Giovanni Botero
L’opera di Giovanni Botero rappresenta un momento fondamentale nell’elaborazione di concetti e termini del pensiero politico moderno. È stato grazie a lui che si è affermata nel linguaggio politico europeo l’espressione ragion di Stato. A lui si deve inoltre la proposta di un’originale combinazione di fattori politici e ambientali per quella che fu la prima analisi della città come forma originale di società politica e di centro di organizzazione della vita civile. Ed è merito suo aver affrontato per la prima volta con un’opera enciclopedica il compito di descrivere il mondo a lui contemporaneo, adattando e ampliando la prospettiva storiografica alla scala del mondo nell’età della ‘prima globalizzazione’.
Giovanni Botero nacque a Bene (odierna Bene Vagienna) nel 1544. All’età di quindici anni entrò nella Compagnia di Gesù raggiungendo nel collegio di Palermo lo zio Giovenale. Dopo la morte dello zio approfondì la sua preparazione al Collegio romano accanto a compagni di studio come Roberto Bellarmino. Fin dalla prima giovinezza la sua intelligenza colpì chi lo conobbe. Il generale dei gesuiti Francisco Borja lo segnalò come scrittore «molto dotto» e «poeta naturale» nel presentarlo al rettore del collegio gesuitico di Loreto nel 1562: ma fece anche presente che quello del giovane era un carattere inquieto, forse per effetto di un qualche «umore poetico». L’avvertimento si rivelò parzialmente giusto: la carriera di Botero come gesuita fu precoce ma piuttosto turbolenta, mentre la vocazione poetica lasciò presto il posto a interessi per la politica come problema intellettuale e morale e come pratica delle corti e dei potenti.
Trasferito a Milano e a Padova, la sua inquietudine si manifestò nella domanda (non accolta) di essere inviato come missionario in India, secondo un tipico e diffuso progetto di vita che dominava le menti dei giovani gravitanti intorno alla Compagnia e nutriti dalla letteratura di relazioni di viaggi e di successi missionari. Rimandato nella sede di Milano, fu protagonista di un incidente in quanto in una predica sul tema del ‘regno di Cristo’, commentando il salmo 2 davanti al cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, sostenne la tesi che Cristo non aveva avuto un dominio temporale sul mondo. Fu questa la prima occasione in cui egli affrontò pubblicamente quel tema del potere politico che doveva poi occupare la parte maggiore e più importante della sua opera. Ma la tesi che aveva sostenuto nella sua predica sembrava fatta apposta per irritare il cardinal Borromeo, già sospettoso e maldisposto verso i gesuiti e allora impegnato in un duro conflitto con le autorità spagnole dello Stato di Milano per le sue pretese di disporre di un corpo armato ai suoi comandi. Il malumore del cardinale costrinse dunque i superiori della Compagnia a spostare Botero e a mandarlo al Collegio di Torino. La cosa fu cagione per lui di una profonda depressione («maninconia»): deluso anche per non essere ancora stato ammesso alla professione solenne, protestò e minacciò di appellarsi al papa. Era la ribellione all’autorità del generale. Per questo fu imprigionato e poi espulso.
Ritornato a Milano, ricevette un aiuto inaspettato proprio da Carlo Borromeo. Accolto per pietà nel clero della diocesi di Milano, si impegnò nella composizione di prediche e di trattati nel quadro del programma di restaurazione religiosa e morale perseguito dal cardinale. A lui dedicò il trattato in latino De regia sapientia, stampato a Milano nel 1583, dove affrontò proprio il tema del potere politico che doveva poi sviluppare nell’opera maggiore e più nota sulla ragion di Stato.
Nell’intervallo tra i due scritti Botero arricchì la sua esperienza del mondo. Dopo la morte di Carlo Borromeo, una missione affidatagli dal duca di Savoia Carlo Emanuele I nel 1585 gli permise di conoscere la realtà della Francia immersa nelle guerre di religione e di arricchire la sua esperienza culturale e politica, che mise a frutto in seguito nelle opere maggiori di carattere politico, storico e geografico. Legatosi alla famiglia dei Borromeo seguì a Roma il giovane Federico nella veste di suo segretario e precettore. Qui ottenne anche un ruolo nel funzionamento della Congregazione dell’Indice e in tale veste poté seguire la discussione che vi si svolse intorno all’opera di Jean Bodin (1529-1596).
Si aprì così la fase più impegnativa e ricca di successo della sua attività di scrittore di politica e di storia che dovette, però, fare i conti con l’impegno al servizio del cardinal Federico: la ricerca di una maggiore libertà per i diletti studi lo portò, alla fine, a distaccarsi da tale servizio. Il tentativo di un radicamento a Roma non ebbe successo. Così tornò a guardare alla corte di Torino dove poté trasferirsi grazie alla nomina a precettore dei figli del duca Carlo Emanuele I. Tra le altre attività svolte nell’ambito della corte, nel 1606 compì un viaggio in Spagna al seguito dei giovani principi. Rientrato a Torino, poté contare su anni di lavoro tranquillo durante i quali rafforzò l’originario legame con la Compagnia di Gesù, cui volle destinare la sua cospicua eredità. Morì a Torino il 23 giugno 1617 e, seguendo le sue istruzioni, fu sepolto dai gesuiti nella loro chiesa dei SS. Martiri senza alcun segno che ne distinguesse la tomba.
Il nome di Giovanni Botero è legato soprattutto al suo libro su La ragion di Stato con il quale egli si conquistò un posto duraturo nella letteratura politica europea. In quegli anni si parlava molto di ‘ragion di Stato’. Il termine era affiorato sotto la penna di Francesco Guicciardini nel Dialogo del reggimento di Firenze (1521-25), era stato usato da monsignor Giovanni Della Casa a metà Cinquecento e aveva finito con il diventare un’espressione abituale per indicare l’esistenza di una norma di condotta speciale per chi maneggiava affari di Stato. La moda del tacitismo, che allora si stava affermando, rifletteva nello specchio del mondo antico e negli episodi dell’arbitrio crudele di imperatori pagani un’idea della politica come campo dove la morale comune e le normali regole di vita erano non solo ignorate, ma del tutto sovvertite. Come si poteva conciliare tutto questo con l’imposizione di norme di comportamento dedotte dalla religione cristiana e con la pretesa dei sovrani dei nuovi Stati territoriali di essere investiti del loro potere direttamente da Dio? Questo era il problema che moralisti e teologi dell’età della Riforma e della Controriforma erano chiamati a risolvere.
Tra i consiglieri del sovrano spiccava sempre più l’importanza di coloro che si occupavano della sua coscienza. E nella pratica del governo ecclesiastico delle coscienze e del ricorso al sacramento della confessione la scienza dei casi o casuistica di coscienza aveva assunto un ruolo fondamentale. Specialisti della materia furono proprio i gesuiti, ai quali era allora diffusamente assegnato il compito di insegnare al clero in cura d’anime i modi di sciogliere le perplessità della condotta morale. Era un contesto lontanissimo da quello in cui aveva operato e scritto Niccolò Machiavelli. Alla sua attenzione rivolta alla ‘realtà effettuale’ niente era stato più estraneo della ricerca di come si potessero giustificare sul piano morale e religioso i comportamenti effettivi degli uomini. L’esistenza di «cagioni superiori, alle quali mente umana non aggiugne» (Il principe, cap. XI) era stata evocata ironicamente da lui solo quando aveva alluso allo Stato della Chiesa. Ma nel contesto dell’affermazione dei grandi Stati moderni e delle lacerazioni religiose della coscienza europea dell’età della Riforma protestante e del Concilio di Trento il problema di accordare le regole della politica con la morale cristiana si era fatto lacerante e la soluzione scelta era stata quella di condannare come empio e ateo il pensiero di Machiavelli.
I conti con Machiavelli Botero aveva cominciato a farli quando aveva inserito nel De regia sapientia (1583) una «digressio in Nicolaum Machiavellum». Ma il problema era assai arduo. L’opera di Machiavelli era stata condannata senza possibilità di appello dagli Indici cattolici dei libri proibiti e dalla cultura protestante. Vanamente si tentava da parte di alcuni di riportarla alla luce. E tuttavia i suoi libri si leggevano molto. Basti ricordare la presenza del Principe nella biblioteca di papa Felice Peretti, Sisto V, che come inquisitore a Venezia era stato un protagonista della campagna per l’eliminazione dei libri proibiti. Quanto più lo si condannava e se ne esecravano le idee tanto più la realtà della politica e le nuove forme del potere imponevano di far ricorso agli strumenti di analisi che Machiavelli aveva proposto.
Nel contesto italiano, l’apologetica cattolica era insorta da tempo contro i due temi fondamentali individuati all’interno dell’opera di Machiavelli: quello del rapporto tra Chiesa e Italia e quello dell’uso della religione come instrumentum regni. Se questo secondo punto era stato motivo della condanna senza appello di Machiavelli come autore diabolico fin dalla Apologia ad Carolum V Caesarem di Reginald Pole, era sul primo che si era concentrata in modo speciale la polemica di molti scrittori dell’antimachiavellismo italiano del secondo Cinquecento. Nelle accademie e nelle corti i temi della politica venivano trattati dai membri di una società letteraria composta per la maggior parte da uomini di chiesa. Proprio perché sull’autorità del papato e sulla funzione della religione per mantenere fedeli i sudditi poggiava la maggior parte dei regimi dei piccoli Stati italiani, lo sforzo degli scrittori di politica fu concentrato nel dimostrare che proprio la presenza della sede della Chiesa era la causa della condizione particolarmente felice della penisola: si ricorreva al ricordo delle feroci lotte tra guelfi e ghibellini per sostenere, come fece il canonico regolare bolognese Mario Mattessilani, che solo grazie alla Chiesa la società italiana aveva trovato la pace (Gli horribili mostri che partoriscono le parti guelfe et ghibelline, 1587). Si poteva pretendere di dimostrare così che la Chiesa era la causa della felicità dell’Italia, come scrisse l’oratoriano Tommaso Bozio, che si impegnò anche a demolire la tesi di Machiavelli del rapporto tra religione cristiana e declino del valore militare.
Va detto, tuttavia, che fin da questo primo approccio al tema della politica Botero si distinse dall’aggressività di predicatori e moralisti tesi a denigrare scandalizzati le idee dell’innominabile autore condannato. A Botero Machiavelli apparve come un homo sane ingeniosus, sed parum Christianus («sicuramente dotato d’ingegno, ma poco cristiano»): una constatazione, piuttosto che una condanna senza appello. Nel proporre un modello positivo da contrapporre a quello machiavelliano, Botero si preoccupò soprattutto di confutare indirettamente la tesi che più aveva urtato il primo lettore dei Discorsi, lo spagnolo Juan de Sepúlveda, quella dell’effetto negativo del cristianesimo sul valore militare. I modelli del Davide biblico e del crociato Goffredo di Buglione furono da lui evocati come l’esempio positivo di quanto la speranza nel premio della vita eterna potesse esaltare il soldato cristiano. La cultura della Controriforma, da Francesco Panigarola ad Antonio Possevino a Torquato Tasso, fu percorsa da impulsi eroici alla santificazione della guerra. E Botero ne fu un precoce interprete.
Quando Botero nel 1589 dette alle stampe la sua opera sull’argomento aveva alle spalle una carriera di gesuita, interrotta in modo traumatico, e stava facendo altre esperienze nel grande teatro politico ed ecclesiastico del tempo. La formazione culturale e religiosa all’interno della Compagnia lo aveva portato a tentare le proprie fortune coltivando il genere dell’eloquenza sacra e della poesia latina, usando il repertorio dell’Umanesimo formale e retorico coltivato nelle scuole dei gesuiti. L’incidente della predica milanese sul ‘regno di Cristo’ non cancellò le sue ambizioni di autore di prediche e di scritti devoti. Ma altre ambizioni presero il sopravvento grazie alla frequentazione di potenti e al gusto, anche questo tipicamente gesuitico, di svolgere un ruolo nel gran teatro della politica. La volontà di conquistarsi un posto di consigliere nel mondo dei potenti l’aveva manifestata già nel 1573 quando, docente di retorica a Padova, in occasione del passaggio in città di Enrico III di Valois, nuovo re di Polonia, aveva composto un carme latino che esaltava il valore del destinatario e lo invitava a estirpare l’eresia dal suo regno. Ora, in prosa, si cimentava con il tema più diffuso e controverso della cultura del tempo: la discussione sul rapporto tra cristianesimo e politica.
S’incontrava così con l’ombra grande di Machiavelli, l’autore contro il quale la cultura cattolica italiana aveva sferrato un’offensiva spietata prima ancora che l’Indice dei libri proibiti ne recasse il nome tra quelli degli autori proibiti di prima classe. Ma non solo con lui. Per Botero, nell’accostarsi alla questione, fu fondamentale la lettura dell’opera di Bodin Les six livres de la République (1576) che si innestò così per lui sull’antimachiavellismo corrente nell’ambito della Compagnia. Se ne avverte l’influsso nell’opera concepita e pubblicata a Roma nel 1588, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, uno studio sui rapporti tra ambiente, demografia ed economia notevole per originalità e acutezza. L’attenzione ai dati ambientali del territorio e a quelli della popolazione come nerbo dello Stato fu la chiave di accesso alla trattazione della politica: non per niente il trattatello fu allegato in appendice al trattato Della ragion di Stato fin dalla prima edizione del 1589.
A spingere Botero alla stesura del suo primo libro importante non fu dunque l’urgenza di scrivere l’ennesimo pamphlet contro Machiavelli, ma il confronto con l’altro protagonista che dominava allora la scena della cultura politica: Bodin. I Sei libri della Republica, comparsi in traduzione italiana a Genova nel 1588, posero alla censura ecclesiastica problemi tanto più gravi quanto più si alzava all’orizzonte della Francia lacerata dalle guerre di religione il pericolo della tendenza detta dei ‘Politici’ a separare le scelte religiose dal senso di appartenenza allo Stato. Era in quella direzione che si stava cercando una soluzione del conflitto di religione in Francia: ma era proprio questo che il papato voleva impedire. Si trattava di riportare i sovrani cattolici all’obbedienza al potere supremo della Santa Sede e di impegnarli a garantire l’ortodossia religiosa dei loro sudditi e l’eliminazione degli eretici. Botero aveva fatto esperienza della realtà francese. Era dunque in grado di comprendere l’importanza dell’opera di Bodin. Inoltre si era venuto a trovare in una posizione strategica nell’istituzione centrale del governo della cultura della Controriforma: nel 1588, proprio mentre l’opera di Bodin usciva a stampa in italiano, si trovava a Roma dove era giunto nel 1586 come segretario e precettore del giovane Federico Borromeo. Rivestiva allora anche il ruolo di consultore della Congregazione dell’Indice. Poté dunque seguire la discussione che vi si svolse intorno all’opera di Bodin. L’opinione prevalente all’interno della Congregazione fu che non bastava proibirne la lettura, come avvenne con il decreto che la pose all’Indice: secondo Minuccio Minucci, arcivescovo di Zara, bisognava – come si legge nei verbali della Congregazione – che «qualc’huomo dotto et pio satiasse queste communi voglie della gente con qualche bevanda christiana et giovevole, la quale insieme con le ragioni politiche, o ragioni di Stato, infondesse ad altri il gusto soavissimo della legge di Christo, et della fede catolica». E per questo era necessario comporre un «libro buono», capace di «formare un huomo politico christiano».
Botero si sentì chiamato a realizzare l’opera necessaria. Invece di uno scritto di confutazione dell’opera di Bodin o di un trattato teologico in latino, compose un libro in italiano, di contenuto positivo e non polemico, tale da poter sostituire non solo e non tanto l’opera condannata e impresentabile del segretario fiorentino, ma anche le proposte di Bodin su come si dovesse amministrare in modo efficace lo Stato per garantirne l’unità e per assicurare la pace religiosa come bene supremo.
Nel passaggio dallo scritto De regia sapientia del 1583 in latino al trattato in italiano, il cambiamento di pubblico portò un mutamento nel tono che si percepisce fin dal modo in cui è esposta l’occasione della genesi. Nella lettera di dedica del trattato maggiore Botero allargò la materia e l’occasione parlando delle esperienze e delle osservazioni fatte nel corso di viaggi «or di qua, or di là da’ monti», frequentando le corti «di Re e di Prencipi grandi». Era lì che aveva sentito parlare spesso della ragion di Stato, con citazioni continue di Machiavelli e di Tacito. Anche in questa occasione Botero ribadì le sue precedenti espressioni di sdegno e di condanna e dichiarò di essersi meravigliato nel sentire che si prendeva a modello la tirannia di Tiberio e si seguivano le idee di un autore «empio». Da qui – affermò – gli era venuta l’idea di scrivere un’opera di polemica contro Machiavelli: dalle sue idee e dal modello del tiranno antico erano venute, secondo lui, le «corruzioni» del governo dei principi e «tutti gli scandali nati nella Chiesa di Dio e tutti i disturbi della cristianità».
Non lo fece. E in questo risiede il segreto del suo successo. Seguì una strada diversa da quella battuta dalla generalità degli scrittori della polemica antimachiavelliana, cattolici o protestanti.
Discutendo con Machiavelli Botero scelse di proporre la parte positiva e non quella negativa. Bisognava insegnare al sovrano per quali vie poteva accrescere il suo Stato e «governare felicemente i suoi popoli»: e spiegargli bene quanto fosse importante la religione a questo fine, facendo tesoro anche della scoperta di Machiavelli, ma nello stesso tempo adattandola alla realtà dei tempi. E accanto alla religione era la nozione stessa di Stato che doveva essere aggiornata alla realtà delle nuove forme del potere politico e alla complessità dei compiti che ricadevano sull’apparato di governo della monarchia assoluta: entrarono così nell’opera di Botero i temi della giustizia, della guerra e l’intero campo dell’economia come tanti ambiti nei quali era chiamata a operare la virtù della sapienza del sovrano. Fu dunque evitando di entrare nella grande corrente dell’antimachiavellismo che Botero poté lasciarsi alle spalle una carriera di poeta occasionale e di ecclesiastico amministratore di anime. L’ambizione di svolgere un ruolo nel mondo dei potenti l’aveva manifestata da tempo. Ora, in prosa, si cimentava con il tema più diffuso e controverso della cultura politica del tempo: la discussione sulle arti della politica. I segreti delle corti e i maneggi dei potenti erano il tema che attirava la curiosità dei lettori verso una realtà dove, per convinzione comune, vigevano regole diverse e superiori rispetto a quelle della morale ufficiale. Tuttavia, la grande ombra di Machiavelli continuava a incombere. Con lui occorreva fare i conti. Ne è prova l’articolazione di diverse sezioni della Ragion di Stato di Botero di cui si potrebbero indicare facilmente le corrispondenti parti delle opere di Machiavelli. E la voce di Machiavelli appare riconoscibile anche se in qualche modo tradotta e paludata in molti precetti e sentenze. Un solo esempio: l’invito al sovrano a «non dare in una volta tutto ciò che vuol dare, ma a poco a poco» traduce e moralizza il commento di Machiavelli ai casi di Agatocle e di Cesare Borgia nel capitolo VIII del Principe, là dove dice che «le iniurie si debbono fare tutte insieme […], e’ benefizi si debbono fare a poco a poco, acciò che si assaporino meglio». Ma delle scultoree massime machiavelliane restò in Botero solo il lato presentabile nell’ipocrita moralità dominante: per es., non vi sarà più la simulazione, ma vi resterà la dissimulazione.
Il punto fondamentale del confronto con Machiavelli restava quello del rapporto tra la religione e lo Stato. La definizione del potere politico e i consigli per garantirne l’efficacia passavano da lì nell’età di Botero assai più di quanto facessero in quella di Machiavelli. L’efficacia del dominio politico è evocata fin dalla frase d’inizio dell’opera di Botero che nel tono oggettivo e pacato rivela il registro scelto dall’autore: «Ragione di Stato si è notizia de’ mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio». Il dominio è misurato dalla dimensione del territorio e dalle caratteristiche dei sudditi: e qui si avanza la lezione di Bodin. La conservazione e l’accrescimento del potere sovrano appaiono a Botero minacciati da cause interne più che da nemici esterni. Il popolo che abbia «i cibi necessari a buon mercato» e non tema di essere invaso e depredato da nemici esterni o minacciato da assassini non potrà «se non esser contento e d’altro non si cura» (La ragion di Stato, a cura di C. Continisio, 1997, p. 83). Il principe deve dunque essere «l’interprete di questi fini di ‘lungo termine’». Ovviamente dovrà esibire ai sudditi una moralità a tutta prova: la corruzione morale dei potenti è per Botero come una malattia che dal vertice si comunica all’intera compagine dello Stato. La libidine sfrenata dei potenti, l’eccesso di godimenti e di ricchezze si traducono nella «superbia, l’arroganza, l’ambizione, l’avarizia de’ magistrati, l’impertinenza della moltitudine» (p. 13). Al buon sovrano è garantita l’obbedienza dei sudditi, cioè «il fondamento principale d’ogni Stato». L’impianto dell’opera appare nettamente caratterizzato dall’obiettivo di fornire un’esposizione dell’arte del governo degli Stati alternativa a quella di Bodin.
Tuttavia, nel richiamo a una fitta serie di episodi e personaggi storici atti a fornire modelli concreti delle regole di una efficace ragion di Stato, la lettura di Machiavelli si rivela come il passaggio obbligato della cultura politica della Controriforma italiana. Botero saccheggiò gli autori antichi che Machiavelli aveva immesso nella costruzione del suo pensiero, da Vegezio a Dionigi d’Alicarnasso, e si preoccupò di elaborare su quelle basi una «scienza della conservazione» del potere statale capace di far fronte alle minacce di rivoluzioni religiose del tempo. L’eredità del pensiero politico fiorentino del primo Cinquecento fu ripresa e adattata da lui alle necessità di tempi assai diversi, ma dominati ancor più diffusamente di allora dal problema di garantire un assetto stabile del potere sovrano su territorio e popolazione. L’esperienza italiana era quella di un’alleanza dei principi degli Stati della penisola con la Chiesa. E da qui Botero ricavò la ricetta fondamentale che sta al centro della sua opera: quella dei servizi speciali che la Chiesa poteva offrire al potere politico.
I capitoli finali del secondo libro sono dedicati alle «virtù conservatrici» dello Stato: che viene presentato con l’immagine della vigna, divenuta grazie a Botero assai familiare alla cultura italiana e gesuitica del tardo Cinquecento. Lo Stato è una vigna umana: per fare frutto deve essere potata e sorvegliata accuratamente. È qui che interviene l’«industria umana». Pochi anni dopo fu il gesuita Antonio Possevino a proporre l’immagine al centro del primo libro della sua Bibliotheca selecta (1593), dedicata alla «coltura degli ingegni»: e Cesare Ripa nella sua Iconologia (1593) rappresentò la censura con la figura del contadino che pota l’arbusto per renderlo fruttifero. In questa funzione risulta insostituibile l’opera della Chiesa con il suo apparato di governo delle anime e di controllo delle opinioni. Ed è così che viene utilizzata e tradotta nella lingua dei tempi quella che era stata la scoperta di Machiavelli: la religione come fondamento primario dello Stato. Botero riscrive i capitoli sulla religione dei Discorsi machiavelliani a tal punto che se ne avverte anche la cadenza stilistica.
Ma alla tesi di Machiavelli, sostanzialmente accolta per il nucleo fondamentale, quello della necessità di un fondamento religioso per dare consistenza e durata al potere politico sul popolo dei sudditi, bisognava introdurre un correttivo aggiornandola e traducendola nel contesto nuovo. Machiavelli non si preoccupava delle pretese di verità di una speciale religione. L’aggiornamento con il quale Botero la rimise in circolazione consistette nel lasciare cadere le sette vecchie e nuove e nel far emergere solo la religione cristiana come l’unica non solo vera, ma anche di gran lunga più efficace nel garantire la conservazione e l’accrescimento del dominio politico sui sudditi. È su questo punto che il discorso piano e positivo si alza nettamente di tono:
Ma, tra tutte le leggi, non ve n’è alcuna più favorevole a’ Prencipi che la cristiana, perché questa sottomette loro non solamente i corpi e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora e le conscienze, e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri, e vuole che si obedisca a’ Prencipi discoli, nonché a’ moderati, e che si patisca ogni cosa per non perturbar la pace (La ragion di Stato, cit., p. 76).
Era un’affermazione di cui Botero portava le prove citando l’esempio dei martiri antichi, sempre buono e particolarmente allora mentre la Roma papale diventava la nuova Gerusalemme dei pellegrinaggi e degli anni santi e scopriva sotto quella visibile la città sotterranea dei sepolcreti cristiani. Ma era soprattutto evocando lo spauracchio delle «zizanie e revoluzioni di Stati e rovine di Regni» (p. 76) seminate da Martino Lutero e Giovanni Calvino che Botero invogliava i potenti ad accostarsi al cristianesimo romano, garanzia di fedeltà e di obbedienza a sovrani buoni e cattivi. Era un’offerta che suonava tanto più attraente quanto più in quegli anni la realtà dell’Europa dimostrava la pericolosità di lasciare i singoli alle prese con i dettami delle loro coscienze: anche i cattolici non apparivano indenni dalla volontà di rovesciare il sovrano anticristiano come un tiranno illegittimo. Anzi, negli anni in cui Botero componeva la sua opera era soprattutto il versante cattolico ad apparire carico di minacce per l’assetto stabile degli Stati. Oltre alle guerre di religione in Francia ne davano prova le missioni dei gesuiti in Inghilterra dopo la scomunica fulminata contro Elisabetta I; e negli anni successivi la Francia doveva sperimentare la minaccia del regicidio da parte di cattolici ispirati – si pensò – proprio dai gesuiti.
I consigli al sovrano per assicurarsi la fedeltà dei sudditi e mettere fuori gioco coloro che non accettavano l’unica religione riportano il lettore sul terreno concreto dell’esperienza. Per guadagnare alla fede ebrei, infedeli, eretici, Botero proponeva metodi già sperimentati e attestati nella letteratura storica riprendendo suggerimenti tipici della tradizione del pensiero politico fiorentino, quando il passaggio dalla repubblica al principato aveva reso evidente la necessità per i Medici di conquistare soprattutto le giovani generazioni: attirare, sedurre e «guadagnare i sudditi d’acquisto» (p. 110) con nozze, leggi e riti comuni; quanto a infedeli ed eretici, bisognava convertirli. E qui si insiste sull’utilità delle scuole per ricondurre alla verità le pecorelle smarrite e si richiama il modello della Compagnia di Gesù, con l’esempio del frutto delle missioni nelle Indie portoghesi. Restava da risolvere il problema degli «indomiti»: musulmani e calvinisti in primo luogo. Questi bisognava «avvilirli» (p. 114), condannandoli a ruoli servili e a «esercizi mecanici», come aveva fatto «Faraone» con «i Giudei» (p. 115). Era il frutto dell’etica nobiliare e del disprezzo del lavoro manuale nell’età dei gentiluomini. Ma c’era un esercizio disciplinatorio speciale che stava guadagnando i favori della cultura tacitista del tempo, sotto l’influsso dell’umanista fiammingo Giusto Lipsio (1547-1606) e del neostoicismo: quello delle armi. Non è un caso che Botero, pur avaro di attenzioni per Lipsio, inserisca a questo punto il tema del rapporto tra lettere e armi nell’educazione: un tema che doveva far versare molto inchiostro nelle accademie italiane, anche se Botero lo risolve rapidamente. Le lettere, secondo lui, andavano bene per stimolare l’amore della gloria nei capitani, ma per i soldati che dovevano solo obbedire ciecamente senza la prudenza e la cautela dei letterati era meglio puntare sulla rozzezza e l’assenza di studi. E si affaccia qui ancora un tema machiavelliano, quello del valore militare degli svizzeri.
Realistico, esente dallo spirito dell’utopia che doveva parlare per bocca di Tommaso Campanella, Botero proponeva un’etica statale cristiana che consentiva al potere sovrano di alzare la barriera del segreto e del silenzio in nome della virtù fondamentale nell’epoca di Filippo II, la prudenza. E riassumeva i frutti dell’esperienza raccolti dalla più recente avanzata della Chiesa cattolica entro il territorio dello Stato. La sua opera poteva così apparire credibile quando suggeriva la necessità di un «conseglio di conscienza» (p. 73) come luogo dove affrontare preliminarmente le materie da trattare nel Consiglio di Stato. Rispetto al principato di Machiavelli come potere di un singolo, lo Stato si era evoluto e complicato nell’Europa del Cinquecento proprio con la creazione di un sistema di consigli tra i quali spiccava quello del consiglio o «Mesa de conciencia» (il termine è quello che definì il consiglio portoghese) in cui un ruolo speciale spettava al confessore del re. Naturalmente Botero si guardò bene dall’evocare gli esempi machiavelliani di Mosè e di Numa Pompilio, che pure avevano convinto un antimachiavelliano della prima ora come il cardinale Pole dell’importanza della religione, qualsiasi religione, nel sostenere il potere. Nel trattato di Botero è il nome di Costantino che appare in primo piano: ma non si cade nella trappola della famosa e ormai famigerata donazione di Costantino di cui Cesare Baronio intanto era costretto a riconoscere la falsità. È il Costantino che «metteva ogni sua fidanza nella Croce» (p. 74) a venire proposto all’imitazione del sovrano moderno per convincerlo a «introdurre la religione e la pietà e per accrescerla nel suo Stato» (p. 75).
Il successo arrise a Botero. La sua Ragion di Stato, più volte rifatta e aggiornata con nuovi accumuli di esemplificazioni storiche, conobbe una diffusione che fece entrare stabilmente quella espressione nelle varie lingue europee. Intanto si avviava la laboriosa stesura delle Relazioni universali, la cui prima parte uscì nel 1591 con dedica al cardinale Carlo di Lorena.
L’opera era nata per suggestione del cardinale Federico Borromeo: si trattava di rispondere alla domanda di quali fossero i caratteri delle diverse religioni esistenti nel mondo e di quanto ampiamente fosse diffuso il cristianesimo di obbedienza romana. Nel conflitto tra le diverse confessioni cristiane intorno alla questione di quale fosse la vera discendente dalla Chiesa primitiva il papato romano era stato messo sotto accusa dalla Riforma protestante che aveva opposto la fedeltà alla Scrittura sacra alle tradizioni non scritte di cui i teologi di parte romana e il Concilio di Trento avevano sostenuto il valore di parte integrante del patrimonio dottrinale del cristianesimo. Ma sempre più la controffensiva della Chiesa di Roma si era avvalsa della prova della sua diffusione mondiale per sottolineare, tra i caratteri identificativi della vera Chiesa, quello della universalità o cattolicità.
La proposta del cardinale Borromeo impegnava dunque Botero a dare una dimostrazione della diffusione mondiale del cristianesimo di obbedienza romana, sostanziando di dati certi la tesi del carattere cattolico, cioè universale, della Chiesa governata dal papa. Sull’argomento esisteva tutta la vasta letteratura geografica dell’età delle scoperte e della formazione dei primi imperi coloniali, quella per intenderci su cui Giovanni Battista Ramusio (1485-1557) aveva costruito la sua monumentale raccolta Delle navigationi et viaggi alla metà del Cinquecento. Ma l’orizzonte delle conoscenze si era arricchito rispetto all’epoca segnata dagli scritti dello storico e geografo Pietro Martire d’Anghiera (1457-1526), dei viaggiatori italiani e degli storici spagnoli. Si era aggiunta un’ampia letteratura di missionari e predicatori, quella di cui Ramusio aveva dato un piccolo ma importante saggio con le lettere di Francesco Saverio. Tutta questa produzione Botero la conosceva bene, come mostra anche la sua Epistola De catholicae religionis vestigiis (1586) diretta al cardinale Antonio Carafa. E naturalmente conosceva bene la letteratura dei gesuiti, dalle lettere dei missionari alle opere di maggior spessore storico e geografico. L’attenta indagine svolta da Federico Chabod ha documentato la grande quantità di relazioni di viaggio da lui usate, come quella di Ludovico Guicciardini sui Paesi Bassi, quella di Antonio Possevino sulla Moscovia, quella di Francisco Álvarez sull’Etiopia e così via.
Su queste basi Botero costruì un’opera di carattere geostorico, quale non esisteva ancora, assicurandosi un successo di lettori ininterrotto per almeno un secolo. Ne organizzò le informazioni sotto forma di un’esposizione narrativa dell’aspetto geografico e delle istituzioni politiche delle varie realtà mondiali come se fosse il risultato di una personale esperienza diretta: l’opera sua, analogamente alla tendenza generale della letteratura gesuitica (si pensi anche all’opera successiva di Daniello Bartoli) tendeva a coinvolgere e attirare il lettore ‘presentificando’, per così dire, i quadri ambientali e i personaggi e colorendo con episodi di vita vissuta l’esposizione delle informazioni. L’opera crebbe rapidamente, articolandosi in diverse parti secondo un piano per completare il quale lavorò intensamente nel corso dell’ultima fase della sua vita: la prima parte fu dedicata a una descrizione del mondo dal punto di vista fisico e antropico, la seconda offrì un quadro dettagliato delle forme politiche, con la terza affrontò la questione della distribuzione e diffusione quantitativa delle diverse religioni. La quarta parte è la più legata ai temi che interessavano allora l’intera Compagnia di Gesù, quelli dell’attività missionaria tra i popoli americani. Rimase inedita fino al 1895 una quinta parte che comprende anche un quadro statistico del numero dei cristiani nel mondo rapportato a quelli delle altre religioni.
Scrittore infaticabile, Botero dedicò gli ultimi anni alla composizione di altre prove letterarie, nelle quali riemerse il mai cancellato filone dell’Umanesimo gesuitico con l’uso dell’erudizione a scopi edificanti. Tali furono le sue biografie dei Prencipi cristiani, i Detti memorabili di personaggi illustri, le Rime spirituali, i due libri Del Purgatorio. In questi scritti si avverte l’intensificarsi di motivi penitenziali e di condanna del mondo nell’opera di uno scrittore ormai stanco che si preparava così alla morte.
Nonostante le inesattezze e le lacune, ancora utile è la bibliografia sistematica degli scritti di Botero compilata da G. Assandria, Giovanni Botero. Note biografiche e bibliografiche, «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 1926, pp. 407-42, e 1928, pp. 29-63, 307-51.
Per La ragion di Stato si segnala, tra le edizioni recenti, quella curata da Chiara Continisio, Roma 1997.
Per tutti gli altri scritti, come osservava già Luigi Firpo, si deve quasi sempre fare ricorso alle stampe originali secentesche.
Delle Relazioni universali esistono diverse edizioni successive alla prima (Roma 1591). Un decreto dell’Indice (2 dicembre 1622) stabilì che la sola edizione consentita delle Relazioni universali era quella di Torino (1601), imponendo però che ne fossero cassati i giudizi su Enrico di Navarra e l’opera sua nelle guerre di religione in Francia; la parte V si legge in appendice a C. Gioda, La vita e le opere di Giovanni Botero, 3° vol., Milano 1895. Manca un’edizione moderna criticamente accertata che faccia il punto delle numerose aggiunte e varianti delle varie edizioni.
F. Chabod, Giovanni Botero (1934), ora in Id., Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 271-458 (da segnalare la preziosa appendice con l’esemplare analisi delle fonti delle Relazioni universali).
T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949.
L. Firpo, Gli scritti giovanili di Giovanni Botero, Firenze 1960.
H. Lutz, Ragione di Stato und christliche Staatsethik im 16. Jahrhundert, Münster in Westfalen 1961.
L. Firpo, Botero Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 13° vol., Roma 1971, ad vocem.
A. Albonico, Il mondo americano di Giovanni Botero, Roma 1990 (in appendice è riprodotto lo scritto, dedicato al cardinale Antonio Carafa, De catholicae religionis vestigiis, Milano 1586, tradotto poi in volgare, Roma 1588).
Per uno sguardo complessivo sullo stato degli studi l’opera di riferimento è Botero e la “Ragion di Stato”, Atti del Convegno in memoria di Luigi Firpo, Torino (8-10 marzo 1990), a cura di A.E. Baldini, Firenze 1992 (in partic. M. Stolleis, Zur Rezeption von Giovanni Botero in Deutschland, pp. 405-16).
Tra i lavori successivi si ricordano i seguenti:
A.E. Baldini, Primi attacchi romani alla “République” di Bodin sul finire del 1588. I testi di Minuccio Minucci e di Filippo Sega, «Il pensiero politico», 2001, 1, pp. 3-40.
R. Descendre, L’état du monde. Giovanni Botero entre raison d’état et géopolitique, Genève 2009.
R. Descendre, La penna della Controriforma, in Atlante della letteratura italiana, 2° vol., Dalla Controriforma alla Restaurazione, a cura di E. Iraci, Torino 2011, pp. 249-55, in partic. p. 253.