SAGRESTANI, Giovanni Camillo
– Nacque il 15 dicembre 1660 a Firenze, nel popolo di S. Lorenzo, da Domenico di Antonio e da Caterina di Andrea Gotti.
La registrazione di battesimo presso l’Archivio dell’Opera del duomo (Bellesi, 1996, p. 96 nota 100) conferma l’esatta data di nascita riportata nel Ritratto dedicato a Sagrestani nel 1764 da Orazio Marrini, nel quale si tiene conto, non senza integrazioni, dei precedenti giudizi sul pittore ‒ l’uno positivo, decisamente denigratorio il secondo – espressi da Pellegrino Antonio Orlandi (1719) e da Francesco Maria Niccolò Gabburri (ante 1741). Le tre testimonianze settecentesche, per quanto illuminanti sotto diversi aspetti, non forniscono elementi sostanziali per ricostruire la cronologia professionale e il catalogo delle opere di Sagrestani, geniale capofila a Firenze di quella nouvelle vague antiaccademica, nata sulla scia delle estrose sperimentazioni di Pier Dandini e Alessandro Gherardini, e in antitesi rispetto all’imperante cultura classicista di Anton Domenico Gabbiani e Antonio Puglieschi, che tanta fortuna ebbe in Toscana nella prima metà del Settecento segnando il passaggio dal tardo barocco al rococò.
I pionieristici studi dedicati a Sagrestani da Mina Gregori (1965) e da Gerhard Ewald (1974) hanno dato impulso al progressivo incremento del catalogo dell’artista, con l’aggiunta negli anni di numerosi dipinti assegnatigli per evidenze stilistiche o documentarie (Meloni Trkulja, 1990; Bellesi, 1990, 1999, 2009, 2013), oppure riconosciuti fra quelli riferiti in un primo tempo agli allievi Ranieri Del Pace e Matteo Bonechi (Spinelli, 1995), con i quali il maestro si era trovato non di rado a collaborare.
Sebbene l’iter professionale di Sagrestani – tuttora in attesa di uno studio sistematico – appaia oggi abbastanza chiaro e perfettamente inquadrato nel contesto artistico dell’epoca (Rudolph, 1974; Chiarini, 1990; Gregori, 2006; Bellesi, 2009), molti sono ancora gli interrogativi gravanti sul primo ventennio di attività, quando il giovane pittore, a detta dei biografi, si assentò più volte da Firenze per prolungati soggiorni a Roma, Venezia, Parma e Bologna (elencati sempre in quest’ordine). Al fine di verificare l’esatta sequenza e l’effettiva scansione di tali spostamenti, anteriori al documentato rientro a Firenze nel 1691, si rivelano preziosi – per quanto poco considerati sotto questo aspetto – i molteplici riferimenti a sé stesso che Sagrestani, in veste di biografo, disseminò qua e là nelle Vite di artisti redatte in forma manoscritta, a partire dal 1716, per ‘ritrarre’ con piglio giocoso, tipico della tradizione aneddotica toscana, ventuno personalità dell’arte (fiorentine e non) conosciute nell’arco della carriera (trascrizioni delle Vite..., in Bigongiari, 1964; Matteoli, 1971).
La prima notizia biografica riguardante Sagrestani la fornisce lui stesso quando ricorda, in un passo della Vita di Simone Pignoni, di aver prestato il proprio volto in età infantile all’angelo raffigurato in primo piano nella pala con la Madonna col Bambino e i ss. Antonio da Padova e Michele arcangelo, eseguita dal più maturo pittore fra il 1669 e il 1671 per la cappella Donati nella Ss. Annunziata. Tale inserto autobiografico, indice senza dubbio di una precocissima frequentazione fra i due artisti, ha alimentato l’ipotesi di un plausibile alunnato (Bigongiari, 1964, p. 175), peraltro giustificato dalla persistente eco pignoniana filtrante da alcuni dipinti di Sagrestani. Tuttavia i tre biografi del pittore tacciono a tale riguardo e indicano invece, quali suoi maestri a Firenze, Antonio Giusti e Romolo Panfi, l’uno specializzato nella pittura di paesaggi e animali, l’altro nel genere delle battaglie sull’esempio di Salvator Rosa e Pandolfo Reschi.
Il titolo di «accademico» conferitogli al momento dell’immatricolazione all’Accademia del Disegno nel 1684 (Gli Accademici del Disegno..., 2000) lascia intuire che Sagrestani già vantasse a quella data un curriculum formativo di tutto rispetto, frutto di molteplici e variegate esperienze susseguitesi all’indomani dell’apprendistato fiorentino. Sembra infatti probabile che, al pari del coetaneo Puglieschi, egli si fosse recato a Roma prima del 1680 per aggiornarsi sulla più avanzata pittura locale e sulle opere lasciatevi da Simon Vouet, al quale rimase sempre «molto divoto» (Gabburri, ante 1741).
L’attestata permanenza di Sagrestani a Bologna, nella «fioritissima scuola» di Carlo Cignani, dovette invece protrarsi dal 1681 al 1683, i due estremi che delimitano la presenza in città del maestro bolognese fra il suo rientro da Parma e il definitivo trasferimento a Forlì. Durante il biennio trascorso nella bottega di Cignani – che, in procinto di abbandonare Bologna, lo avrebbe raccomandato «alla direzione di Cesare Gennari» (Marrini, 1764, p. XVII) – Sagrestani ebbe modo di entrare in familiarità con i condiscepoli Sebastiano Ricci, giunto da Venezia alla fine del 1681, e Giuseppe Maria Crespi, ambedue figure nodali per l’evoluzione stilistica del pittore fiorentino.
Tornato a Firenze nel 1684, Sagrestani risulta attivo l’anno seguente, accanto a Puglieschi, nella chiesa di S. Maria delle Grazie a S. Giovanni Valdarno (Arezzo).
Lo attesta la ricevuta autografa, datata 15 settembre 1685, con la quale il pittore certificò alle monache il percepito compenso di trenta ducati «per la fattura e spese di una tavola da altare entrovi la Ss.ma Annunziata e un quadretto entrovi Santo Agostino» (Sacchetti Lelli, 2002, p. 174). La recente identificazione delle citate pitture di Sagrestani con due pale presenti nella chiesa valdarnese, l’Annunciazione sull’altar maggiore e la Madonna della Cintola con i ss. Monica e Agostino (Sacchetti Lelli, 2002; Fornasari, 2003) – la seconda delle quali non certo definibile «quadretto», date le sue dimensioni ragguardevoli – di fatto stona con l’esiguità del compenso dichiarato (peraltro comprensivo delle spese) e con i dati di stile esibiti dalle due tavole, a evidenza riconducibili alla mano di Puglieschi, al quale vengono concordemente assegnate, insieme all’affresco nel soffitto documentato al 1685, da fonti settecentesche locali e dagli studi sul pittore (da ultimo Bellesi, 2009, p. 233). Vista l’intitolazione della chiesa alla Madonna delle Grazie, appare verosimile che le religiose valdarnesi, conformemente a una prassi devozionale diffusa in Toscana, avessero commissionato a Sagrestani una perduta riproduzione (più o meno fedele) della miracolosa immagine della ss. Annunziata di Firenze, dispensatrice di grazie e perciò oggetto, per tutto il Seicento e oltre, di costante ‘esportazione’ tramite copie.
Il mancato versamento della tassa annuale all’Accademia del Disegno per cinque anni consecutivi (Gli Accademici del Disegno..., 2000) circoscrive fra la fine del 1685 e il 1690 il secondo periodo di assenza di Sagrestani, ansioso di spaziare al di là della cultura classicista testata a Roma e a Bologna. Il suo arrivo a Parma, «portatosi di Fiorenza per ivi studiare la famosa cupola dell Correggio [sic]», coincise, come narra l’artista stesso nella Vita del fiorentino Domenico Bettini, «pittore di fiori e animali», con l’improvvisa partenza di questo per Modena, avvenuta allo scadere del 1685 (Matteoli, 1971, pp. 199, 230 nota 122).
Nella Vita di Sebastiano Ricci Sagrestani racconta invece di aver in seguito condiviso la medesima locanda a Parma con il pittore bellunese, chiamato dal duca Ranuccio II Farnese per dipingere i quadri con «dentro e’ fatti de’ suoi antecessori» per la Cittadella di Piacenza (p. 201), impegno di fatto protrattosi dal 1687 al 1688. L’amichevole frequentazione parmense con Ricci potrebbe aver invogliato Sagrestani a prolungare il suo tirocinio itinerante con una tappa finale a Venezia per studiare, fra le altre, le pitture lasciatevi da Luca Giordano. L’interesse per le opere veneziane del «valente et universale proffessore» napoletano, elencate una a una nella relativa biografia (pp. 200 s.), trova immediato riscontro nella copia autografa, già datata intorno al 1720 (Marabottini, 1975, tav. XLV), che Sagrestani trasse dalla giordanesca Natività della Vergine in S. Maria della Salute poco prima del rimpatrio nel 1691, anno che segnò la costante ripresa dei suoi pagamenti all’Accademia del Disegno (Gli Accademici del Disegno..., 2000).
L’ulteriore aggiornamento a Firenze sullo stile di Giordano grazie alle opere da questo eseguite per i Corsini, i Riccardi e in S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1682, 1685-86) – o tramite l’originale interpretazione fornitane da Alessandro Gherardini – guidò Sagrestani, ormai trentenne, nella ricerca di uno stile personale che trova il suo incipit nelle dodici tele ex voto con i Miracoli della Ss. Annunziata (Firenze, convento della Ss. Annunziata), dipinte per il frate servita Mansueto Guelfi fra il 1694 e il 1695 (Casalini, 1971; Cecchi, 2014), e nella giordanesca Cena in casa del fariseo di poco posteriore (coll. priv.; Bellesi, 2009, III, fig. 1455). Questo primo periodo fiorentino, teso a convogliare in un’unica direzione le diverse esperienze maturate a Roma e in Norditalia, culminò nel 1702 nella documentata decorazione della cappella intitolata a S. Maria Maddalena dei Pazzi in S. Frediano al Cestello (Bellesi, 1990, p. 215).
Se la pala d’altare con S. Agostino scrive sul cuore di s. Maria Maddalena dei Pazzi fonde reminiscenze berniniane con la lezione bolognese, le Virtù della santa e la sua corale apoteosi affrescate nei pennacchi e nella cupoletta – prime opere realizzate da Sagrestani con questa tecnica – scaturiscono invece da una personale rimeditazione su Correggio e Cignani.
Il decennio intercorso fra le opere in S. Frediano e l’esecuzione nel 1713 della pala Capponi in S. Spirito con il Matrimonio della Vergine, punto di arrivo ed espressione conclamata dell’avvenuta sterzata antiaccademica (da ultimo Berti, 2009, p. 92 n. 15), si rivelò cruciale per Sagrestani. Fu nel corso di questo decennio che il pittore, non immune da sollecitazioni esterne, elaborò per gradi una propria forma di linguaggio nata dalla fusione di sperimentazioni stilistiche diverse, poi unificatesi in un idioma di timbro internazionale.
Degli sforzi compiuti per coniugare i modi corretti e definiti di Cignani con l’equilibrata eleganza tutta fiorentina del tardo Pignoni rendono testimonianza la pala con Santi in adorazione della Vergine addolorata nell’oratorio di S. Niccolò a Vernio (Prato), documentata nel 1705 (Bellesi, 1999, pp. 65 s., 105 nota 75, fig. 64), la solenne Matilde di Canossa in atto di donare alcune terre, dipinta l’anno successivo per S. Bartolomeo a Badia a Ripoli (Ceccobelli, 1996), e la tela con S. Luigi di Francia (Roma, Galleria Gasparrini), già nella cappella della villa Tempi di Poggio alla Scaglia presso Firenze (Gregori, 1965, p. 59 n. 38; Visioni ed estasi, 2003, p. 196 n. 9), nonché probabile preambolo all’affrescatura, intorno al 1710, della galleria di questa villa per mano di Sagrestani coadiuvato da Del Pace. All’affresco Tempi, rivelatore di un primordiale orientamento al rococò, si riconnette il bozzetto autografo di proprietà privata relativo al gruppo con Europa attorniata dalle ancelle (Spinelli, 1995, p. 115, figg. 2-3).
La Madonna del Rosario nel Tempio Malatestiano di Rimini, capolavoro situabile fra il primo e il secondo decennio del Settecento (Bellesi, 1996; Pasini, 2001, pp. 82 s.), funge invece da trait d’union fra le componenti pignoniane e cignanesche da un lato e l’impiego di vibranti stesure di colore ‘a macchia’ dall’altro.
Del potenziale insito in questa nuova concezione della pittura, più concentrata sugli effetti cromatici che sulla correttezza del disegno di tradizione accademica, Sagrestani dovette prendere coscienza grazie anche all’esame diretto dei modelli e dei bozzetti – le cosiddette ‘macchie’ – eseguiti da Giordano in preparazione dell’affresco della galleria Riccardi ed esposti nel 1705 alla mostra dell’Accademia del Disegno nei chiostri dell’Annunziata. L’uso spregiudicato e anticonformista della ‘macchia’ da parte di Sagrestani sollevò le dure critiche di Gabburri (ante 1741), che scorse in «quella facilità e quella speditezza» i «capitali difetti» trasmessi dal pittore, insieme al «morbo pestifero dell’ammanierato», ai tanti giovani che ne frequentarono la «scuola aperta», bollata quale «seminario di errori».
Esempi eclatanti del graduale evolversi dello stile ‘a macchia’ adottato da Sagrestani – da premesse giordanesche a esiti sempre più affini all’arte rocaille – sono le otto telette con Storie della Vergine nella chiesa di S. Margherita de’ Ricci, risalenti al 1707 (Tassi, 1998, tavv. 97-98), i due ovali con Storie di s. Benedetto, dipinti intorno al 1710 per S. Dalmazio a Volterra (Barbera, 1979, pp. 27 s., tav. XII), e S. Verdiana parte per il pellegrinaggio a Santiago de Compostela, l’unico autografo di otto ovali con storie della santa realizzati con il concorso della bottega entro il 1711 per la chiesa di S. Lorenzo a Castelfiorentino (oggi presso la locale confraternita della Misericordia; Spinelli, 1995, p. 116, fig. 3). A quell’anno risalgono pure, per la medesima chiesa, la pala con S. Verdiana distribuisce i grani ai poveri, documentata dal modellino presso il Fogg Art Museum a Cambridge (Mass.), e il pendant con S. Verdiana guarisce un bimbo ferito, assegnabile per dati di stile all’allievo Giuseppe Moriani ma preceduta da un veloce bozzetto a olio su carta (Riccomini, 2016) e da due modelli su tela a evidenza autografi di Sagrestani (Spinelli, 1995, pp. 117 s., figg. 10-12).
La presenza a Firenze dal 1706 al 1707 di Ricci, attivo in palazzo Marucelli e nella reggia di Pitti, spronò Sagrestani a schiarire la tavolozza impostandola su tinte ‘alla veneta’, algide e madreperlacee, e a rendere nel contempo ancor più fluide e guizzanti le pennellate in vista di esiti pittorici ‘a macchia’ del tutto originali e inediti per l’epoca, come i panneggi sfaccettati o i drastici trapassi di luce e ombra. Di questa importante svolta, non disgiunta da un coevo interesse per le ardite invenzioni prospettiche diffuse in Toscana da padre Andrea Pozzo (Gregori, 2006, pp. 24 s.; Spinelli, 2009, p. 38), sono testimoni i noti affreschi in due sale al piano nobile di palazzo Capponi – l’Allegoria dei Quattro Elementi, documentata nel 1707, e le coeve Scene dalle Metamorfosi (Amori di Giove) – eseguiti entrambi in collaborazione con Bonechi (Gregori, 2006, p. 17, figg. 14-15; Bellesi, 2009, III, p. 284, fig. 1453; Leonelli, 2015, pp. 166 s., figg. 152, 157-159). A queste radiose scene di gusto arcadico, dove la verve esecutiva e l’incorporea levità delle figure vanno di pari passo con il pieno possesso del sottinsù, seguirono lo sfondato con la Gloria di s. Tommaso d’Aquino, affrescato nel 1710 nella volta dell’oratorio omonimo con l’ampia partecipazione di Del Pace (Spinelli, 1995, p. 114, fig. 1), i citati affreschi Tempi a Poggio alla Scaglia, e la spettacolare e del tutto autografa Glorificazione di casa Tempi, già nella volta del salone da ballo di palazzo Tempi a Firenze (poi Bargagli Petrucci) e databile all’aprirsi del secondo decennio del Settecento (Ginori Lisci, 1972, p. 78). Non insensibili alla lezione di Ricci appaiono pure il coevo Perseo impedisce il matrimonio della madre, dai toni teatrali e affrescato a mo’ di quadro riportato, in palazzo Magnani a Firenze (Bellesi, 2009, III, p. 285, fig. 1454), e le due redazioni del Mosè salvato dalle acque su tele di grandi dimensioni, l’una nel Museo di Casa Martelli (Civai, 1990), l’altra recentemente riemersa in una raccolta privata (Bellesi, 2013, pp. 85 s., fig. 58).
Un ruolo importante nell’evoluzione stilistica di Sagrestani ebbe infine la diretta conoscenza dell’arte francese tramite l’arazzeria medicea, con la quale il pittore collaborò stabilmente a partire dal 1715 per la realizzazione dei modelli preliminari alla serie di arazzi con le Quattro parti del mondo – quello relativo all’Europa è stato reso noto di recente (Baldassari, 2005) – e per tre delle quattro portiere con gli Elementi (da ultimo Innocenti - Tempestini, 2009, pp. 151 s., n. 41).
Tanto il distrutto affresco Tempi – tramandato da riproduzioni fotografiche e da un modellino in collezione privata a Venezia (Meloni Trkulja, 1990, p. 861; Bellesi, 2009, III, p. 287, fig. 1457) – che il citato Matrimonio della Vergine in S. Spirito segnano dunque il passaggio alla più nota fase matura di Sagrestani, ormai all’apice della carriera e a capo di una fiorente bottega.
Nel 1715 Sagrestani percepì dai padri oratoriani l’ingente somma di 234 scudi per aver eseguito la grande tela con S. Filippo Neri in gloria, incastonata al centro del soffitto ligneo di S. Firenze e preceduta da almeno quattro modellini preparatori, uno dei quali, di smagliante qualità e aderente alla versione finale, è stato recentemente rintracciato in collezione Costa a Forlì (Bellesi, 2008, I, pp. 153 s., 161 nota 13; 2013, pp. 86 s., fig. 59).
Alla celebre composizione oratoriana, dove nubi disposte su piani sfalsati scandiscono il moto ascensionale delle figure, seguì nel 1716 il documentato intervento di Sagrestani, al fianco di Bonechi, Moriani, Del Pace e altri pittori, nella decorazione del santuario di S. Verdiana a Castelfiorentino con l’affrescatura della Morte di s. Verdiana nel cupolino di una cappella laterale (Improta, 1986). Al 1716 risale pure la grande tela con S. Domenico resuscita Napoleone Orsini, dipinta da Sagrestani e Bonechi per la cappella del Sacramento in S. Maria Novella a Firenze, pendant con S. Domenico brucia i libri degli albigesi, firmato e datato in quell’anno da Del Pace (oggi entrambi nell’annesso museo; Spinelli, 1995, pp. 125 s., figg. 41-43).
Fra il secondo e il terzo decennio del Settecento, entro cui si scalano alcune note pale d’altare – la Sacra Famiglia con i ss. Anna e Girolamo, dipinta intorno al 1715 per la chiesa di S. Giusto a Ema; il Compianto su Cristo morto e la Resurrezione, di poco successivi, nel monastero di Camaldoli (Fornasari, 2001); il Martirio di s. Andrea del 1722 (Firenze, conservatorio delle Mantellate); S. Rocco soccorre gli appestati, S. Rocco intercede presso la Vergine e Morte di s. Rocco eseguiti fra il 1724 e il 1727 per la cappella dedicata al santo nella cattedrale di S. Miniato (Pellegrini, 2004, pp. 163 s., figg. 133, 136-137) –, Sagrestani usò replicare in formato ridotto, talora con l’intervento della bottega, alcune sue pitture. Emblematico è il caso della triade mariana degli Uffizi, databile verso il 1720 e comprendente, insieme all’Annunciazione, derivazioni autografe dal Matrimonio della Vergine in S. Spirito e dal Compianto di Camaldoli (Chiarini, 1979, I, nn. 1402-1404; Berti, 2009, pp. 204 s., n. 67).
La fase tarda di Sagrestani fu caratterizzata da un progressivo abbassarsi dei toni della tavolozza e dal ritorno a schemi compositivi semplificati, di sentore quasi ‘controriformato’. Del lento percorso à rebours compiuto dal pittore rendono conto l’Apparizione della Vergine a s. Bernardo di Chiaravalle, affrescata nel 1721 nel convento di S. Frediano al Cestello (Bellesi, 1990, pp. 215, 217, fig. 23), la pala con la Crocifissione in S. Firenze, documentata nel 1727 (Bellesi, 2008, I, p. 162 nota 42), e il Transito di s. Giuseppe nella chiesa dei Ss. Quirico e Leonardo a Vernio, databile intorno al 1729 (Bellesi, 1999, pp. 66 s., 77, fig. 65).
Afflitto da gravi problemi finanziari, Sagrestani morì a Firenze il 7 maggio 1731 e fu sepolto in S. Margherita de’ Ricci, sua parrocchia (Marrini, 1764, p. XVIII; Bellesi, 1996, p. 96 nota 100), «lasciando miserabilissima la sua numerosa famiglia, quantunque avesse guadagnato assaissimo» (Gabburri, ante 1741).
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