CADONICI, Giovanni
Nato a Venezia nel 1705 da modesta famiglia, compì gli studi nel seminario patriarcale di Venezia, "del quale era uno dei più distinti allievi" (Memorie dell'I. R. Accademia degli Agiati…).Ordinato sacerdote e obbligato dalle precarie condizioni economiche in cui versava a procacciarsi un impiego, accettò nel 1736 un posto di istitutore offertogli dalla marchesa Soresina Vidoni. Si trasferì quindi a Cremona, ove fu educatore del di lei figlio Cesare Francesco e più tardi (ché il C. rimarrà in casa Vidoni fino alla morte) dei figli di questo: Giuseppe e Pietro. Poté in tal modo dedicarsi ai prediletti studi di storia ecclesiastica, benché ostacolato dalla scarsa disponibilità di libri, soltanto in parte alleviata dai pochi volumi che i locali padri barnabiti mettevano con liberalità a sua disposizione: nell'impossibilità, a causa delle sue croniche ristrettezze economiche, di acquistare le edizioni che gli erano necessarie, il C. cercò di uscire dal suo isolamento provinciale stringendo un intenso carteggio epistolare con eruditi e teologi di grande nome, come L. A. Muratori, G. Lami, C. Migliavacca, D. Concina, A. M. Feltri, Giuseppe Valeriano Vannetti, G. M. Puiati (e più tardi con Isidoro Bianchi), che ebbero presto occasione di apprezzare la sua dottrina quando fu pubblicato il primo, maturo frutto dei suoi studi storico-ecclesiastici, le Vindiciae augustinianae ab imputatione regni millenarii…(Cremonae 1747), dedicate a Benedetto XIV.
Per liberare s. Agostino dall'accusa di millenarismo, per aver affermato nel sermone 259 la dilazione della visione beatifica di Dio fino al giorno del giudizio universale per tutte le anime dei giusti dell'Antico Testamento, il C. sostiene drasticamente la non autenticità di tale sermone contro l'opinione autorevole dei maurini e del Tournely che l'avevano attribuito senza esitazioni al vescovo di Ippona. Il C. rintraccia, invece, la genuinità del pensiero agostiniano nel Trattato 49 in Jo. n. 10, da cui si ricava che il santo o sostenesse l'immediata beatitudine dei giusti dell'Antico Testamento o la negasse a tutti (anche ai giusti del Nuovo Testamento) fino alla fine dei tempi e la resurrezione della carne: il C. è naturalmente per la prima ipotesi, che sarebbe confortata sia dalla generale dottrina agostiniana intorno la salvazione, sia dall'opinione di altri Padri (da s. Ilario Pittaviense a s. Giovanni Grisostomo) che avevano sostenuto la tesi dell'immediata beatitudine dei patriarchi. Tale concezione, secondo il C., aveva il vantaggio di provare - contro la posizione dei protestanti - l'esistenza del purgatorio: infatti, nella sua discesa all'inferno, Cristo avrebbe liberato non le anime dei giusti (già in paradiso), ma quelle dei penitenti. A ben vedere, quindi, l'opera del C. non nasceva - come altre opere del tempo - dall'ansia di restaurare con una metodologia storico-erudita più scaltrita ma oggettivamente impersonale la genuinità di un testo o di una concezione che avessero subito più o meno sostanziali deformazioni; scaturita aprioristicamente da un intento apologetico, la sua tesi non demoliva certo le conclusioni dei maurini e del Tournely, sorrette da ben più solidi argomenti. Pertanto le Vindiciae più che interessare la storia della storiografia ecclesiastica trovano una loro collocazione rilevante nella storia del pensiero religioso: nel C., infatti, l'obiettivo è quello di fare di s. Agostino il maestro e l'interprete, senza alcuna macchina, della "vera" e "sana" dottrina della Chiesa, e la guida per un ritorno ad essa contro le deviazioni ispirate alle teorie teologico-morali sostenute dai gesuiti.
Principalmente per questi motivi le Vindiciae furono accolte con entusiastico favore negli ambienti antigesuitici: dal Muratori che, dopo averle lette "sine mora, et multa quidem cum voluptate", ne accettava senza riserve le conclusioni e lo invitava a proseguire nella sua attività di studioso (lettera del 5 giugno 1748), al Lami che le lodava nelle sue Novelle letterarie, alConcina, ad A. M. Querini, a P. F. Foggini. Benedetto XIV nel 1750 gli conferiva un canonicato nella cattedrale di Cremona e nel 1752 il C., ormai celebre, era accolto con il nome di Avinio tra gli accademici Agiati di Rovereto. Frattanto, però, veniva duramente attaccato dai gesuiti, uno dei quali, Federico Pallavicini, confutò le Vindiciae, mentre nuovi motivi di contrasto venivano ad aggiungersi.
Nell'Informazionesopra il famoso ed agitato fenomeno della giovane cremonese vomitante sassi ed altri corpi strani…(Brescia 1749), indirizzata al medico G. Calvi, il C. riteneva il supposto miracolo, celebrato da un gesuita direttore spirituale della giovanetta, una mera impostura e un inganno coscientemente voluto per smania esibizionistica, dichiarandosi contrario anche alla tesi dello scienziato Paolo Valcarenghi, che l'attribuiva a origini isteriche causate da "spiriti animali" (secondo il C., tale teoria dell'esistenza di uno "spirito afrodisio" che "insanire etiam sapientes cogat" sarebbe stata contraria al libero arbitrio). Ne nacque, quindi, una lunga polemica: attaccarono il C. da un lato gli studiosi difensori del Valcarenghi, Francesco Franchetti e Iacopo Maria Zanotti, dall'altra i gesuiti, di cui si fece portavoce lo Zaccaria, che ironicamente definiva il C. uno "zelante per la stretta morale", ma troppo facile ad accusare gli innocenti; in favore del C. si schierarono Carlo Gandini (Riflessioni sopra li van pareri pubblicati intorno al caso della giovine cremonese, e suoi meravigliosi avvenimenti…, Milano 1750) e il Lami.
Impedito a pubblicare una sua apologia contro il Valcarenghi, il C. decise allora di dar alla luce uno scritto composto già nell'estate 1749 per difendersi dalle accuse dei gesuiti: Dialoghi tre in difesa delle Vindicie Agostiniane…, Rovereto 1753. Nella prefazione, in cui v'era un lucido collegamento tra la difesa della dottrina agoftiniana e l'opposizione alla religiosità gesuitica, egli chiariva - in polemica con lo Zaccaria - che la propria "morale" lo portava a ubbidire ai decreti del papa (esplicito era il riferimento alla resistenza fatta da alcuni membri della Compagnia ad accettare la condanna papale della "teologia mamillare" del confratello Benzi), a parlare del precetto del digiuno secondo i "veri sentimenti", a sostenere la necessità dell'amor di Dio nel sacramento della penitenza contro la tesi che fosse sufficiente l'attrizione servile, a schierarsi a favore del probabiliorismo contro il probabilismo. Nell'affermare ancora la teoria della beatitudine immediata dei giusti dell'Antico Testamento, il C. precisava che essa sarebbe stata perfetta per tutti gli eletti soltanto dopo la resurrezione dei corpi, allorché la visione di Dio sarà anche "esteriore".
Si accese su tale argomento un'armosa e astiosa polemica. Contro il C. scrisse lo scolopio Liberato Fassoni (De piorum in sinu Abrahae beatitudine ante Christi mortem…, Romae 1760), a favore A. M. Feltri (Sancti Hilarii Pictavorum episcopi de piorum statu in sinu Abrahae ante Christ i mortem sententia…, Neapoli 1762); il C. stesso pubblicò, come anticipazione ad una progettata opera contro l'esistenza del limbo, Divi Aurelii Augustini… quae videtur sententia de beatitate sanctorum patriarcharum, prophetarum ceterorumque iustorum antiqui Testamenti ante Christi Domini descensum in inferos…(Venetiis 1764) e ad una confutazione del Mamachi replicò con la Lettera prima… al padre maestro T. M. Mamacchi intorno alla sua opera De animabus iustorum in sinu Abrahae ante Christi mortem expertibus beatae visionis Dei…(Venezia 1767). Ancora su tale argomento verteva la Lettera scritta al P. D. Isidoro Bianchi (in Novelle letterarie di Firenze, XXX [1769], coll. 119 ss., 136 ss., 146 ss.), che rispondeva alle critiche mossegli da G. L. Mingarelli.
Nel frattempo il C. aveva anche pubblicato una Confutazione teologico-fisica del sistema di Guglielmo, Derham inglese, che vuole tutti i pianeti da creature ragionevoli, come la terra, abitati…(Brescia 1760): era un voluminoso trattato dedicato a Carlo Firmian, che non mancò di suscitare l'affettuosa ironia del Lami, il quale - nell'affermare: "stimerò sempre inutile il disputare di quello, che né colla ragione naturale… né colla rivelazione… non si può mai giungere a Veramente sapere" (Novelle…, XXI[1760], col. 551) - confessava che l'amico parlava con tale sicurezza da indurre a credere "che prima di metter mano alla sua erudita opera avesse visitati gl'immensi innumerabili globi celesti". E in effetti dal C. la teologia era considerata ancora strumento atto a guidare e giudicare lo stesso progresso delle scienze fisiche, come mostrò sia nel suo parere favorevole alla vaccinazione antivaiolosa (cfr. Novelle letterarie, XXV [1764], col. 703), sia nella Dissertazione epistolare… se l'anima delle bestie possa dirsi spirituale, e per legge ordinaria non capace di distruggimento; se anzi anco il corpo di tutte le bestie paia dover ripararsi dalla onnipotenza di Dio nel fine de' tempi, secondo le Divine Scritture, e le interpretazioni, e le dottrine di sant'Agostino (Venezia 1768), che confutava ogni interpretazione materialistica della vita.
Intransigente difensore della dottrina agostiniana, il C. si andò sempre più legando agli ambienti filogiansenisti della Lombardia austriaca di cui condivideva anche il regalismo: sostenitore di una riforma in senso episcopalista, egli sperava di vedere così "una volta finito il lungo e non curato scandalo della Chiesa di Dio" (25 genn. 1761), soprattutto grazie all'aiuto dei sovrani; accolse perciò con favore le opere del Febronio e del Pereira e nel 1769 si mostrò decisamente propenso ad approvare eventuali provvedimenti di alienazione, o almeno di tassazione, dei beni ecclesiastici (v. le lettere a G. Lami, citate da M. Rosa, pp. 320 s.). Nello stesso 1769, il C. scrisse la Spiegazione del testo di s. Agostino "Ecclesiam Christi servituram fuisse sub regibus huius saeculi" e delle giornaliere pubbliche preci da ristabilirsi nel Rito Romano per la salute e prosperità dei propri Sovrani (pubblicata a Pavia nel 1784 da Giuseppe Zola), il documento più noto del suo regalismo.
Scagliandosi contro la monarchia papale, poiché la Chiesa - egli afferma - non è schiava del papa, il C. è contrario ad ogni munità ecclesiastica; tutto dev'essere subordinato ai sovrani "uomini secondi dopo Dio, e minori del solo vero Dio" (p. 62): essi possono regolare il numero degli ecclesiastici, riformarne la disciplina esteriore, sopprimere o trasferire gli Ordini religiosi, alienare i beni della Chiesa, regolare la legislazione matrimoniale, punire gli ecclesiastici che delinquono: "possono colla pienezza della loro podestà regolare - tutto ciò, che riguarda il comodo, la sicurezza, la maggiore tranquillità del corpo de' suoi sudditi" (p. 65). Non mancano anche qui le lodi a Febronio (p. 23) e le accuse ai gesuiti per la loro teoria sul tirannicidio (pp. 50 s.).
Negli ultimi anni, specialmente dopo la morte dell'amico Lami (1770), il C. cessò la sua attività pubblicistica; continuò tuttavia i suoi studi, divulgando ancora nei circoli giansenizzanti lombardi (fu molto legato a Martino Natali e all'allievo di questo Lorenzo Aliprandi, divenuto lui pure canonico a Cremona) le sue tesi antiromane.
Il C. morì a Cremona il 27 febbr. 1786 (priva di fondamento è perciò la notizia, offerta da B. Matteucci, Scipione de' Ricci…, Brescia 1941, p. 124, di una sua partecipazione al sinodo di Pistoia del settembre 1786).
Fonti e Bibl.: Milano, Bibl. Ambrosiana, T. 125. Sup., ff. 105-117; T. 126. Sup., ff. 82-87; T. 127. Sup., ff. 69-85; T. 128. Sup., ff. 131-154; T. 134. Sup., f. 120; (lett. del C. a I. Bianchi); Modena, Arch. Soli Muratori (lett. del C. al Muratori); Firenze, Bibl. Riccardiana Cod. Riccard.3714 (lett. del C. al Lami); Roma, Bibl. Corsiniana, Cod. Cors.2017, cc. 94-109 (lettere del C. a G. G. Bottari); Bibl. Apost. Vat., Vat. lat.9263, ff. 40-43v (notizia biografica del C. stesa da G. M. Mazzuchelli); Novelle letterarie di Firenze, VIII (1747), col. 750; IX (1748), coll. 793 ss.; X (1749), coll. 542 ss., 554-59, 568-75, 644, 704; XI (1750), coll. 537 ss., 637 s.; XII (1751), col. 25; XIII (1752), coll. 201 ss., 215-21; XXI (1760), coll. 550 s.; XXII (1761), coll. 584-90, 612, 633, 653; XXIV (1763), coll. 229, 239, 578-82, 602-05, 700; XXV (1764), coll. 168-74, 220-23, 225-28, 563-67, 582-88, 644-51, 667-72, 679-86, 695-701, 703, 711-16; XXVI (1765), coll. 85, 221-24; XXVII (1766), coll. 574 s.; XXIX (1768), coll. 24, 157 ss., 284 ss.; XXX (1769), coll. 14, 20-26, 64, 119-24, 136-41, 146-53; F. A. Zaccaria, Storia letter. d'Italia, II, Venezia 1751, pp. 109 s., 499 ss.; Annali ecclesiastici, IV(1784), pp. 69-73; VI (1786), pp. 77 s. (necrologio); Epistolario di L. A. Muratori, a cura di M. Campori, XI (1745-48), Modena 1907, pp. 5096 s., 5175 s.; Appendice III, ibid. 1915, p. 7024; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, I, Firenze 1941, pp. XVIII, 196; G. A. Moschini, Della letter. venez. del sec. XVIII fino a' nostri giorni, Venezia 1806, III, pp. 144 s.; IV, p. 133; V. Lancetti, Biografia cremonese…, III, Milano 1822, pp. 23 s.; G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia…, Venezia 1855, pp. 225 s.; Appendice, Venezia 1857, p. 20; Memorie dell'I. R. Accademia… degli Agiati in Rovereto…, Rovereto 1901, p. 351; A. C. Jemolo, Ilgiansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari 1928, pp. 109, 113, 115; M. Rosa, Atteggiamenti culturali e religiosi di G. Lami nelle Novelle letterarie, in Ann. della Scuola normale superiore di Pisa, XXV(1956), pp. 291 n. 4, 293 n. 1, 298 n. 2, 320 s.; A. Vecchi, Correnti religiose del Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, pp. 348, 449, 484, 519, 557, 573; H. M. Goldbrunner, F. Töpslund G. L. Mingarelli…, in Quellen und Forsch. aus ital. Archiven und Bibliotheken, XLIV (1964), pp. 384, 431 s.; C. v. Wurzbach, Biographisches Lexikon…, II, p. 227; Dict. de théologie catholique, II, 2, col. 1300; Enciclopedia cattolica, III, col. 271.