Brevio, Giovanni
Nato a Venezia intorno al 1480 e morto dopo il 1545, della sua vita si conosce pochissimo. Sacerdote, assunse incarichi ecclesiastici prima a Ceneda (oggi nel comune di Vittorio Veneto), poi ad Arquà, dove nel 1524 era rettore della chiesa arcipretale. Negli anni successivi si divise probabilmente fra Padova e Venezia. Sembra che intorno al 1542 si trasferisse presso la curia papale, e nel 1545 era probabilmente ancora a Roma. Fu in relazione con Pietro Bembo e con altri poeti e letterati del suo tempo, tra i quali Francesco Berni, Giovanni Della Casa e Pietro Aretino. La considerazione di cui godette è dimostrata dalla sua presenza come interlocutore nel dialogo Della Poetica di Bernardino Daniello e nel De optimo philosophorum genere di Alberto Pasquali; è anche ricordato nel Dialogo della dignità delle donne di Sperone Speroni.
La sua opera è contenuta nel volume Rime et prose volgari di mons. Giovanni Brevio, stampato a Roma presso Antonio Blado nel 1545, con dedica al cardinale Alessandro Farnese. Si tratta della raccolta di scritti eterogenei: un canzonieretto amoroso di ispirazione petrarchesca, sei novelle, l’ultima delle quali è una variante della Favola o novella di Belfagor di M. (ma nell’esemplare della Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma, che rappresenta una successiva emissione, sono sette: il testo aggiunto è quello della finora anonima novella di Dioneo e Lisetta, la cui scoperta si deve a Flaminia Belfiore, che l’ha trattata in Giovanni Brevio e la novella di Dioneo e Lisetta, tesi di laurea discussa presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma, anno accademico 2011-12), il volgarizzamento dell’orazione A Nicocle di Isocrate, un trattatello filosofico Della vita tranquilla e un secondo corpus di quattro novelle brevi precedute da una prefazione, raccolto sotto il titolo De la miseria humana. È proprio la presenza fra le novelle di B. del racconto di Belfagor, letteralmente coincidente per circa il 40% con quello di M., ad associare nelle reazioni che seguirono alla pubblicazione di Rime et prose il nome del monsignore veneziano a quello dello scrittore fiorentino.
Nel 1549, infatti, fu stampato a Firenze presso i Giunti – con il benestare di Guido Machiavelli, figlio di Niccolò – L’asino d’oro di Nicolò Machiavelli, con alcuni altri capitoli et novelle del medesimo, un’edizioncina di scritti minori machiavelliani quasi tutti inediti, comprendente appunto l’Asino, i capitoli “Dell’Occasione”, “Di Fortuna”, “Dell’Ingratitudine”, “Dell’Ambitione”, i due Decennali e in chiusura la Favola. Dalla dedica di Bernardo Giunti a Marino de’ Ciceri, che apre l’edizione, si intuisce che scopo del volumetto fosse soprattutto il ristabilimento della paternità di M. sulla «novella del demonio», come Bernardo scriveva, paternità presuntuosamente usurpata da qualcuno a cui piaceva «farsi honor de gli altrui sudori»: B. non è nominato, ma se ne parla come se fosse o almeno si credesse ancora in vita. Che la novella di Belfagor pubblicata da B. non fosse farina del suo sacco correva del resto voce a Firenze ancora prima che l’edizione giuntina restituisse ufficialmente il testo a Machiavelli. In una lettera di Anton Francesco Doni a Francesco Revesla del 10 marzo 1547, poi a stampa in Lettere del Doni. Libro secondo (1547, p. 61), lo scrittore metteva a parte il suo corrispondente delle opere che era in procinto di stampare. In un elenco che mescola libri veri e libri immaginari figura anche «Novelle e altre prose di Messer Giovanni Brevio copiate dall’originale di mano propria di Niccolò Machiavelli». Era un modo inconsueto, nello stile di Doni, di portare a conoscenza del mondo dei letterati quello che a Firenze tutti credevano, cioè che B. aveva plagiato Machiavelli. Doni possedeva una copia manoscritta della Favola, che avrebbe dato alle stampe a Venezia nel 1551 all’interno della Seconda Libraria (cc. 89r-97v). Così, quello che appariva il tentativo maldestro di uno scrittore di far passare come proprio un lavoro altrui sembrava miseramente fallito.
Come già detto, le versioni di M. e di B. coincidono alla lettera in misura non trascurabile (la relazione fra le due novelle è stata studiata in Le novelle di Giovanni Brevio, a cura di S. Trovò, 2003 e poi in Stoppelli 2007). Quella di B. si apre con una dedica ai giovani che M. non ha; quindi si legge del concilio infernale in cui si decide di inviare il diavolo sulla Terra a fare l’esperienza del matrimonio. M. arricchisce questa scena mettendo un’orazione in bocca a Plutone. Nelle due redazioni i luoghi e i nomi dei personaggi della storia sono tutti coincidenti. Una sola differenza onomastica: la donna che Belfagor sposa si chiama Ermellina in B., Onesta in Machiavelli. Il nome di B. è realistico; sotto quello di M. traspare invece la figura proverbiale di monna Onesta da Campi, ricorrente nella letteratura quattrocentesca fiorentina come personificazione della finta virtù femminile.
Ci sono naturalmente alcune lievi differenze nel-l’intreccio, ma quello che spicca dal raffronto minuzioso tra i due testi è che tutti i passaggi della novella di M. che si possono riconoscere stilisticamente come suoi tipici, molti dei quali in maniera così peculiare che non potrebbero essere attribuiti a nessun altro se non a lui, non sono in Brevio. E non sono neanche in B. quei luoghi del testo che, seppure non definibili di assoluta tipicità machiavelliana, finiscono per diventarlo in ragione del loro infittirsi sulla pagina. Non si tratta solo di ricorrenze lessicali, ma di stilemi, moduli sintattici, giri di frase, associazioni concettuali, invenzioni particolarissime. I passaggi del testo di B. che M. non ha consistono invece per lo più di tessere derivate dal Decameron. Di conseguenza, se B. si fosse appropriato del testo di M. dovremmo riconoscergli una conoscenza così profonda dello stile dello scrittore fiorentino da consentirgli di purgare il racconto di tutti i tratti di lingua e di stile a lui riconducibili, cosa di fatto impossibile. E se B. non ha copiato M., allora o M. ha riscritto B. oppure sia M. sia B. hanno in parte copiato e in parte riscritto ciascuno a suo modo una novella in circolazione che ambientava a Firenze la favola del matrimonio e delle altre avventure del diavolo sulla Terra, già raccontata più volte in Francia nel corso del Medioevo. Dovendosi escludere la prima ipotesi per un particolare del racconto che M. condivide con una redazione medievale della favola che è assente in B., ma soprattutto per l’impossibilità di attribuire allo scrittore veneziano l’originalità di una versione della storia così intrinsecamente fiorentina (basti ricordare che B. banalizza in ‘Giovanni Alberto’ il nome di un santo popolarissimo a Firenze come Giovanni Gualberto, fondatore dei vallombrosani), non resta altra possibilità che l’esistenza di una fonte comune a entrambi, ricostruibile a tratti mettendo insieme i luoghi coincidenti delle due redazioni (cfr. Stoppelli 2007). La cosa non deve meravigliare per M., trattandosi di uno scherzo destinato a rimanere nelle sue carte. Circa B., la propensione a manipolare testi altrui e a spacciarli per propri sembra essere il tratto più riconoscibile del suo profilo di prosatore.
Bibliografia: Le novelle di Giovanni Brevio, a cura di S. Trovò, Padova 2003.
Per gli studi critici si vedano: G. Ballistreri, Brevio Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia italiana, 14° vol., Roma 1972, ad vocem; P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor, Roma 2007.