BUZZACARINI, Giovanni
Nacque a Padova nella seconda metà del sec. XV. Dottore in legge, apparteneva a una delle famiglie principali della città che già al tempo della signoria dei Carraresi era entrata a far parte del ceto dirigente. Dotata di estesi possedimenti fondiari, di ricca clientela e di frequente pratica degli uffici, la potente famiglia del B. mal sopportava, come le altre padovane dello stesso rango, la gelosa politica esclusivistica della oligarchia veneziana, abituata a confinare il patriziato delle città suddite nell'ambito puramente locale, sempre subordinato alla volontà della Dominante che si identificava, essa sola, con lo Stato. In questa umiliante condizione di dipendenza il ceto dirigente cittadino vedeva una costante minaccia agli interessi padovani sacrificati a quelli veneziani, trovandovi in conseguenza una ragione di quotidiani conflitti con la Signoria. In uno di questi ebbe parte diretta il B., che già nel dicembre del 1501 era stato con una delegazione padovana a Venezia per felicitare il nuovo doge recentemente eletto.
Nel marzo del 1503 il Senato veneziano aveva deciso di riaprire la cosiddetta rotta Sabadina dell'Adige, con il proposito di evitare la temuta inondazione del Polesine dove esistevano forti interessi economici veneziani, ma senza badare ai possibili effetti a danno del contado padovano. L'8 marzo il Consiglio comunale di Padova, che temeva dal provvedimento l'inondazione di Este, Monselice e Conselve, fonte prima della ricchezza della città, elesse una deputazione di dieci oratori, fra i quali il B., con l'incarico di presentare a Venezia una formale richiesta di abrogazione. Il 9 marzo la delegazione fu ricevuta in Senato dove il B. espose le ragioni padovane, "dicendo si anegeria tutto el padoan etc., et si aprisse etiam sul Polesene, et alia multa". Gli fu contrapposto un rappresentante della comunità di Rovigo che sostenne le ragioni opposte. Il 12 marzo la delegazione padovana fu ricevuta di nuovo in Senato, ma solo per sentirsi licenziare con l'invito a lasciare due soli rappresentanti a Venezia per ricevere la risposta delle autorità. La questione fu rimessa al Consiglio dei pregadi, dove intervenne il doge in persona contro le preoccupazioni padovane e in favore della soluzione più vantaggiosa al Polesine. Fu deciso di riaprire la rotta, ma con l'avvertenza d'interpellare i tecnici per determinare larghezza e profondità di essa in modo da evitare di danneggiare sia il Polesine che il Padovano. Il Consiglio comunale di Padova non si ritenne soddisfatto e il 16 dello stesso mese decise di rimandare a Venezia una nuova deputazione, della quale fece parte ancora una volta il B., per controllare le dimensioni adottate ed evitare che riuscissero dannose al contado padovano. Il 31 marzo la delegazione non era ancora partita, in attesa del parere dei tecnici che solo allora fu noto e risultò favorevole ai Padovani. Le autorità veneziane non vollero però, tenerne conto, cosicché il Consiglio comunale di Padova dovette mandare ancora varie delegazioni a Venezia e sempre invano. Di un'altra di esse, eletta il 21 febbr. 1504, fece parte di nuovo il Buzzacarini. Nel marzo seguente era ancora a Venezia, insieme con un altro notabile padovano, Alberto Trapolin, eletto insieme con lui, ma non gli riuscì di ottenere alcun serio impegno in favore di Padova. Con l'occasione di questo soggiorno si occupò, sempre per conto del Consiglio comunale di Padova, anche di un'altra questione di minore importanza, relativa alle "daye" in contestazione con il signore di Cittadella.
Dopo questa data del B. non si ha più notizia. Sicuramente morì di lì a poco, certamente prima del 1509, anno della rivolta padovana occasionata dalla sconfitta di Agnadello, che sembrò travolgere il dominio veneziano sulla terraferma. Il suo nome non compare infatti fra i tanti della sua famiglia che si compromisero con la rivolta.
Fra di essi occorre ricordare, oltre ad Aleduse e Giovan Francesco, che ne fu uno dei principali cronisti, Antonio "soldato e bon", che subì la confisca dei beni, ma più tardi ritornò in patria dall'esilio; Francesco anch'egli soldato "e valente capio"; un altro Francesco arciprete che visse in esilio con un sussidio imperiale di 8 fiorini al mese; Ludovico, Livio e Giulio soldati che morirono in esilio; Alessandro e Agnolo che ebbero invece l'opportunità di ritornare a Padova. Di Pataro, dottore come il B., si sa che subì la confisca dei beni e visse in esilio con un sussidio imperiale di 8 e poi 10 fiorini al mese che gli fu versato dal novembre del 1517 al gennaio del 1519. Nel 1515 una parte dei suoi beni fu restituita alla moglie Caterina in ragione della sua dote, riconosciuta del valore di 1.500 ducati. L'anno precedente erano stati venduti "campi 100 posti nella villa di Vigian, ... cum la decima, cum cortivo da lavorador, et casa de muro per el patron..." a lui confiscati. Era già morto nel dicembre del 1529, quando ai suoi figli, ancora in esilio, fu concesso un sussidio imperiale di 72 ducati.
Fonti e Bibl.: M.Sanuto, Diarii, IV, Venezia 1880, coll. 188, 807-810, 818; V, ibid. 1881, col. 1001;C. G., I fuorusciti venez. dalla battaglia di Agnadello al congresso di Bologna (1509-1529), in Arch. trentino, XIV (1898), pp. 74, 79; A. Bonardi, I padovani ribelli alla Repubblica di Venezia (a. 1509-1530), Venezia 1902, pp. 7-9, 106, 165, 193, 268, 279.