CACACE, Giovanni Camillo
Nacque a Napoli nel 1578, benché varie fonti indichino il 1571 seguendo il Toppi, che peraltro conobbe personalmente il C. e si giovò talvolta della sua protezione per difendere il proprio ufficio di archivista della Sommaria. Suo padre, Giovanni Bernardino, da lui ricordato come "patrizio stabiese" e come "avvocato di buone lettere e di buona fama", esercitò a Napoli l'avvocatura e forse ricoprì anche, nel 1579 o nel 1580, l'ufficio di eletto dei nobili della città. Morì comunque precocemente, nel 1582, sicché il C. fu guidato agli studi soprattutto dallo zio materno Giuseppe De Caro, avvocato anch'egli assai noto, che nel 1627 lo lasciò erede di una cospicua sostanza. Avviandosi in seguito alla giurisprudenza, egli seguiva dunque gli studi propri del ceto, che via via lo condussero sino alle "supreme dignità del magistrato", e che lo resero agli occhi del D'Andrea uno dei più chiari esempi di "togati" che avessero raggiunto il reggentato, pur non appartenendo al numero dei cavalieri di piazza.
Compiuta la sua formazione scolastica e trascorso un breve periodo come insegnante di discipline retoriche e letterarie presso il collegio gesuitico della Conocchia, il C. studiò diritto nell'università di Napoli, dove ottenne la laurea nel novembre 1599. Fra i suoi maestri ebbe giuristi di buona cultura, di cui il più noto fu Alessandro Turamino, ch'ebbe il merito di riprendere e di diffondere alcuni temi ispirati ai grandi modelli della giurisprudenza umanistica.
In virtù anche di questo clima di studi, gli interessi del C. oltrepassarono i limiti della formazione di un pratico, per una meditata apertura verso i problemi teologici e letterari, che lo avvicinava al tipo di cultura, intessuta di classica erudizione, frequente fra i grandi magistrati del maturo Seicento. Il Cafaro infatti lo elogiava come "omnium artium, et scientiarum culmine undique refertus", e prima di lui Antonio Basso, il poeta repubblicano decapitato nel 1647, ne aveva apprezzato "l'eccellenza delle Muse".
Del resto, di là dai giudizi apologetici di avvocati ed amici, appare significativa la presenza del C., nel 1611, fra i primi soci della celebre Accademia degli Oziosi. All'esperienza di quelle adunanze egli, che era "per natura timido" e che nulla doveva "alla natura, ma tutto all'arte", faceva risalire anche il decisivo impulso a esercitare la professione di avvocato, nella quale dimostrò sempre una "eloquenza più regolata che abbondante" (D'Andrea).
Di carattere schivo e non privo di un'austerità misogina e persino bigotta, peraltro così espressiva di una particolare religiosità controriformistica, il C. fu ricordato dai contemporanei per la sua cupa riservatezza, che apparve ora come esempio di "mos antiquus", intransigente con gli altri, ma più con se stesso (Toppi); ora come tratto di "uomo zotico e di genio tetro e niente accomodato per la società civile" (D'Andrea); ora come segno "di modi rustici ed insolenti"(Capecelatro); ora infine come prova di esemplare pietà religiosa (Celano).
Dedicatosi all'avvocatura, il C. raggiunse presto un certo prestigio, se nel 1627 poté intervenire con una sua allegazione a rafforzare le tesi di un avvocato già noto, come Bartolomeo De Angelis, difensore in un importante processo per brigantaggio. Nella sua professione egli mostrava tale dottrina - così giudicava il Capaccio, al limite dell'iperbole - "che potrebbe rifare il corpo del jus civile se si perdesse".
Nel 1631 il C. ottenne la nomina ad avvocato fiscale della Real Camera della Sommaria. Si riferisce a questo suo ufficio la contesa in materia di precedenze con Giulio Mastrillo, fiscale della Gran Corte della Vicaria, per cui stese una allegazione per cui "pro seipso, eiusque muneris praestantia". Egli iniziava così la sua carriera nelle magistrature, ed insieme il periodo di maggior fortuna nell'"avvocazione", tale che egli soleva vantare come "non vi era stato signore nel Regno che non fosse venuto a prendersi le consulte" nella sua casa.
Ottenuta nel 1634 la nomina di presidente della Sommaria, il C. fu nel 1638 al centro di un episodio che fece scalpore nel Regno, per il rilievo dei protagonisti e per gli importanti risvolti politici della vicenda, che investivano insieme i rapporti fra Napoli e Spagna e quelli del governo vicereale con la nobiltà.
Il C. era stato gravemente oltraggiato dal marchese di Fuscaldo, Francesco Spinelli, ed il fatto cadeva in un momento di tensione tra i feudatari e la corte, per la rinnovata aggressività del baronaggio, che cercava di estendere le proprie prerogative, e per la contemporanea richiesta, da parte del sovrano, di un donativo straordinario. Seguirono le proteste del magistrato e una sua denuncia, e la questione giunse fino a Madrid. Tuttavia, dopo un breve arresto, lo Spinelli fu liberato senza subire ulteriori condanne, poiché il viceré, nel corso di una riunione del Collaterale, rifiutò più severi provvedimenti. Mentre il ministro spagnolo Alonso de La Carrera mostrava vive preoccupazioni dinanzi all'"affrenta tan grande" subita dal C. e osservava che "los Ministros son los que conservan la Corona de Su Majestad, y si no se le tiene respecto no pueden mantener la corona, y por esto la offensa del Ministro es offensa de su Majestad, y crimen lesae Maiestatis", il duca di Medina ispirò invece il suo atteggiamento alla più grande moderazione. Egli ricordava come, "siendo esta familia Espinela tan unida, y mas que no son los Carrafas y Caracholos, podria haver daño notable al Parlamento"; concludeva quindi, con espressione significativa, che "este negocio, tiene dos partes: una de justicia, otra de Govierno. Por lo que toca a la justicia no le falterá a Juan Camilo; por lo que toca al Govierno [... ] no lo quede enemistad con una familia tan poderosa" (Napoli, Bibl. nazionale, ms. X. B. 80, Voiosdel Collateral, ff.136v-140v). L'anno seguente, non a caso, fu il marchese di Fuscaldo a svolgere nel Parlamento la relazione favorevole al donativo, che valse a strappare l'approvazione fino allora negata.
Nella difficile situazione che precedette la crisi del '47 il C. non mancò di assumere atteggiamenti favorevoli al baronaggio e, sebbene lo Schipa lo consideri tra i magistrati più legati agli Spagnoli, non dové mancargli qualche solido aggancio col partito aristocratico favorevole ai Francesi, se nel 1647 il duca di Guisa poté nominarlo provvisoriamente luogotenente della Sommaria e se poté includerlo nella commissione ristretta di giuristi da cui si attendeva il rigetto della proposta formulata dalla "piazza" del popolo per la nomina di un Senato. Popolare e repubblicano egli certo non fu, nonostante i rapporti con Antonio Basso e l'ambiguo comportamento (comune peraltro con quello dei suoi colleghi) nella questione relativa al Senato. Del resto, se nel 1648 si attendeva di ora in ora da Madrid la sua nomina a reggente del Collaterale, come testimonia il Magnati, già nel 1647 egli aveva ottenuto il medesimo rilevante incarico, per di più nel ruolo di rappresentante al Consiglio d'Italia. Il C. tuttavia rinunciò allora all'ufficio, adducendo motivi di salute che gli impedivano il viaggio in Spagna, e le fonti concordano nel riconoscere nel suo gesto un segno ulteriore del suo chiuso carattere.
Nel suo atteggiamento però dové incidere soprattutto la sua vocazione di funzionario, disposto a sopravvivere a qualsiasi regime con le armi della sua dottrina, restio ad abbandonare la capitale nel momento di una crisi politica che si mostrava aperta ai più imprevedibili sviluppi. Per di più lo legavano al Regno rilevanti interessi economici: più tardi egli si rammaricò di aver perduto, "nei passati tumulti", "grossissima parte della sua facultà in più di ducati centomilia effettivi, et de contanti" ch'egli traeva dagli "arrendamenti" della città di Napoli, "oltre l'altre perdite grosse fatte con la Regia Corte, et particulari di molte altre migliara de ducati".
Benché resti oscuro lo svolgimento esatto della sua carriera in quegli anni drammatici (entrò probabilmente a far parte, in un anno imprecisato, della cancelleria del Collaterale), certo è che dopo la crisi rivoluzionaria era ancora fra i presidenti della Sommaria. Dai Notamenti del Collaterale successivi al 1648 egli appare ancora in tal veste, ad esempio il 5 nov. 1649; mentre solo a partire dal marzo del 1655 è testimoniata con sicurezza la sua qualità di reggente nello stesso Consiglio, cui fu elevato, secondo il Toppi, l'11 febbraio dello stesso anno. Ricoprì peraltro la carica per breve tempo: l'ultima seduta cui ebbe modo di intervenire fu quella del 19 giugno 1656. Morì infatti alla fine di luglio nel corso della violentissima peste che devastò la città.
Dispose col suo testamento di un patrimonio ingentissimo, tenuto sempre al riparo da ogni rischio con una parsimonia leggendaria fra i contemporanei. Non lasciava eredi diretti, sicché riservò la gran parte dei beni alla fondazione e dotazione della chiesa e monastero femminile di S. Maria della Provvidenza, detta poi dei Miracoli. Nel testamento stabilì regole minutissime per la quotidiana esistenza delle suore, che spesso rivelano il devozionalismo di cui si nutriva il suo sentimento religioso. Somme particolari destinò al compimento di una cappella nel duomo di Castellammare, e soprattutto al completamento di una cappella in S. Lorenzo di Napoli, già iniziata da Cosimo Fanzago, per la quale raccomandava di "non farla a capriccio d'esso Cosmo, come ha fatto per lo passato con molto danno del mio patrimonio". Essa rappresenta tuttora un'esemplare antologia del barocco napoletano, non solo per il disegno architettonico, le pitture dello Stanzione e le sculture di Andrea Bolci, ma anche per l'intervento diffuso di un artigianato minore di rara eleganza.
In fondo fu questa cappella il monumento principale che gli sopravvisse. A parte le poche allegazioni pubblicate a stampa in varie raccolte (B. De Angelis, F. Scaglione, D. A. De Marinis), in cui compare una larghissima erudizione (notevole in una d'esse l'excursus storico sulla "bonatenenza"), resta di lui manoscritto un Discorsosulle dignità de' titoli e grandati di questo Regno di Napoli (Napoli, Bibl. della Soc. nap. di storia patria, ms. XXIII.A.4), che affrontava i temi genealogici correnti nella letteratura napoletana della metà del Seicento, e che esprimeva, nell'abbandono delle impostazioni umanistiche più incisive, un ripiegamento su concezioni meccaniche e formalistiche delle gerarchie sociali.
Fonti e Bibl.: Varie notizie soprattutto nel testamento e nei codicilli (Napoli, Arch. di Stato, Monasteri soppressi: Monastero dei Miracoli, fascio 3938). Del testamento, intorno al 1675, fu stampata a Napoli la parte: Capitoli concernenti l'erettione,istruttioni,et modo da osservare nel Monasterio istituito dal quondam... G. C. Cacace. Qualche brano, relativo alla medesima istituzione, in G. Ceci, I reali educandati femminili di Napoli, Napoli 1900, pp. 7-11. La parte relativa alla cappella in S. Lorenzo, tratta da un diverso fondo archivistico, fu pubblicata da G. Filangieri, nei Documenti per la storia,le arti e le industrie delle provincie napoletane, II, Napoli 1884, pp. 225-231. Una documentazione amplissima sull'attività di magistrato nei fondi dell'Arch. di Stato di Napoli, soprattutto Arch. della Real Camera della Sommaria e del Collaterale. Presso la Bibl. naz. di Napoli (ms. X. B. 80) è il vol. di Voios del Collateral, in cui è registrata la vicenda del 1638, riassunta anche da F. Capecelatro, Degli annali della città di Napoli, Napoli 1849, pp. 104 s. e 115 s. Fra le testimonianze dei contemporanei cfr. G. C. Capaccio, Il forastiero, Napoli 1634, p. 605; F. Capecelatro, Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650, I, Napoli 1850, p. 88; II, ibid. 1852, pp. 318, 335, 361 (ivi le lettere di F. Magnati); C. Cafaro, Speculum peregrinarum quaestionum, Neapoli 1665, pp. 81 s.; C. Celano, Notizie del bello,dell'antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1870, V, pp. 405, 413, 416. Particolarmente importanti gli Avvertimenti ai nipoti di F. D'Andrea, pubbl. da N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento: Francesco D'Andrea, Napoli 1923, pp. 68 s., 78, 108 s., 241 s. Dal D'Andrea deriva P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, lib. XXXVIII, cap. IV (nell'ed. Napoli 1770, V, p. 361). Biografie accurate sono quelle di N. Toppi, De origine tribunalium urbis Neapolis, III, Neapoli 1666, pp. 227-234; e di L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, I, Napoli 1787, pp. 143-45. Alcuni cenni contengono le varie storie della cultura nel Regno. Singole notizie si traggono poi da [G. L. Torrese], Diligentissima neapolitanorum doctorum nomenclatura, Neapoli 1647, p. 4; C. Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. storico per le prov. nap., V (1880), p. 149; M. Schipa, La congiura del principe di Montesarchio (1648),ibid., n.s., V (1920), p. 216; R. Trifone, Uno sguardo agli scritti dei giuristi napoletani del Seicento, in Scritti minori, Bari 1966, p. 369; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1647), Bari 1967, p. 237 n.; R. De Maio, Società e vita religiosa a Napoli nell'età moderna (1656-1799), Napoli 1971, p. 117 n.