BRANCATI, Giovanni
Nacque a Policastro in data non precisabile, ma sicuramente anteriore alla metà del sec. XV. Poco dopo il 1465 si trasferì a Napoli entrando in intimità con il potente Antonello Petrucci, segretario del re Ferdinando d'Aragona.
Con l'aiuto del Petrucci il B. entrò nelle grazie del re e si distinse a corte in virtù della sua cultura umanistica, che dové perfezionare a Napoli, anche se è da supporre che al tempo del suo trasferimento nella capitale aragonese egli fosse già in possesso di una notevole preparazione letteraria. Ne è testimonianza l'orazione che egli tenne al cospetto del re De laudibus litterarum nel 1468, appena qualche anno dopo il suo arrivo a Napoli.
Nel 1477 il B. è nominato in un documento "artium et medicinae doctor"; nel 1480 risulta direttore della biblioteca di corte: evidentemente la sua notevole esperienza nella letteratura latina gli aveva spianato la strada del successo presso la corte che vantava le più gloriose tradizioni in fatto di mecenatismo e di protezione delle lettere.
Nella Napoli del tardo Quattrocento le mansioni del B. andavano dalla redazione di atti ufficiali al reperimento e alla collazione di testi classici, dal controllo delle traduzioni in volgare di opere che dovevano arricchire la biblioteca di corte ai compiti più minuti riservati al suo ufficio di sovrintendente: sorvegliare l'opera di amanuensi e proteggere la mano d'opera locale rispetto alla concorrenza di artigiani stranieri, garantire il regolare approvvigionamento della carta necessaria, provvedere infine alla miniatura e alla rilegatura di codici.
Questa moltepliceattività fu particolarmente stimata da Ferdinando d'Aragona, che fu prodigo di regali per il dotto calabrese. Nel febbraio del 1480 la sua attività come direttore della biblioteca aragonese è ancora testimoniata da documenti: prende in consegna fogli manoscritti e riceve un libro di sant'Agostino; poi, improvvisamente, il silenzio più assoluto circonda la sua persona. Forse morì in un anno non lontano da questa data, o forse, come suppose il Croce, si trovò coinvolto in quella congiura di baroni contro l'Aragona che trovò uno dei massimi esponenti in Francesco Petrucci (definito una volta dal B. "Virum sane omnium iudicio et moribus et doctrina praestantissimum"), figlio di Antonello, che era stato il protettore del B. durante il primo periodo del suo insediamento a Napoli. Francesco Petrucci fu giustiziato dal re e lo strazio del suo corpo fu pubblico ammonimento della vendetta con la quale Ferdinando puniva i baroni ribelli. Non è da escludere che, come familiare del Petrucci, anche il B. abbia finito i suoi giorni incorrendo nella durissima repressione che l'Aragona operò nei confronti dei congiurati, ma allo stato attuale delle ricerche ogni illazione sulla fine dello scrittore calabrese è destinata a rimanere nel campo delle ipotesi.
Anche la sua attività di letterato sarebbe in gran parte sconosciuta, legata come fu per secoli a un solo epigramma del Pontano (De nuptiis Ioannis Brancati et Maritellae, Venetiis 1513, c. 195), se un intero codice di componimenti non documentasse con eccezionale ricchezza tutta la produzione del B. fiorita all'ombra della protezione aragonese. Si tratta di un codice appartenuto agli Aragonesi di Napoli e poi donato da Ferrante, figlio di Federico, a un convento di Valenza, donde pervenne alla biblioteca di questa città. Rinvenuto dal De Marinis nell'arco delle ricerche destinate a documentare La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, fuaffidato al Croce per una adeguata illustrazione dei testi del B., tra i quali quelli ritenuti più significativi furono dati alle stampe a cura di G. Pugliese Carratelli, del De Frede, e del Croce stesso.
Una prima relazione indirizzata dal B. a Federico d'Aragona riguarda l'organizzazione di una grande biblioteca principesca. Il B. vi espone i mezzi economicamente più convenienti per acquistare la carta, i metodi di remunerazione degli amanuensi, i criteri di scelta dei miniatori, stabilisce quali sono i maggiori mercati italiani per l'acquisto di manoscritti e a quali personaggi se ne debba affidare la trascrizione (di un amanuense, il parmigiano Giovan Marco, soprannominato il Cinico, che era particolarmente sollecito nella consegna del lavoro ed era per questa sua virtù conosciuto nell'ambiente dei dotti come "Velox", il B. ci dà un ritratto argutamente compiuto ed efficace); dedica infine alcuni distici alla biblioteca di Castelnuovo, che per le cure del sovrano è destinata a raccogliere per gli studiosi tutto ciò che di meglio è stato tramandato dall'antichità sia greca sia latina.
Un gruppo di orazioni cortigiane attiene strettamente a fatti che riguardano i personaggi più insigni della corte: un encomio di re Ferdinando, recitato nel gennaio del 1472, contiene un elenco canonico di virtù convenienti a un sovrano; un'orazione del '73fu pronunciata con gran dispendio di lodi in occasione del matrimonio della principessa Eleonora con Ercole d'Este; un'altra, del 1477, celebra le seconde nozze del re con Giovanna d'Aragona.
Maggiore interesse riservano altre orazioni di argomento erudito e filologico che impegnano il B. non soltanto come cortigiano, ma come letterato operante in una società di dotti. In una epistola indirizzata ad Antonello Petrucci egli prende in esame un'orazione di certo Pietro di Taranto "quam apud regem cum onmium commendatione habuerat". Nonostante i generali consensi sollecitati dall'autore (che ci è peraltro completamente ignoto), il B. mette in evidenza nel componimento i numerosi errori riscontrabili in ognuna delle otto parti retoriche di cui si compone l'oratoria classica. Tale critica mette in evidenza nel B. una conoscenza notevolissima non soltanto degli antichi esempi di oratoria, ma anche di quel testo che nella coscienza dei contemporanei appariva del tutto degno degli antichi modelli classici: le Elegantiae di Lorenzo Valla.
Ancora più significativa della cultura e dei gusti del B. è un'epistola indirizzata al re, che gli aveva affidato l'incarico di controllare e correggere la traduzione che Cristoforo Landino aveva compiuto della Historia naturalis di Plinio, dedicandola proprio al re d'Aragona. Il giudizio del calabrese sulla traduzione del Landino è del tutto negativo: per correggerla bisognerebbe rifarla completamente, ma egli non ne ha la voglia perché in fondo non credeche il volgare possa esprimere ciò che è stato tramandato dal latino.
In questo senso il B. interveniva nella più grande polemica linguistica del Quattrocento, orientando la corte di Napoli in una battaglia a fondo in difesa del latino. Ma se, d'altro canto, si pensa che la roccaforte del volgare era Firenze e che il particolare polemico della disputa verteva sul "philosophaster" Landino, si deve rilevare nel contrasto un vecchio dissidio municipalistico in cui gli umanisti di Napoli replicavano alle glorie degli scrittori residenti nella patria del volgare. Per suo conto il B., come ci testimonia un'ulteriore relazione all'Aragona, preferiva affidare al volgare la Mulomedicina attribuita a Publio Vegezio anziché la storia naturale di Plinio, considerata un superbo testo di scienza destinato alle scuole e alla pratica di un ristretto numero di studiosi, ma precluso alla conoscenza di un più vasto pubblico.
Un'altra serie di testi redatti dal B. consiste nelle epistole scritte per Ferdinando e indirizzate ai grandi protagonisti delle vicende politiche che interessarono gli Stati italiani nell'ultimo quarto di secolo. La prima è diretta al re di Francia Luigi XI: tratta del dissidio tra Firenze e Sisto IV al tempo della congiura dei Pazzi e del delicato sistema di alleanze che si sta creando intorno ai due contendenti. Rispetto al re di Francia, che sta imbastendo una politica di solidarietà nei confronti di Firenze, la lealtà di Ferdinando d'Aragona verso la Chiesa sembra illimitata prima che Lorenzo de' Medici riuscisse a sganciare la politica aragonese dalla causa di Sisto IV: deplorando la sanguinosa reazione della congiura operata dal governo fiorentino, egli si stupisce con Luigi XI che l'arcivescovo Salviati potesse essere stato giustiziato senza che la controversia fosse stata rimessa al giudicato del papa.
Segue nel codice un'epistola indirizzata il 15 ag. 1478 al duca di Milano Gian Galeazzo Sforza e alla reggente Bona di Savoia contro gli intrighi del ministro Cicco Simonetta: importante non meno dell'altra per gli avvenimenti politici in cui si inscrive, anche se la parte che vi ebbe il B. è da ravvisarsi soltanto nella forma, retoricamente impeccabile, con la quale il letterato rivestiva il giudizio del proprio sovrano.
Esiste tuttavia un'operetta che rivela per intero le doti letterarie del B., ed è la Deploratio de morte Paulae suae puellae habita in concilio amantium Tertio Id. Decembres:una storia, anche se narrata entro il consueto schema della oratio, in cui lo scrittore rievoca dolorosamente il proprio amore per una giovane donna napoletana, moglie di un capitano della flotta aragonese, perita tragicamente per il naufragio della nave mentre seguiva il marito in una spedizione contro i Turchi. L'anno di morte della donna è precisabile, secondo il Croce, nel 1471, data in cui realmente si allestì una flotta al comando di Galzerano di Requesens per dare la caccia alle navi turche nell'Egeo e nel Mar di Levante (nella Deploratio si dice che la nave dove era imbarcata Paola naufragò proprio nelle acque dell'Egeo), e dato che l'autore afferma di avere trascorso tre anni felici con la sua amante, la data dell'incontro fra i due sarebbe da collocarsi nel 1468, poco dopo l'arrivo del B. a Napoli.
La trama della Deploratio è tenue e molto lineare. Passeggiando un giorno il B. in compagnia dell'amico Santoro di Lipari, s'imbatté in un gruppo di giovani donne fra le quali spiccava, per grazia e bellezza, Paola. I due si scambiano reciprocamente garanzia d'amore e di fedeltà: egli, ancora giovanissimo e dedito fino a quel tempo agli studi, è alla sua prima avventura amorosa; ella, nonostante il vincolo che la lega a un altro uomo, porta al nuovo amore una dedizione totale, fatta di entusiasmo e di ingenuità. Passano tre anni felici allorché si presenta al marito di Paola la necessità di imbarcarsi per inseguire la flotta turca nel Mediterraneo. La donna, avvisata da infausti presagi, non vorrebbe seguirlo, ma l'amante la convince a imbarcarsi per far dileguare certi sospetti che nel frattempo avevano cominciato a rendere più difficile la loro unione e che sarebbero stati confermati nel caso che ella avesse approfittato dell'assenza del marito per rimanere a Napoli sola con l'amante. Si decide così la sua partenza e l'autore si ritira per qualche tempo nella nativa Policastro; si affretta poi a rientrare a Napoli per riceverla con rinnovato affetto allorché apprende la tragica fine di Paola: segno di un destino inelluttabile e crudele, solo la sua nave ha fatto naufragio e, tra gli sventurati naufraghi, lei soltanto è perita. Della morte di Paola egli si sente direttamente colpevole e vorrebbe punirsi togliendosi la vita, ma l'espiazione che alfine sceglie sarà anche più grave per lui: sarà quella di ricercare sempre l'amante nel vuoto della propria esistenza, di inseguire un ricordo, rievocando la muta effigie di lei fino allo spasimo. E la Deploratio si conclude in effetti con una serie di appassionate invocazioni rivolte alla donna scomparsa: immagine di voluttuosa dolcezza che rende più amaro il dolore della solitudine.
La resa stilistica di questa trama è felicissima. Il latino del B. sa rendere in toni garbatamente realistici il ritratto dell'amata, sfumare in una prospettiva elegiaca la dolorosa rimembranza o ravvivare col fuoco del sentimento il ritmo incessante della passione. Le componenti culturali di questa prosa, tra le più riuscite dell'ultimo Quattrocento latino, non si sovrappongono mai a un filo narrativo che è lucido ed estremamente coerente, delineano, i contorni di una rara e precisa tradizione espressiva in cui si colloca meritatamente lo scrittore umanista insieme con gli amati elegiaci e retori latini. Sotto questo aspetto, la Deploratio costituisce l'esito esteticamente necessario della molteplice attività del B., teorico della superiorità del latino sul volgare e scrittore moderno, cosciente umanisticamente che una tradizione illustre non può rinnovarsi che su una autentica esperienza di vita.
Fonti eBibl.: Il testo del Lamento per la morte di Paola fu ed. a cura di B. Croce. e T. De Marinis Napoli 1948 (cfr. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 1013 ss.); G. Pugliese Carratelli pubblicò Due epistole di Giovanni Brancati su la "Naturalis historia" di Plinio e la versione di Cristoforo Landino. Testi latini inediti del secolo XV, in Atti dell'Accademia Pontaniana, n.s., III (1949-50), pp. 179 ss., mentre a C. De Frede si deve l'edizione di Un memoriale di Ferrante I d'Aragona a Luigi XI (1478), in Riv. stor. ital., LX (1950), pp. 403 ss. L'epistola del re d'Aragona ai duchi di Milano, già edita nel Settecento da G. B. Mansi, fu ristampata da G. C. Zimolo in Le relazioni tra Milano e Napoli e la politica italiana in due lettere del 1478, in Arch. stor. lomb., s. 7, IV (1937), pp. 403 ss.
Sul B. cfr. T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d'Aragona, II, Milano 1947, pp. 35 ss.; B. Croce, Uno sconosciuto umanista quattrocentesco: G. B. e il racconto della sua tragedia d'amore, in Quaderni della critica, VIII (1948), n. 10, pp. 14-34, e poi in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, III, Bari 1952, pp. 1-29; Id., G. B. e il suo compianto per la morte di Paola (è la prefazione all'edizione del testo), in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari 1953, pp. 80-83.