BOTTARI, Giovanni
Nacque a Chioggia da Benedetto e da Santina Vianelli il 24 ag. 1758. Educato nel seminario di Ceneda, ne uscì nel 1775, ottenendo dal padre il consenso di dedicarsi alla coltivazione di un latifondo domestico situato nel territorio di Loreo. Vi introdusse la coltivazione dei gelsi, a filare, a boschetto, a siepi e con l'allevamento dei bachi da seta riuscì a rendere produttiva una terra che per la sua sterilità era chiamata "Deserto"; a questa attività pratica alternava una fitta corrispondenza con esperti dell'industria serica come il conte Bettoni di Brescia e l'abate G. Bruni.
Nel 1782 a causa di dissapori domestici si trasferì a Cesarolo, presso Latisana, dove si impiegò come agente dei fratelli Minotto. Il suo dinamismo commerciale e il matrimonio contrastato con Francesca Morossi, appartenente ad una delle famiglie più cospicue del paese, lo resero inviso ai nobili della zona, che gli rimproveravano anche gli eccessivi guadagni realizzati con la vendita di biade ai contadini. Guastatosi coi Minotto, prese in affitto 50 campi friulani in località San Michele di Latisana, dove si stabilì, e con l'aiuto dello zio Bartolomeo, medico ed esperto botanico, che alla sua morte lo lasciò erede di una notevole fortuna, diede l'avvio ad una radicale trasformazione della tenuta.
Cultore di poesia e lettore attento e di vasti interessi, il B. era anche sensibile alle nuove idee degli illuministi francesi e in particolare di Rousseau, uno degli autori più letti nel Veneto, nonostante la vigilanza della censura (cfr. Berengo, p. 138). Qualche libera parola al caffè di Latisana, ardite espressioni sulla libertà naturale e le leggi di natura, un'ammirazione non celata per l'Assemblea costituente e una avversione decisa per i re da lui definiti "tiranni" e infine l'odio del vicecapitano del paese Giacomo Antonio Colonna, che lo sospettava promotore di un ricorso contro di lui per il reato di concussione, coinvolsero il B. in un pericoloso processo politico.
Su denuncia dello stesso Colonna, gli inquisitori di Stato lo fecero arrestare il 3 sett. 1792 per aver tenuto "imprudenti e liberi discorsi" e diffuso "massime di pericoloso carattere". Dalle indagini condotte a Latisana la portata delle accuse risultò in parte attenuata: il paese, secondo le testimonianze dei suoi stessi accusatori, Alvise Mocenigo e Giacomo Colonna, era "per natura torbido e irrequieto", sede di contrabbandieri e ricovero di abitanti rifiutati da altre località perché colpiti da censura. Esisteva un forte malcontento dei villici nei confronti dei nobili giurisdicenti e dei loro ministri per il godimento delle Valli dei Pantani in località Sottopovolo, il cui guardiano era stato addirittura assassinato, e da poco erano scoppiati dei torbidi per il rincaro della carne provocato dal rifiuto del beccaro appaltatore di attenersi al capitolato sottoscritto. Parecchi testimoni, pur ammettendo di aver sentito le dichiarazioni di simpatia per i rivoluzionari e confermando che il B. deteneva libri francesi e ne diffondeva i principî, attenuarono poi la gravità di queste affermazioni, preferendo sottolineare nell'imputato il carattere "fervido", il "temperamento ardito", il gusto per il gesto e l'atteggiamento anticonformisti. Questo forestiero arricchito, educato "alla moderna", legato in giovinezza ad una moglie protestante, accusato anche di non credere alle testimonianze scritturali della confessione auricolare e sostenitore del diritto di ogni uomo libero di "pensar a suo talento", si trovava in realtà di fronte alla ostilità dei nobili che esercitavano ancora la giurisdizione feudale su Latisana, che gli attribuivano, forse non a torto, la responsabilità del malcontento dei contadini; del resto lo stesso inquisitore Paolo Bembo, in una lettera del 18 ag. 1792, lo supponeva vittima di macchinazioni di persone "malevole e inimiche". Durante la detenzione la sua posizione fu però aggravata dall'intercettazione di alcune sue lettere, in cui ribadiva il suo risentimento verso il Colonna e riaffermava in modo esplicito la simpatia per quelle idee francesi, che tanto preoccupavano la Repubblica veneta.
Condannato infine a diciotto mesi di relegazione nella fortezza di Palma, il B. venne liberato il 20 dic. 1793 a condizione che non rientrasse a Latisana. Il 27 novembre poté tornare a Villa San Michele e infine il 7 ag. 1795 ottenne di recarsi anche a Latisana, purché si astenesse da ogni ingerenza negli affari della comunità.
Amareggiato dalla triste esperienza che affievolì i suoi sentimenti filofrancesi, si ritirò nella sua tenuta, che aveva sofferto dalla sua lunga assenza e si dedicò completamente ai lavori agricoli.
In una lettera a Filippo Re, professore di agraria all'università di Bologna, scritta il 9 apr. 1811 (cfr. Annali dell'agricoltura del Regno d'Italia, t. XI, 1811, poi stampata a parte), egli descrive personalmente la sua fattoria, quale appariva dopo anni di appassionato impegno. Il terreno, sistemato con complesse opere di scavo, colmatura, livellamento, era di sola sabbia ed argilla senza marna, ma con una abbondante e opportuna concimazione fu reso adatto alle colture che furono scelte tenendo presente il potenziale sbocco sul mercato di Trieste, cui la via d'acqua del Tagliamento offriva facile accesso.
Asparagi, pesche, mele, uva spina, rose damaschine, da cui si traeva la teriaca largamente venduta in Levante dai mercanti veneziani, erano i prodotti più ricercati e redditizi che il B. spediva a Trieste e a Venezia, traendone notevoli guadagni, che si contrassero solo dopo l'invasione francese. Benché non trascurasse il frumento, il mais e gli ortaggi, egli andava giustamente fiero di alcune innovazioni che migliorarono notevolmente il reddito della sua tenuta. Potenziò la prediletta coltura del gelso, allora piuttosto trascurata nel basso Friuli, iniziando sin dal 1789 le piantagioni estese delle siepi sul margine delle fosse di circonvallazione in modo da chiudere l'intero podere; altri gelsi erano piantati sui bordi delle fosse di scolo. Questo metodo da lui introdotto, nonostante il parere contrario degli esperti locali, diede ottimi risultati e portò la produzione al considerevole valore di oltre 4.000 lire venete.
Il vino di Latisana godeva allora cattiva reputazione a causa degli errati sistemi di coltivazione delle viti, mal potate ed eccessivamente ombreggiate dai pioppi e dai salici, e degli antiquati metodi di vinificazione: ne risultava un prodotto scipito, poco alcoolico e di breve conservazione. Il B. cominciò col migliorare la qualità dei vitigni, scegliendone di più adatti al suolo e al clima del basso Friuli, selezionò con cura le uve più mature e sane, fece eseguire la follatura il giorno stesso o al massimo quello seguente la vendemmia, facendo poi fermentare il mosto in tini chiusi e infine svinando quando la fermentazione tumultuosa era già compiuta. Ottenne così un vino di migliore qualità, che, se non era certo in grado di competere col celebre Piccolit introdotto in quegli anni da Fabio Asquini, era però competitivo sul mercato e spuntava un prezzo doppio rispetto a quello comune.
Benché solesse dire che i libri di agraria in circolazione erano troppi e generavano solo confusione tra i contadini e che in definitiva il testo più utile sarebbe stato quello in grado di indicare brevemente tutti i volumi da non leggere, il B. fu autore di brevi scritti, alcuni dei quali non si curò di pubblicare e comparvero solo dopo la sua morte. Nella memoria Della coltura più propria dei terreni sabbiosi e marini (Padova 1837) indica la vite come unica pianta capace di sopravvivere nei terreni sabbiosi e in grado di dare con poca spesa un buon reddito.
La coltivazione dei maglioli in vivaio, lo scavo di profonde fosse da riempire con terra nera, l'uso del sistema a "spalliera" con l'aiuto del pioppo, una più accurata potatura e migliori sistemi di propagginazione sono i suggerimenti che egli dà all'agricoltore; interessante la sua idea di utilizzare per l'ingrasso della terra alghe e altri frammenti di vegetali marini abbandonati dalle acque sul litorale e dolcificati con un riposo di tre anni. Nell'opuscolo Sulla coltivazione dei litorali e precipuamente sulla coltura delle viti (Padova 1838) critica con vivacità l'abitudine di lasciar crescere graminacee attorno alle radici e di consentire un eccessivo sviluppo dei pioppi cui le viti sono maritate, si mostra contrario ad una potatura troppo parca, che puntando sulla quantità va a scapito della qualità del vino, e si dilunga per sei capitoli in una serie di consigli pratici che dovevano servire al cugino Angelo Gaetano Vianelli di Chioggia per l'impianto di una vigna (che poi fu denominata Bottariana) nel comune di Rosolina presso il Po di levante.
Nell'Accoppiamento delle viti ai gelsi senza che scambievolmente si nuocano (Alvisopoli 1810; Udine 1824) il B. propone che non si taglino i rami dei gelsi con le foglie, ma si utilizzi la sola foglia brucata e che si limiti la ramificazione eccessiva dei gelsi per non aduggiare le viti, portandoci così nell'ambito dei suoi interessi prediletti, legati ad un'esperienza pratica ricca di fervore e di concrete realizzazioni. Inediti rimasero invece alcuni dialoghi intitolati Istruzione per la migliore coltura dei gelsi,fondata sulla esperienza e sulla ragione e Istruzioni sulla formazione del vigneto nei terreni sterili,sulla piantagione e coltura degli asparagi,delle rose damaschine e delle pesche. Il suo esempio di impresario attivo e aperto alle innovazioni dovette essere di stimolo al rinnovamento dell'agricoltura del basso Friuli, benché sia difficile accertare quanto abbia effettivamente influito, come taluni biografi sostengono, nella propagazione del gelso e nel miglioramento della qualità dei vini prodotti nella regione.
Un'alluvione del Tagliamento, che costeggiava ad est la campagna, abbattè, in un anno imprecisato, ma comunque successivo al processo, i fabbricati, schiantò piante e alberi da frutta e ricoprì il terreno di arena e limo; il B., che si era a stento salvato dalle acque, colse l'occasione del rifiuto del proprietario di rifare le case e riparare i danni per acquistare il fondo. Lunghi anni di operosa attività egli trascorse nella sua fattoria e nessuna notizia accenna a una sua qualsiasi partecipazione alle vicende politiche dell'età napoleonica.
Fastidiose questioni familiari, seguite alla morte del padre e di uno zio ex gesuita, lo costrinsero a un lungo soggiorno a Chioggia sul finire del 1812; rientrato a San Michele di Latisana, morì il 13 marzo del 1814.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato,Processi criminali, busta 1171, fasc. 1231; busta 1175, fasc. 1241; E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri, VI, Venezia 1838, pp. 213 s.; F. Luzzatto, La pericolosa avventura di un agricoltore friulano, in Atti dell'Accademia di Udine, s. 6, XI (1948-51), pp. 343-356; M. Berengo, La società veneta allafine del Settecento, Firenze 1956, pp: 139, 254, 293; L. Morassi, Note per una storia dell'agricoltura friulana nell'età delle riforme, in Archivio veneto, s. 5, LXXXVIII (1969), pp. 47-64. Precisi cenni biografici a cura di L. G. Gaspari di Latisana nell'introduzione (pp. 13-30) alla citata opera Sulla coltivazione dei litorali e precipuamente sulla coltura delle viti.