovrano, ma, nel riconoscere il crescente peso delle ideologie laiche e religiose, a sottolineare l’insipienza delle lotte intestine dei principi cristiani e il loro sottovalutare il ruolo disgregatore del corpo sociale e dell’autorità proprio dell’eresia, uno dei peggiori, se non il peggiore, dei mali che possano colpire l’umanità. Così leggiamo nel De regia sapientia:
Per la cosa pubblica non vi è nessun danno maggiore dell’eresia, butta giù i regni dallo stato, il re dal trono, appesta le leggi, porta alla rovina le città, non tralascia affatto alcunché di violento, solleva dovunque, come una mostruosa furia, guerre e sedizioni (p. 79).
Oltre a suscitare sedizioni, guerre, lotte fratricide e debolezze contro l’impero turco, identificato con il regno del male (come scrive nell’appendice Turcae. Haeretici), l’eresia pone in discussione la legge divina e fomenta il disprezzo e l’odio verso la Chiesa e i suoi sacerdoti, rendendo opinabile e insicura ogni legge. Pertanto le eresie vanno estirpate in quanto principio di disgregazione morale e politica, e il sovrano ricambia i servizi che la religione gli porge vincolando a essa la coscienza e i beni dei sudditi.
Se è vero che, come afferma Machiavelli, la politica affina la conoscenza e il possibile dominio della realtà umana e naturale, è altrettanto provato dalla storia che tutto questo non basta per garantire il rispetto delle leggi, una giustizia universalmente accettata e il potere dell’autorità. Per giungere a ciò, occorre ravvivare il rapporto tra religione e politica attraverso la sapienza, valore sovrumano che si raggiunge per divina ispirazione e che viene ravvivato dalla «vera religione». Cinque anni dopo la ‘sapienza’ sarebbe diventata ‘ragion di Stato’.
L’avvicinamento graduale alla politica di Botero, che aveva assunto una prima, fondamentale prospettiva negli anni milanesi, durante i quali aveva approfondito temi e suggestioni maturati negli ultimi anni trascorsi in Francia (A.E. Baldini, Botero e la Francia, in Botero e la “ragion di Stato”, cit., pp. 335-59), trovò la completa attuazione in quelli trascorsi al seguito di Federico Borromeo a Roma, cioè in uno dei più influenti centri europei di conoscenza di teorie e di decisioni politiche. Non è quindi un caso che le sue opere maggiori e più note (dalla Ragion di Stato a Delle cause della grandezza delle città) vedano la luce in quel periodo. Nel 1589 a Venezia viene edita la prima sistematica esposizione del pensiero del Benese intorno al tema, allora assai dibattuto, della ragion di Stato.
L’opera, dal significativo titolo Della ragion di Stato, è divisa in dieci libri e preceduta da un’introduzione dedicata, nella prima edizione, a Wolf Dietrich von Raitenau (1559-1612), principe vescovo di Salisburgo dal 1587 al 1612. L’edizione pubblicata a Torino nel 1596 è dedicata a Filippo Emanuele di Savoia (1586-1606), mentre quella uscita a Milano nel 1598 a Federico Quinzio, avvocato fiscale nel ducato spagnolo di Milano.
Nella dedicatoria dell’opera ne vengono puntualizzati e definiti i propositi: mettere ordine attorno a un concetto, diventato di uso comune prima ancora di essere ben definito. Difatti, la fortuna e il diffondersi nelle corti e nelle culture europee dei princìpi politici del Principe di Machiavelli e degli scritti di Tacito portano ad accettare come fine ultimo della politica la conquista e la conservazione del potere e l’identificazione di quest’ultimo con lo Stato. Ciò significa subordinare la morale alla politica e rendere soggettiva ogni distinzione tra bene e male. Bisogna, invece, porre in risalto la reciproca correlazione tra lo Stato con le sue istituzioni e il potere, ove il primo «è un dominio fermo sopra i popoli e ragion di Stato si è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio», come leggiamo in apertura del primo libro.
La prima parte della definizione di Botero è pressoché simile a quella data da Machiavelli, ma ha una valenza più ampia di quella del fiorentino. Dominio non è solo potere, ma unione di Stato ed esercizio del potere, come insieme di organizzazione e conservazione dello stesso. La natura e l’identità dello Stato risiedono nella solidità e nella continuità del dominio, che è il fine della ragion di Stato. Continuità che viene identificata nel termine conservazione, inteso come consapevolezza e conoscenza dei dati reali e oggettivi degli strumenti e degli istituti che garantiscono l’esistenza dello Stato in quanto tale. Ne consegue la necessità dello studio di tutti quei fenomeni che identificano e permettono l’esistere di una società organizzata, dall’andamento demografico all’economia, all’ambiente, alle strutture amministrative e politiche. Quindi la politica diventa indagine positiva della collettività umana e conoscenza delle forze che garantiscono e mantengono l’indipendenza, l’autonomia e la sicurezza dello Stato.
I dieci libri di cui si compone lo scritto principale del Benese sono, di conseguenza, dedicati al problema dello Stato visto attraverso le figure del principe e del popolo. Ma sia il principe sia, ovviamente, il popolo non sono il punto di partenza e di arrivo del pensiero politico boteriano; rappresentano invece la figura centrale e il necessario corollario della storicizzazione della ragion di Stato. Infatti,
il fondamento principale d’ogni Stato si è l’obedienza de’ sudditi al suo superiore, e questa si fonda sull’eminenza della virtù del Prencipe, perché, si come gli elementi e i corpi che di essi si compongono ubidiscono senza contrasto a’ movimenti delle sfere celesti per la nobiltà della natura loro, e tra i cieli gl’inferiori seguono il moto de’ superiori, così i popoli si sottomettono volentieri al Prencipe in cui risplende qualche preminenza di virtù, perché niuno di sdegna d’ubidire e di star sotto a chi li è superiore, ma bene a chi gli è inferiore o anche pari (Della ragion di Stato, a cura di C. Continisio, 1997, p. 20).
Ed è nel principe e nella sua azione che la ragion di Stato si concretizza in prassi di governo e di ordine, ove la prudenza realizza l’incontro tra etica e politica, essendo una virtù «il cui ufficio è cercare e ritrovare i mezzi convenienti per conseguire il fine», seguendo «nell’elezione de’ mezzi», «l’onesto più che l’utile» (p. 58). In questa ricerca la prudenza deve servirsi di quei dati e di quelle informazioni e quei consigli pratici, di quelle scienze dell’uomo e della società che trasformano l’ideale di virtù in conoscenza. Così la filosofia morale
dà la cognizione delle passioni communi a tutti, la politica insegna a temperare o secondare queste passioni e gli effetti che ne seguitano ne’ sudditi, con le regole del ben governare (pp. 43-44).
L’arte militare, o della guerra e della pace, aiuta il sovrano a servirsi «gloriosamente» di coloro i quali professano queste cose. L’eloquenza, unita alle scienze naturali, definite «notizia delle disposizioni del mondo», e suffragata dalla storia, che consente di apprendere, come laboratorio dell’esperienza, ciò che è accaduto e che potrebbe accadere, aiuta a moderare gli uomini e a influenzare e «maneggiare» i popoli.
Sono queste le pagine della Ragion di Stato ove Botero dimostra di essere pensatore nuovo e concretamente curioso, e nelle quali la figura di uomo di corte, per usare una felice espressione di Rodolfo De Mattei (Il pensiero politico italiano nell’età della Controriforma, 1982, p. 8), viene integrata dalle letture di autori coevi e dalla conoscenza reale delle cose del mondo.
Nell’ottica del potere la regola che non deve mai dimenticare chi governa è che l’interesse
è quello che vince ogni partito, e perciò non deve fidarsi d’amicizia, non di affinità, non di lega, non d’altro vincolo, nel quale chi tratta con lui non abbia fondamento di interesse (Della ragion di Stato, cit., p. 51).
Questa affermazione-ammonimento che il nostro autore fa, e riprende più volte, non dev’essere interpretata come un’esaltazione dell’utilitarismo, bensì come categoria pratica della politica che unisce il fine del principe con quello del mantenimento dello Stato e della sua struttura materiale, che si fonda sul legame fra sovrano e sudditi e sulla segretezza, e che richiama l’idea di ordine e di obbedienza. E il potere dell’autorità scaturisce proprio dall’obbedienza che il popolo concede a chi comanda e alle sue leggi. ‘Concedere’ significa la partecipazione dei sudditi all’azione del principe mediante l’approvazione oppure la disapprovazione del suo operato.
Nei due capitoli dedicati ai Sudditi d’acquisto e ai Poveri si spiega in che modo il principe debba interessare il popolo allo Stato, mirando a una corretta gestione del potere in cui bene del singolo e bene dello Stato siano inscindibili. L’ordine naturale delle cose personificato dalla figura più adatta a rispettarlo e attuarlo, il principe, diventa la chiave di volta e il requisito fondamentale nella relazione fra Stato e popolo, che trova nella monarchia la più alta forma di governo, nell’unione fra politica e religione cristiana. Nel secondo libro leggiamo infatti:
È di tanta forza la religione ne’ governi, che senza essa ogni altro fondamento di Stato vacilla […]. Ma, tra tutte le leggi, non ve n’è alcuna più favorevole a’ Prencipi che la cristiana, perché questa sottomette loro non solamente i corpi e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora e le conscienze, e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri, e vuole che si obbedisca a’ Prencipi discoli, nonché a’ moderati, e che si patisca ogni cosa per non perturbar la pace (Della ragion di Stato, cit., pp. 75-76).
Ciò significa che il sovrano dev’essere in grado di individuare e gestire gli impulsi e le pressioni che determinano i comportamenti degli uomini, ossia avere la capacità di garantire un insieme di leggi morali e naturali conformi ai comandamenti divini attraverso la giustizia e la liberalità.
La giustizia tende a conservare e ad assicurare a ciascuno il suo, che per il popolo vuole dire dare al sovrano tutte quelle forze ed energie atte a conservarlo in pace, sicurezza e benessere. La liberalità si manifesta sia nell’aiuto ai poveri e ai «bisognosi», non straziandoli «con gravezze insolite e sproporzionate alle loro facoltà» (Della ragion di Stato, cit., p. 24), sia nel promuovere la virtù, che «favorisce gl’ingegni, e trattiene le arti, e fa fiorire le scienze, e illustra la religione» (p. 39). Quest’ultima non viene considerata come mero strumento di potere, bensì come principio ispiratore dei valori della politica, con le sue esigenze di ordine e di regole. Da ciò il ruolo e l’importanza della Chiesa cattolica nella vita pubblica.
Come ha sottolineato Luigi Firpo nei suoi diversi scritti sul Benese, per meglio comprendere questa identità di interessi tra religione, Chiesa cattolica e Stato occorre tenere presente lo scenario storico nel quale Botero si muove, e il rinnovamento dei costumi conseguente alla Controriforma. La ragion di Stato, perciò, è figlia del colore dei tempi e nel costruire un modello di società ove i valori religiosi e quelli politici coincidono, come dimostra il sistema politico preferito dal nostro autore, quello della monarchia spagnola, diventa «l’eco d’un desiderio di stabilità, di conservazione, d’equilibrio» (Firpo 2005, p. 76).
Rientra in questa visione il rilievo dato alla segretezza nell’azione politica del principe. Nell’estendere una specie di massimario guidato dei valori e delle regole di una buona e stabile azione politica, la segretezza è garanzia della sicurezza dello Stato e del mantenimento del potere del sovrano, in quanto «facilita l’esecuzione de’ disegni e maneggio dell’imprese che, scoverte avrebbero molti e grandi incontri», mentre «i consigli de’ Prencipi, mentre stanno secreti, sono pieni di efficacia e di agevolezza» (Della ragion di Stato, cit., p. 56).
Non siamo agli arcana imperii ma, e qui si sente l’influenza di Machiavelli, alla tutela dell’immagine del sovrano e della sua capacità di ben agire per conservare la tranquillità dello Stato. Pertanto, l’analisi della virtù civile dell’obbedienza, che unisce volentieri i sudditi al principe al quale «affidano il governo di se stessi» (p. 20), rappresenta uno dei temi centrali delle riflessioni boteriane volte a disciplinare la conservazione del potere dello Stato.
In uno dei manuali più noti della cultura politica italiana, la Storia delle dottrine politiche (1933) di Gaetano Mosca, si sostiene che Botero è veramente originale e profondo
nella parte economica della sua opera. Parte economica che manca quasi del tutto nei lavori di Machiavelli. Su questo argomento il segretario di san Carlo Borromeo fa delle considerazioni che denotano intelletto superiore ai suoi tempi (19577, p. 135).
È l’invito a considerare sotto una nuova luce il libro ottavo della Ragion di Stato e la giustificazione dell’inserimento in appendice a quest’ultimo, a partire dalla prima ristampa di Venezia, dello scritto Delle cause della grandezza delle città, ove si indagano i processi di urbanizzazione.
Tutto l’ottavo libro della Ragion di Stato è dedicato infatti alle attività produttive, in primo luogo all’agricoltura, «industria che si maneggia attorno al terreno e si prevale in qualunque modo di lui» (Della ragion di Stato, cit., p. 153), seguita dai risultati dell’artificiosa mano dell’uomo e delle arti. Queste, unite all’andamento della popolazione, allo studio delle particolarità del territorio, alla conoscenza e disponibilità delle materie prime e al commercio, accrescono le città e le rendono numerose d’abitanti e doviziose di ogni bene (pp. 156-58).
È il segno tangibile dell’apertura verso nuovi e verificabili settori d’indagine della politica, che portano il principe a essere il collettore e, nel contempo, il propagatore delle azioni concrete della popolazione, dando così linfa all’idea di Stato, al suo mantenimento e al suo stesso sussistere come ente regolatore dello stare insieme. Da qui l’invito al principe a essere promotore di tutte quelle attività, nell’ambito dell’agricoltura e dell’industria, atte a produrre con maggior resa, successo e interesse rispetto alle cose generate dalla natura.
Accanto alla milizia, alla guerra e alla pace, l’industria e il commercio dei beni prodotti consolidano ancora di più il diffondersi della ragion di Stato e la conservazione del potere da parte di un sovrano avveduto e sensibile. Il sottolineare l’importanza di una gestione economica e sociale della politica sembra precorrere l’affermarsi delle successive teorie mercantilistiche e, per certi versi, giustifica il successo editoriale in tutto il Seicento delle opere principali del Benese. Inoltre, viene tenuta lontana quella visione polemologica della politica tanto cara a Machiavelli e tanto temuta dai teorici della conservazione del potere come Botero, che sono portati invece a porre in luce il ruolo fondamentale dell’interesse, inteso come principio d’ordine sociale.
Nel suo disegno Botero assegna all’industria, definita arte della trasformazione delle materie prime in cose utili alla società, il primato fra tutte le attività umane miranti al progresso sociale. Su questo punto cita l’esempio dell’Italia e della Francia che, pur povere di materie prime, mercé l’industria e l’abilità dei loro abitanti, sono diventate «abbondantissime di denari e di tesori» (Della ragion di Stato, cit., p. 158) e vedono prosperare le loro città. E proprio alla città il Benese dedica uno scritto, diviso in tre libri, che, nonostante la mole esigua, traccia una teoria dei legami fra ambiente, territorio, risorse economiche e andamento demografico, riassunti nel concetto ‘civile’ di città. Qui ‘civile’ significa dinamica della vita concreta, studiata attraverso l’individuazione dei vari «siti comodi» della storia. Città, invece, come leggiamo all’inizio dell’opera,
si addimanda una ragunanza di huomini ridotti insieme per vivere felicemente, e grandezza di Città si chiama non lo spatio del sito, o il giro delle mura: ma la moltitudine de gli habitanti, e la possanza loro (Delle cause della grandezza delle città, 1617, p. 134).
Siamo di fronte a un quadro generale, efficace per i tempi, di costruzione di una teoria della civiltà umana fondata sul principe, sul popolo o sugli abitanti, sulla religione, sul lavoro e sul ruolo di quella filosofia del territorio o geografia che avrebbe avvinto anche il Tommaso Campanella della Città del Sole (1602).
Più che nell’operetta sulla città, queste intuizioni sarebbero state ampiamente svolte nelle Relazioni universali, soprattutto nelle parti dedicate alla descrizione del mondo americano. In quelle pagine, Botero ricorre allo studio delle condizioni dei selvaggi della Nuova Spagna e del Perù e al concetto di ‘stato di natura’ per delineare una visione dell’incivilimento come progressivo affinarsi dei modi di organizzazione sociale, rafforzato dal passaggio da una società nomade a una stanziale, come dimostra la storia degli imperi degli Incas e degli Aztechi.
A proposito dello stato di natura, il nostro autore, convinto com’è che l’affinarsi delle società e dell’uomo si concretizzi attraverso la morale evangelica, lo giudica il momento più basso del vivere umano e considera la teoria del ‘buon selvaggio’, di nascente successo, come una concezione poco utile nell’analisi della «varietà dei barbari», ove quelli più barbari sono coloro che vivono «senza legge e senza capi così in pace come in guerra» (Delle relationi universali, parte quarta, 1596, pp. 43-44).
Al contrario, nella sua costruzione di una storia della civiltà, egli pone in rilievo le organizzazioni del Nuovo mondo, quella dell’Asia, quella greca delle piccole polis e quella romana dei grandi centri come altrettante varianti dell’incivilimento nelle diverse epoche e nei differenti territori. La discriminazione dei popoli in selvaggi e in civilizzati gli consente di giustificare e assolvere la vocazione colonizzatrice ed evangelizzatrice dell’Occidente europeo e di arrivare a una definizione del mondo cristiano come vero mondo civilizzato.
Ma la fortuna e l’originalità delle Relazioni universali, più che nel loro essere un vasto panorama della diffusione del cristianesimo nel mondo, e il tentativo di storicizzarne il ruolo fondamentale nel favorire il sorgere e il mantenersi di uno Stato civile, stanno nell’offrire al lettore e all’uomo di cultura del Seicento una vasta serie di materiali, quasi un’enciclopedia volta a descrivere geograficamente, socialmente, antropologicamente e politicamente il mondo conosciuto e le nuove società esotiche.
Da questo punto di vista le Relazioni diventano la giustificazione storica di quanto scritto nell’ottavo libro della Ragion di Stato e del ruolo fondamentale della conoscenza storica per il buon «maneggio» della società. Infatti, il
maggior campo d’imparare è quello che ci porgono i morti con l’istorie scritte da loro, perché questi comprendono tutta la vita del mondo e tutte le parti di esso; ed invero l’istoria è il più vago teatro che si possa immaginare (Della ragion di Stato, cit., p. 46).
In altre parole, la storia offre gli strumenti per giungere al possesso della realtà, nel significato di conoscenza generale e organica dei motivi della grandezza e magnificenza delle città e degli Stati che, quantunque rivolta a conservare il potere del principe, pone comunque l’accento sulla vita civile e sulle sue innumerevoli dinamiche interne.
Lo Stato diviene un insieme di città con il territorio circostante, cui il sovrano offre sicurezza e tranquillità, identificando e tutelando tra l’altro i «siti comodi», cioè i luoghi e i territori adatti a far prosperare gli agglomerati urbani. Difatti, precisa Botero nel primo libro dello scritto sulle città,
sito commodo chiamo quello che è in parte tale, che molti popoli ne hanno bisogno per lo trafico e per mandar fuora i beni, che loro avanzano, o ricever quelli dei quali sono penuriosi (Delle cause della grandezza delle città, cit., p. 138).
Pertanto, se è vero che dev’essere ascritto al Benese il merito di avere, con la sua opera principale, lanciato e diffuso la formula politica della ragion di Stato, la cui locuzione non è direttamente rinvenibile nel Principe di Machiavelli (nella Blackwell encyclopaedia of political thought, 1987, p. 431, alla voce Renaissance political thought si sostiene asciuttamente che «the word became familiar after Giovanni Botero’s Ragione di stato was published in 1589»), occorre non trascurare il fatto che il suo pensiero, quantunque ancorato alle linee generali della politica aristotelica, tende a delineare i caratteri dei beni dei singoli, dando, quindi, un colore e un’identità alla figura del suddito, anche se questi beni sono in funzione del tutto, ovverosia dello Stato.
Essendo il Benese un uomo che vive intensamente il periodo di transizione tra l’homo novus del Rinascimento e l’homo pius dell’età della Controriforma, ecco che accanto allo Stato personale e all’unione tra principio e autorità emerge lo Stato impersonale come entità a sé stante, basata su un’organizzazione propria, un’autorità, un popolo, un territorio. È possibile perciò dire che con Botero la politica inizia a delineare il passaggio dal principe allo Stato come centro autonomo del potere.
Quantunque i suoi enunciati teorici siano deboli e la sua filosofia abbia fini esclusivamente pratici, tanto da essere considerato semplicemente un buon osservatore dei fatti concreti della scena politica, il libro sulla città e le Relazioni universali mutano le sue prospettive e lo trasformano in un uomo nuovo, sebbene cauto e dubbioso, che si basa sull’esperienza come fattore primario delle conoscenze umane e dello studio delle cose della politica.
Il richiamo, poi, al tema delle città come elemento dominante nella realtà dello Stato e il continuo sottolineare il ruolo della pratica segnano l’abbandono del modello retorico e rigido del principe e l’affermarsi dello studio delle tecniche di governo, orientate alla conservazione del potere. Con l’uso civile della geografia e della storia, con la filosofia, scienza della ragione concreta, e con la religione, che informa e plasma la società, Botero apre alla categoria della modernità il pensiero cattolico.
Se la realtà politica nuova delineata dal Principe di Machiavelli e dal dibattito suscitato dalle sue teorizzazioni aveva delineato una vera e propria arte tecnica della politica, focalizzata attorno alla figura del principe, pur rimanendo nell’ambito dell’agire politico, gli scritti di Botero delineano in nuce (e nelle Cause della grandezza delle città e in diverse parti delle Relazioni universali non solo in nuce) i primi elementi di quella teoria dello Stato impersonale, assoluto e autoreferenziale che il Seicento, soprattutto inglese, avrebbe sancito e il consolidarsi delle monarchie assolute concretizzato.
Così quel concetto di «bene pubblico», tratteggiato qua e là, ma mai ben definito, apre la teoria politica pratica boteriana al mondo che vive fuori e indipendentemente dalla vita di corte, e a quelle istituzioni che, pur seguendo le direttive dell’autorità regia, autonomamente le attuano nella realtà. Automaticamente significa, fatto salvo l’ordine politico, costruire la figura concreta, viva e variegata del suddito, che non è più passivo, ma contribuisce alla conservazione del potere con la ricerca di un’armonia tra pubblico e privato.
De regia sapientia libri tres. Quibus ratio Reipublicae bene faeliciterque administrandae continetur, Mediolani 1583.
Delle cause della grandezza delle città libri III, In Roma 1588.
Della ragion di Stato libri dieci, In Venetia 1589.
Delle relationi universali prima [-quarta] parte, 4 voll., In Roma 1591-1596.
Della Ragion di Stato si segnalano anche le seguenti edizioni:
Della ragion di Stato libri dieci, con tre libri delle cause della grandezza, e magnificenza delle città, In Venetia 1589.
Della ragion di Stato, libri dieci. Con tre libri delle cause della grandezza delle città. [...] Di nuovo in questa impressione, mutati alcuni luoghi dall’istesso autore, et accresciuti di diversi discorsi, In Venetia 1589.
Della ragion di Stato, con tre libri Delle cause della grandezza delle città, due Aggiunte e un Discorso sulla popolazione di Roma, a cura di L. Firpo, Torino 1948.
Della ragion di Stato, a cura di C. Continisio, Roma 1997.
F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson, in der neueren Geschichte, München-Berlin 1924 (trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, Firenze 1970), pp. 65-70.
L. Firpo, Gli scritti giovanili di Giovanni Botero. Bibliografia ragionata, Firenze 1960.
Scrittori politici del ’500 e ’600, a cura di B. Widmar, Milano 1964, pp. 25-27, 621-93.
E. Garin, Storia della filosofia italiana, 2° vol., Torino 1966, pp. 784-89.
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L. Firpo, Botero Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1971, ad vocem.
L. Firpo, La “Ragion di Stato” di Giovanni Botero: redazione, rifacimenti, fortuna, in Civiltà del Piemonte. Studi in onore di Renzo Gandolfo nel suo settantacinquesimo compleanno, a cura di G.P. Clivio, R. Massano, Torino 1975, pp. 139-64.
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M. D’Addio, Storia delle dottrine politiche, 1° vol., Genova 1984, pp. 510-22.
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Botero e la ‘ragion di Stato’, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino (8-10 marzo 1990), a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992.
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